31.8.06

 
Repubblica 31.8.06 Prima pagina
LA DISCUSSIONE
Socialismo? Parliamo invece di capitalismo
di ALAIN TOURAINE


I TEORICI
TRA SOCIALISMO E CAPITALISMO
Dopo 30 anni di neoliberismo, adesso una "sterzata" a sinistra

Il successo del capitalismo è stato amplificato dalla globalizzazione, oggi l'opinione pubblica vuole che i dirigenti limitino l'onnipotenza di mercati e imprese
Chi può dirigere la lotta per un sistema di protezione sociale contro nuove diseguaglianze? Nel caso italiano è al governo che bisogna guardare

SOCIALISMO è una parola confusa, usata dalle persone più diverse per esprimere le opinioni più varie. Lasciamolo dunque da parte. In compenso, parlare contro il capitalismo non soltanto è più che sensato, ma è anche molto più di attualità di quanto la maggior parte delle persone non creda.
Ciò che definisce il capitalismo è l´eliminazione dei controlli sociali, politici o di altro genere che limitano gli attori economici. Quando sono liberi, vale a dire non controllati, questi attori esercitano un autentico potere sulle altre istituzioni, che devono sempre, per parte loro, tener conto degli interessi dei dirigenti dell´economia. Il riferimento a questo potere fa parte del concetto stesso di capitalismo. Questa libertà, questa stessa onnipotenza dei dirigenti dell´economia è una componente necessaria della modernizzazione. Non ci sono mai stati grandi sviluppi economici senza una fase di capitalismo che possiamo addirittura definire "selvaggio". La Gran Bretagna e poi gli Stati Uniti ne sono stati i grandi esempi. Oggi è la Cina a essere il Paese più capitalistico del mondo.
Ma la modernizzazione esige anche che dopo una fase di libertà estrema delle forze economiche dominanti arrivi una fase opposta dove compaiono nuovi interventi pubblici promossi da sindacati e partiti che vogliono soprattutto una redistribuzione del reddito. Questa alternanza rappresenta la formula di base dello sviluppo economico. Non c´è sviluppo senza capitalismo e senza anticapitalismo. Ma molti preferiscono, alla successione di queste due fasi, un sistema misto permanente che combini accumulazione e redistribuzione. È questo sovente il caso degli europei e, in particolare, dei tedeschi, che hanno appena votato per un´economia aperta e competitiva, ma anche per il mantenimento della Sozialmarktwirtschaft (economia sociale di mercato), che è una delle forme principali di quello che Delors ha definito "il modello sociale europeo".
Il problema reale di fronte a cui ci troviamo è di scegliere, non tra capitalismo e socialismo, ma tra il sistema dell´alternanza e quello della combinazione permanente di un´economia aperta e di una forte azione di redistribuzione. Gli avversari dell´alternanza temono che questo sistema rafforzi le tensioni e i conflitti sociali. I nemici dei sistemi misti temono che la redistribuzione non vada a beneficio dei poveri ma di determinati settori delle classi medie, in particolare nel settore pubblico. I sostenitori del capitalismo, da parte loro, accusano i loro avversari di entrambi i campi di spingere talmente in là il Welfare State da strozzare la crescita e creare un deficit di bilancio che può essere colmato solo facendo crescere il debito pubblico, quindi attraverso un prelievo anticipato sul reddito della generazione successiva.
Quale posizione bisogna adottare oggi? La risposta deve tener conto della nostra situazione storica. Noi viviamo, dall´inizio degli anni 70, in una fase che viene definita neoliberista, e che ha preso il posto dell´economia "amministrata" che dominava la maggior parte del mondo all´indomani della Seconda guerra mondiale. Questo successo del capitalismo è stato amplificato dalla globalizzazione che ha accresciuto la libertà delle imprese, soprattutto di quelle finanziarie, rispetto agli Stati e soprattutto ai sindacati, che in molti Paesi stanno perdendo di importanza.
Oggi, l´opinione pubblica tende a chiedere un riequilibrio in favore dei salariati e delle spese sociali. È sbigottita dalle notizie degli scandali che sono avvenuti nelle grandi imprese, e dalla pioggia d´oro che ricevono molti manager. I lavoratori si indignano per il fatto che le loro imprese vengano delocalizzate anche quando sono in attivo e realizzano profitti. I movimenti no global, meglio definibili come altermondialisti, organizzano forum e grandi raduni in tutte le parti del mondo. Ad attenuare questa pressione gioca il fatto che gli eventi che dominano l´attualità non sono di natura economica, ma religiosa e militare.
Malgrado questi ostacoli esiste, in particolare in Europa, un´evoluzione dell´opinione pubblica a favore di nuovi interventi dello Stato, e soprattutto contro la creazione di un´Europa alla Thatcher. L´opinione pubblica non vuole che la riforma necessaria del servizio sanitario e delle pensioni si traduca in una limitazione delle prestazioni.
Formulata in questi termini, la risposta alla domanda che abbiamo posto appare evidente: l´opinione pubblica si aspetta dai dirigenti che mettano dei limiti all´onnipotenza dei mercati e delle imprese. Chiede una "sterzata" a sinistra.
Ma una simile risposta non può bastare, perché non dice come, sotto la pressione di quali forze, si possa ottenere un cambiamento di direzione. I sistemi di previdenza sociale, creati all´indomani dell´ultima guerra, sono stati introdotti su iniziativa dei sindacati, e per proteggere soprattutto i lavoratori contro i rischi che li minacciano: incidenti, disoccupazione, malattia, vecchiaia. Chi può interpretare oggi quel ruolo motore che svolsero i sindacati mezzo secolo fa? Chi può dirigere una lotta per un nuovo sistema di protezione sociale che non riguardi soltanto i lavoratori, che protegga tutti contro nuovi rischi e nuove disuguaglianze: dipendenza senile, malattie mentali, conflitti tra minoranze, conseguenze della delocalizzazione, disuguaglianza di possibilità alla scuola, ecc.
Una simile pressione, che i partiti e i sindacati sono incapaci di esercitare, può essere esercitata da movimenti di base, associazioni, ong, in parole povere da quella che viene definita la società civile. Ma oggi non assistiamo a un rafforzamento di questo tipo di azioni di base. Stanno anzi perdendo forza in certi settori. Quantomeno nel caso italiano, è al governo che bisogna guardare. Malgrado la sua risicata vittoria elettorale, gode già di una forte riserva di sostegno nell´opinione pubblica, e questo sostegno aumenta. È probabilmente una tendenza generale nel mondo attuale, questa di limitare il sistema neoliberista e di incaricare il potere politico di difendere meglio la popolazione non privilegiata.
Dopo trent´anni di supremazia nel dopoguerra, l´economia amministrata è stata sostituita dal neoliberismo. Trent´anni sono passati. Ma non è il momento di far pendere la bilancia nell´altra direzione?

(Traduzione di Fabio Galimberti)

il manifesto 31.8.06
L'Ungheria in Italia
di Valentino Parlato

L'altroieri l'Unità pubblicava in prima pagina un articolo di Roberto Roscani, che aveva in apertura il testo di un breve messaggio di Giorgio Napolitano a Giuseppe Tamburrano, presidente della Fondazione Nenni. Napolitano dava atto a Pietro Nenni di aver avuto ragione, quando condannò l'intervento sovietico del 1956 in Ungheria. In effetti non si trattava di cosa nuova poiché Napolitano questa critica e autocritica l'aveva già resa pubblica da tempo e anche nel suo interessante volume autobiografico Dal Pci al socialismo europeo. Tutto normale, direi.
Ieri però la Repubblica si è scatenata con un editoriale di Miriam Mafai e due intere pagine con un articolo di Simonetta Fiori e interviste a Pietro Ingrao e Antonio Giolitti di condanna dell'invasione sovietica. A questo punto è inevitabile chiedersi perché tanta enfasi ora, su un fatto condannato da molto tempo. Certo che a leggere l'altroieri Giddens che dà per morto il socialismo e ieri quest'altro carico di accuse al vecchio Pci, viene il dubbio che non si tratti solo della damnatio memoriae di un partito che pure qualcosa di buono ha fatto, ma addirittura di affermare che tutti gli ideali di cambiamento dello stato di cose esistente vanno liquidati per sempre. Forse penso male - e contrariamente al detto di Andreotti - sbaglio anche. Ma la penso così.
Un discorso a parte sui «fatti d'Ungheria» del 1956 e, aggiungo, che le autocritiche (oggi assai più facili) dovrebbero essere contestualizzate con i fatti di allora. Certo, quella del Pci, fu una scelta grave, ma in che misura e come questa scelta fu condizionata dallo stato delle cose?
Nel 1956 ero nel Pci e i fatti d'Ungheria furono per me e per molti compagni, una mazzata, una vergogna tremenda. L'esecuzione, qualche mese dopo, di Nagy fu ignobile. Nel Pci l'agitazione non fu di superficie. Ci fu la presa di posizione di Giuseppe Di Vittorio, ci fu l'appello dei 101 intellettuali, anche nelle sezioni (ricordo la sezione Italia) la discussione fu aspra e appassionata. Non accettammo la linea del partito come disciplinati soldatini. Anche la dichiarazione di consenso che allora Napolitano fece (e che molto correttamente riproduce) certamente non fu serena e tranquilla. Tuttavia la maggioranza di noi (pur senza entusiasmi) rimase nel Pci. La domanda è perché ci siamo rimasti, perché nonostante, amarezza e vergogna, siamo rimasti «da questa parte della barricata»? Perché la maggioranza di noi non si è messa al seguito di Pietro Nenni?
Non intendo affatto giustificare, le conseguenze dell'invasione sovietica furono gravissime e sanguinose, ma cercare di ricordare - sul filo di una memoria un po' sconnessa - come stavano allora le cose.
In quei giorni Inghilterra e Francia con l'aiuto di Israele tentarono di occupare Suez, poi furono dissuasi dagli Usa, che per l'Ungheria non mossero un dito. C'era stato il XX Congresso del Pcus, che apriva alla destalinizzazione. L'Urss sembrava in rilancio di crescita con l'uomo nello spazio (nel 1957) e le altre iniziative con i paesi ex coloniali (conferenza di Bandung); si apriva l'epoca della «coesistenza pacifica». Insomma c'era ancora «la forza propulsiva» dell'Urss.
In Italia c'era stata la sconfitta alla Fiat e una violenta offensiva antioperaia, con minacce di mettere il Pci fuorilegge. E poi c'era il Pci.
Un Pci che per un verso subiva ancora un'influenza secchiana, tale che una rottura con l'Urss avrebbe provocato una sua grave spaccatura. E insieme un Pci che con l'intervista di Togliatti a Nuovi Argomenti e con l'VIII congresso del 1956, a ridosso dell'Ungheria, rimetteva in campo la svolta di Salerno e la via italiana al socialismo. C'era da sperare e da lavorare. C'erano ragioni per restare.
Tutto questo non vuole negare l'errore dei sovietici, ci fu e grave. Vale ricordare che quando movimenti di protesta ci furono in Polonia i sovietici non mandarono i carri armati, ma rimisero Gomulka al potere. L'errore è indiscutibile e pesa ancora, ma aprire una discussione meno strumentale sui fatti di 50 anni fa forse potrebbe essere ancora utile. Del tutto diversi - nella sostanza e nel contesto - i fatti di Cecoslovacchia del 1968.
È un altro discorso, anche dentro il Pci, come a qualcuno l'esistenza di questo giornale dovrebbe ricordare.

Corriere della Sera 31.8.06 Prima pagina
SINISTRA E STORIA
Ungheria: i Bis di una Svolta
di Gian Antonio Stella

Scrisse un giorno Marcello Veneziani, intellettuale di destra sconcertato per la rapidità di una svolta «senza alcun travaglio culturale» che gli puzzava un po' di scorciatoia: «Fini ha eliminato il fascismo come fosse un calcolo renale». Ecco: una battuta così su Giorgio Napolitano e il comunismo non la potrà fare mai nessuno.
Gli ultimi dubbi sono stati spazzati via dal modo in cui in queste ore è stata accolta l’ennesima fitta del cinquantennale travaglio dell’anziano leader migliorista. Il riconoscimento che Pietro Nenni e i socialisti, allora, avevano ragione.
«Parole come pietre», ha scritto Roberto Roscani, autore dello scoop sull’ Unità in cui si rivelava il contenuto nella lettera inviata dal capo dello Stato a Giuseppe Tamburrano, presidente della Fondazione Nenni. Parole che dovrebbero mettere in riga gli scontenti cronici: «In Italia, dove spesso le polemiche storiche sono pretesto per risse e linciaggi da parte della destra, qualcuno ha fatto finta che questa strada non fosse stata compiuta. Già venti anni fa, come rivendica nei suoi scritti, Napolitano riconobbe che "Giolitti aveva ragione". Oggi allarga il discorso alla sinistra italiana e ai meriti di Nenni».
Tamburrano concorda: «Per me quelle parole hanno un enorme valore. So bene che il Pci nel 1956 non avrebbe potuto rompere con Mosca; non ce n'erano le condizioni. Il partito si sarebbe lacerato». Anche se «guardando indietro con gli occhi di oggi...». Di più, spiega a Repubblica : «È implicito, in questo riconoscimento al Psi, un ripensamento del rapporto tra i due partiti. Evidente l’attribuzione al Pci della responsabilità della rottura a sinistra».
Giorgio Ruffolo, un altro socialista ammaccato per anni dall'ostilità tra compagni, rilancia: «È difficile che in Italia un esponente di primo piano della politica dichiari di avere sbagliato su una questione cruciale. Napolitano ha il coraggio, l'onestà e la statura per farlo».
Il Riformista , che pure vorrebbe sempre un passo in più da una sinistra moderna, si associa: il messaggio quirinalizio «ha un grande valore politico». Tesi sposata anche da Valdo Spini («non è solo qualcosa che appaga l'orgoglio socialista») e perfino, sia pure con un filo di ironia, da un socialista fino a tre mesi fa sottosegretario di Berlusconi come Mauro Del Bue. Secondo il quale le parole di Napolitano sono «musica per le orecchie di chi ha direttamente vissuto gli anni delle odiose polemiche del Pci contro i socialisti autonomisti»".
Evviva. Anche i più affezionati sostenitori della lunghissima marcia di «Lord Carrington», anche i più fieri teorici della prudenza e della «gradualità» della politica, anche i più strenui avversari di chi come Libero raffigura il Capo dello Stato nei panni di un commissario dei soviet col pugno chiuso da cui scorre il sangue, dovrebbero tuttavia ammettere che tanto compita e ammirata commozione per la lettera a Giuseppe Tamburrano suona, diciamo così, un tantino esagerata. E torna a segnalare uno dei grandi problemi di questo Paese: lo strascico di errori, ricordi, rancori, silenzi, odiii e rimozioni del passato che troppo spesso intralciano quel confronto tra la destra e la sinistra che è la linfa vitale di ogni democrazia.
Certo, Napolitano può ben sentirsi offeso dall'ennesimo esame del sangue 38 anni dopo il suo comunicato che condannava (sia pure prendendosela anche con le «forze reazionarie» tese a oscurare «il patrimonio storico delle conquiste dell'Unione Sovietica») i carri armati a Praga e 28 anni dopo il viaggio negli Usa e l'articolo su Rinascita in cui liquidava l'idea che i brigatisti fossero «marionette opportunamente travestite della reazione» per «fare invece i conti con le degenerazioni, fino al delirio ideologico e al crimine più barbaro, dell'ispirazione rivoluzionaria del marxismo e del movimento comunista». Fini nel '94 diceva ancora che Mussolini era stato «il più grande statista del secolo» e una manciata di anni dopo era, senza strilli di prefiche, a Palazzo Chigi. Né si può chiedere a un uomo che ha fatto della sobrietà e delle parole posate una ragion di vita (il laburista Denis Healy lo descriveva ridendo come «la migliore imitazione che conosca di un banchiere della City») liquidi il suo passato come il presidente di An liquidò il proprio, prima del fondamentale viaggio a Gerusalemme, in una intervista alle «Jene».
Tra la resa incondizionata tratta da «Un pesce di nome Wanda» che Albertini chiese un giorno a Bossi («Sono molto spiacente e mi scuso senza riserve! Offro completa e assoluta ritrattazione...») e l'interminabile sgocciolìo di parole distillate di decennio in decennio, però, c'è forse una via di mezzo. E se è vero che lui stesso sentì il bisogno qualche mese fa di chiedere a Fassino e D' Alema di «ammettere di avere fatto valutazioni sbagliate, di avere commesso errori nei giudizi su Consorte», il capo dello Stato ammetterà che fa un certo effetto leggere sull' Unità oggi, che «già venti anni fa», nel 1986, lui riconobbe che «Giolitti aveva ragione». Tesi, del resto, sostenuta dieci anni fa in un articolo scritto di suo pugno: «Non è da oggi che la "scelta di campo", ideologica e politica, contro la rivoluzione ungherese e a favore dell’intervento sovietico viene considerata indifendibile anche da non pochi di coloro che la condivisero e la sostennero: compresi i giovani dirigenti di quel tempo, come me, che già nel trentesimo anniversario dei "fatti d'Ungheria" hanno riconosciuto pubblicamente le ragioni dei "dissenzienti" di allora, le ragioni di Antonio Giolitti».
È tutto lì, in quelle quattro parole: «già nel trentesimo anniversario...». Rispettosamente: vorremmo ci venisse risparmiato, nel 2016, di leggere che «già nel cinquantesimo anniversario» dei fatti d'Ungheria fu riconosciuto che Piero Nenni aveva ragione. O almeno ci fosse condonato l'aggettivo «storico».

Repubblica 31.8.06
Il socialismo liberale e l’economia di stato
di Franco Debenedetti

"IL socialismo riformista ha creduto in un'economia mista", scrive Anthony Giddens (Il secolo Postsocialista, la “Repubblica”, 29 Agosto), un compromesso in cui i settori chiave dell'economia restavano sotto il controllo dello Stato, e che "era sembrato in grado di funzionare grazie ai meriti (…) della teoria economica formulata da un liberale, John Maynard Keynes”. "Oggi”, continua Giddens, “la domanda chiave è se anche questo tipo di socialismo sia morto". Oggi? Nel 2006? Singolare domanda: è dal 1919 che prima von Mises in "Gemeinwirtschaft" e "Kritik des Interventismus" per citare solo i principali e poi Hayek negli anni 30, hanno dimostrato in modo logicamente inconfutabile che quel "compromesso" non poteva funzionare: ben prima cioé che si manifestassero le conseguenze distorsive, diseguali e dispersive di risorse" a cui ha portato, secondo Giuliano Amato, la sua traduzione anche nei contesti socialdemocratici. Singolarissima porsela, quella domanda, in un articolo che segue quello di Amato. Fu infatti lui a smantellare, quattordici anni fa, in pochi giorni, a volte in poche ore, la struttura con cui lo Stato controllava settori chiave dell'economia e della finanza, e ad iniziare a mettere sotto controllo i costi diventati insostenibili del welfare. Amato è "fiero di essere socialista" (la “Repubblica”, 28 Agosto) consapevole che i termini "eguaglianza e libertà hanno finito per contrapporsi", e che liberal-socialista è diventato un ossimoro. Nella tensione che ne deriva, e nella capacità di trarne la forza per convincere chi, da sinistra, vi si oppone, sta la sola speranza per la sinistra di essere lei a realizzare l'agenda delle riforme che Giddens ci elenca.

Il Riformista 31.8.06
Così Napolitano ha smontato l’ultimo alibi
di Paolo Franchi

E' stato un bene che Giorgio Napolitano le abbia scritte, queste poche righe a Giuseppe Tamburrano, per rendere pubblica testimonianza che nel 1956 ebbe ragione Pietro Nenni e torto chi, come lui, di fronte alla tragedia ungherese, condivise la scelta togliattiana di tenere senza troppi tentennamenti il Pci «da una parte della barricata». Per rintuzzare una campagna di stampa di destra, certo, e pure per togliere di mezzo ambiguità ed equivoci in vista della sua imminente visita a Budapest. Ma anche, e soprattutto, per rendere omaggio alla verità. E, aggiungerei, per togliere ogni residuo alibi, a cinquant’anni dalla rivoluzione d’Ungheria, a quella parte della sinistra italiana, più vasta di quanto comunemente si creda, che questa verità tuttora preferisce non guardarla in faccia.
Ebbe ragione Nenni, il socialista che aveva pagato il prezzo amaro della rottura del socialismo italiano in nome del fronte popolare, il premio Stalin per la pace che dopo la morte di Stalin si era chiesto più commosso e atterrito ancora dei comunisti cosa ne sarebbe mai stato del proletariato mondiale; e che però alla vista di quell’insurrezione nazionale, democratica e operaia repressa nel sangue dai carri armati sovietici aveva lucidamente colto, anche oltre il dolore e l’indignazione, come si stesse ormai aprendo una crisi forse assai lunga ma irreversibile del sistema comunista. Ed ebbe torto Palmiro Togliatti, e con lui non solo la generazione forgiata nel tempo del legame di ferro con l’Unione sovietica, ma anche e soprattutto la leva degli allora trentenni, i rinnovatori nella continuità proprio in quel frangente promossi a responsabilità di comando. Ed ebbero torto non perché non vissero con angoscia quel dramma, ma perché con tutte le loro angosce vollero credere, all’opposto del socialista Nenni, di avere a che fare con una crisi terribile si, ma nel sistema. Dunque, con un sistema che prima o poi, purché non si smarrisse la bussola, purché si riuscisse a trovare l’equilibrio possibile tra le resistenze dei conservatori e le impazienze degli innovatori, si sarebbe potuto riformare.
Tutto già chiaro, tutto già ovvio, tutto già scontato? Può darsi. Ma resta il fatto che a quell’errore figlio del loro peccato originale i comunisti italiani, lungo tutto il faticoso cammino in cerca dell’indipendenza da Mosca, restarono in ultima analisi impiccati, nonostante il dissenso per l’invasione della Cecoslovacchia, nonostante lo strappo di Enrico Berlinguer, fino al tracollo dell’Unione sovietica. E che salvo poche eccezioni neanche quando smisero di chiamarsi e di considerarsi comunisti vollero riconoscere, con l’errore loro, la ragione storica di Nenni e di quella parte del socialismo italiano che cinquant’anni fa iniziava la sua lunga marcia autonomista. Tra tutti i dirigenti del Pci, Napolitano è stato senza ombra di dubbio il più rigoroso e il più coerente nel prospettare al suo partito, in Italia e in Europa, un destino socialdemocratico. E ne ha pagato, a suo tempo, anche il prezzo. Se la sinistra italiana si è dissanguata in una estenuante guerra civile, e un simile destino non si è pienamente compiuto e forse non si compirà mai, consegnandoci a vacui, ricorrenti dibattiti sulla crisi dell’idea stessa di socialismo pur di evitare di chiederci perché mai solo qui non ci sia un grande partito socialista, è anche per via di quell’antico torto mai riparato e di quell’antica ragione mai riconosciuta. Con le sue parole, Giorgio Napolitano ha contribuito anche a restituire spessore e attualità politica alla riflessione già aperta sull’indimenticabile cinquantasei.



Repubblica 31.8.06
GALILEO, POETA DELLA LUNA
Il grande scienziato fu anche grande scrittore. Se ne parlerà al Festival della Mente di Sarzana
di PIERGIORGIO ODIFREDDI

Secondo Italo Calvino fu il massimo autore della letteratura italiana. E sarebbe ora di affiancarlo a Dante nelle letture in pubblico
Leopardi scriveva senza tenere conto delle scoperte di Newton
Prima di lui il viaggio sul nostro satellite era genere "fantasy"

Galileo è il più grande scrittore della letteratura italiana di ogni secolo. Affermazione perentoria, questa, che certamente farà sorridere di sufficienza il lettore umanista, pronto a consigliare al matematico di preoccuparsi degli argomenti di sua competenza.
Peccato però che l´affermazione sia di uno dei nostri maggiori letterati: la fece infatti Italo Calvino sul Corriere della Sera il 24 dicembre 1967, non mancando di suscitare reazioni e proteste. Carlo Cassola, ad esempio, saltò su a dire: «Ma come, credevo che fosse Dante! E poi, Galileo era scienziato e non scrittore».
Senza desistere, Calvino rispose precisando il suo pensiero su due piani. Il primo, interno, rilevava che «Galileo usa il linguaggio non come uno strumento neutro, ma con una coscienza letteraria, con una continua partecipazione espressiva, immaginativa, addirittura lirica». Il secondo, esterno, notava che «Galileo ammirò e postillò quel poeta cosmico e lunare che fu Ariosto», e che «Leopardi nello Zibaldone ammira la prosa di Galileo per la precisione e l´eleganza congiunte».
In altre parole, Galileo sarebbe il medio proporzionale fra l´Ariosto e il Leopardi, e i tre identificherebbero un´ideale linea di forza della nostra letteratura. Inutile dire che Calvino stesso si considerava un punto di questa linea, caratterizzata da una concezione della letteratura come mappa del mondo e dello scibile, e da uno stile intermedio fra il fiabesco realista e il realismo fiabesco. E niente forse esibisce questa comunanza di stili, più delle parallele e quasi identiche metafore che Galileo e Calvino fanno della scrittura stessa, come di un´interminabile e ininterrotta linea creata dal movimento della penna.
Leggiamo, infatti, nel Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo: «Quei tratti tirati per tanti versi, di qua, di là, in su, in giù, innanzi, indietro, e ´ntrecciati con centomila ritortole, non sono, in essenza e realissimamente, altro che pezzuoli di una linea sola tirata tutta per un verso medesimo, senza verun´altra alterazione che il declinar del tratto dirittissimo talvolta un pochettino a destra e a sinistra e il muoversi la punta della penna or più veloce ed or più tarda, ma con minima inegualità».
E, nelle ultime righe del Barone rampante: «Questo filo d´inchiostro, come l´ho lasciato correre per pagine e pagine, zeppo di cancellature, di rimandi, di sgorbi nervosi, di macchie, di lacune, che a momenti si sgrana in grossi acini chiari, a momenti si infittisce in segni minuscoli come semi puntiformi, ora si ritorce su se stesso, ora si biforca, ora collega grumi di frasi con contorni di foglie o di nuvole, e poi s´intoppa, e poi ripiglia a attorcigliarsi, e corre e corre e si sdipana e avvolge un ultimo grappolo insensato di parole idee sogni ed è finito».
E allora, perché avviciniamo Calvino e gli scrittori per il puro piacere di leggere, e Galileo e gli scienziati soltanto per il dovere di conoscere? Non avrebbe senso portare le pagine del Dialogo sulle pubbliche piazze, allo stesso modo in cui Sermonti e Benigni declamano i versi della Commedia? Col vantaggio, fra l´altro, di non essere costretti a sorbirci gli anacronismi del povero padre Dante, che con i suoi angeli e demoni oggi ci appare più un precursore dei fumettoni alla Dan Brown, che il cantore di una moderna visione del mondo?
In fondo, a voler dir lo vero, sono proprio le bassezze cosmologiche, teologiche, filosofiche e politiche di un´opera che già il Petrarca accusava di esser diretta a «cercare l´applauso della gente d´osteria», a renderla così adatta agli altissimi spettacoli del nostro maggior comico. Ma non sempre e non tutti abbiamo voglia di ridere, e a volte qualcuno potrebbe desiderare la seria lettura di pagine che fossero nobili e alte anche per il pieno contenuto, e non soltanto per la vuota forma. E che quelle di Galileo lo siano, lo dimostra già la breve citazione precedente sulla scrittura: lungi dall´essere una gratuita metafora letteraria, essa gli serve infatti come esperimento di pensiero per mostrare la relatività del moto del pennino rispetto a una nave in moto su cui si trovasse lo scrittore.
Più in generale, la nave su cui Galileo naviga letterariamente costituisce uno dei laboratori in cui si eseguono gli ideali esperimenti scientifici del Dialogo, e il fatto che su di essa la vita si svolga nella stessa identica maniera che sulla Terra, ad esempio per quanto riguarda la caduta di una palla di piombo o il volo di un insetto, dimostra la relatività galileiana: il fatto, cioè, che le leggi della meccanica sono invarianti rispetto a sistemi in moto uniforme, che risultano dunque indistinguibili fra loro da questo punto di vista. Tre secoli dopo Albert Einstein userà analogamente treni e ascensori per argomentare a favore, rispettivamente, delle relatività speciale e generale: il fatto, cioè, che anche le leggi dell´elettromagnetismo sono invarianti rispetto a sistemi in moto uniforme, e che gravitazione e accelerazione producono effetti indistinguibili fra loro.
Ma niente dimostra meglio la differenza tra le metafore fini a se stesse della letteratura d´evasione, e quelle mirate a uno scopo della letteratura di divulgazione, dell´uso che Galileo fa della Luna nel suo Dialogo. Prima di lui, e fino all´Ariosto, il viaggio sul nostro satellite e la sua geografia appartenevano infatti al genere fantasy, e i viaggi spaziali erano sorretti da inverosimili propulsioni: dalle trombe d´acqua della Storia vera di Luciano di Samosata all´ippogrifo dell´Orlando Furioso.
Con la prima giornata del Dialogo la Luna invece cambia faccia. O meglio, mostra per la prima volta il suo vero volto, con i monti e le valli che il cannocchiale ha permesso di scoprire, e appare come la conosciamo oggi grazie alle foto dei telescopi, dei satelliti e degli astronauti. E anche meglio, perché né Galileo, né il più o meno contemporaneo Keplero, autore di quel primo romanzo di fantascienza che è il Somnium, hanno avuto bisogno di recarvicisi di persona per capire come si sarebbe vista la Luna dalla Terra, con variopinti risultati che superano ogni sbiadita invenzione poetica.
Da un lato, infatti, la Terra ha nel cielo della Luna fasi uguali e contrarie a quelle che la Luna ha nel cielo della Terra. Dall´altro lato, poiché la Luna mostra sempre la stessa faccia alla Terra, quest´ultima si può vedere soltanto dalla faccia visibile della Luna; e dove si vede, appare fissa nel cielo. Il che significa che chi si trovi sulla faccia visibile della Luna in un periodo di Terra piena, può osservare «questo globo fatal», immobile nel cielo lunare, ruotare su se stesso nel corso di 24 ore: una meravigliosa dimostrazione visiva del moto di rotazione terrestre, che potrebbe far esclamare a un autocosciente poeta: «Che fai, tu, Terra, in ciel? dimmi, che fai, silenziosa Terra?»
I poeti dell´inconscio, invece, della Luna sanno soltanto una cosa: che c´è. Ma anche quelli dilettanti di astronomia non sanno molto di più, visto che persino il Leopardi amante di Galileo e amato da Calvino continuava a scrivere ignaro nel 1819 che la Luna «da nessuno cader fu vista mai se non in sogno», benché fin dal 1687 Isaac Newton avesse non solo composto il verso che «la Luna cade continuamente verso la Terra», ma aveva anche calcolato esattamente di quanto essa cade: fatte le debite proporzioni, esattamente della stessa quantità di cui cade una mela nello stesso tempo qui da noi. Dunque, di conseguenza, «la forza con cui la Luna è trattenuta nella sua orbita è quella stessa forza che chiamiamo comunemente gravità».
E allora, che si leggano pure nelle aule e nelle piazze i versi di Dante e Leopardi, per il piacere che l´aria smossa dalla voce di chi li declama dà all´orecchio di chi li ascolta. Ma che si aggiungano ai programmi di scuola e di teatro anche e soprattutto le prose di Galileo e di Newton, per far gioire la mente con quella che già Pitagora chiamava la Poesia dell´Universo: una poesia che «intender non la può chi non la prova», e che «non si può intendere se prima non s´impara a intender la lingua, e conoscer i caratteri, ne´ quali è scritta».

30.8.06

 
l’Unità 30.8.06
DOCUMENTI
La prima condanna venne dalla Cgil guidata da Di Vittorio, su «La Rinascita». Il segretario del partito ne ottenne però il ritiro
Togliatti scrisse: «Controrivoluzione in Ungheria»
di Massimo Franchi

L’intervento di Giolitti all’VIII congresso del Pci non fu l’unica voce contraria all’interno del movimento comunista in Italia sui carri armati sovietici in Ungheria. In un comunicato, pubblicato integralmente sul numero di novembre del mensile “Rinascita”, la Cgil guidata da Di Vittorio «ravvisa nei luttuosi avvenimenti d’Ungheria la condanna storica e definitiva di metodi antidemocratici di governo e di direzione politica ed economica che determinano il distacco fra dirigenti e masse popolari e deplora l’intervento di truppe straniere». Togliatti riesce però ad ottenere un “dietrofront” del leader della Cgil in Direzione, non rispondendo direttamente a Giolitti fino all’espulsione per frazionismo che arriverà nel 1957 a cui seguirà la diaspora dal Pci degli intellettuali (Calvino, Sapegno, Trombadori, Crisafulli) annunciata dalla famosa “lettera dei 101”.
Il primo commento ufficiale di Togliatti ai fatti d’Ungheria viene pubblicato sul numero di ottobre sul mensile “La Rinascita”. Nell’editoriale dal titolo “Sui fatti d’Ungheria” il segretario del Pci definisce «estremamente gravi i fatti di questi giorni». Ben conscio delle conseguenze sulla base dell’intervento sovietico contro un governo amico percepisce «la necessità (...) che il militante del nostro movimento (...) non si lasci né sorprendere, né ingannare e sopraffare dall’ondata reazionaria, anticomunista, antisocialista, antisovietica che cerca, nella confusione degli avvenimenti, di trascinare l’opinione pubblica dietro di sè». A differenza della divulgazione del rapporto Chruscev sui crimini di Stalin, quando dopo mesi di attesa attaccò pesantemente il sistema sovietico nel famoso intervento alla rivista culturale “Nuovi argomenti”, Togliatti appoggia subito l’invio dei carri armati sovietici per fermare la «controrivoluzione». Il segretario del Pci addossa la colpa dell’accaduto «all’incomprensibile ritardo dei dirigenti del partito e del Paese nel comprendere la necessità di attuare quei mutamenti (...) che investono la linea seguita nella marcia verso il socialismo» partendo da un’analisi critica del XX congresso del Pcus. Per lui la sommossa di popolo è «organizzata, ha una sua ben elaborata tattica, obiettivi precisi, e non finisce quando, nell’ambito del regime esistente, sono attuate misure tali (il temporaneo ritorno al potere di Nagy, ndr) che garantiscono nel modo più ampio un indirizzo politico del tutto nuovo. Alla sommossa armata, che mette a ferro e fuoco la città, non si può rispondere se non con le armi». Riguardo alle pressioni imperialistiche scrive: «A noi spetta soltanto non perdere il senso della realtà politica e di classe. Sappiamo che l’Ungheria (...) è oggetto da anni di un continuo, martellante intervento. La parola d’ordine e la promessa della liberazione del socialismo sono state strombazzate dai governi imperialistici come uno dei cardini della loro politica. E le ha accompagnate una agitazione incessante, condotta con tutti i mezzi possibili, verso un paese dove le vecchie classi reazionarie conservano le loro radici e le loro speranze». Togliatti conclude poi richiamandosi ai dettami marxisti-leninisti. «Questa è la nostra posizione, che non concede nulla ai nemici del socialismo, che non deve mai attenuare la vigilanza contro i nemici di classe, e quando sono in corso avvenimenti drammatici come quelli d’Ungheria, ci consiglia di non perdere la testa, di guardare alla sostanza delle cose, di non lasciarsi dominare da reazioni unilaterali e sentimentali, né trascinare in uno schieramento che non è il nostro». Il mese seguente Togliatti torna sull’argomento con un altro editoriale dal titolo “Iroldalmi Ujsàg”, nome della gazzetta letteraria ungherese, addossando la colpa della sommossa al circolo di scrittori “Petoefi”. Sentendo che stava perdendo gli intellettuali in Italia, addossava loro la colpa dell’intervento in Ungheria.

l’Unità 30.8.06
Il peccato originale del '56 e la sinistra italiana
di Bruno Bongiovanni


IL CORAGGIO DI NENNI. Nelle parole di Napolitano c’è il riconoscimento pieno di una rottura che allora il leader socialista riuscì ad imporre al suo partito. Lo strappo con l’Urss non compiuto dal Pci cambiò la possibile evoluzione storica di tutti e due i partiti con parabole storiche allora inimmaginabili.

Questo giornale ha ieri pubblicato, all’inizio dell’articolo di Roberto Roscani, le cinque righe del messaggio inviato da Giorgio Napolitano a Giuseppe Tamburrano, presidente della Fondazione Nenni. A proposito di quegli eventi che venivano definiti con minimalistico descrittivismo burocratico "i fatti d’Ungheria", e che ora vengono giustamente rubricati come "rivoluzione ungherese", il Capo dello Stato, all’epoca giovane e già autorevole membro del comitato centrale del PCI, riconosce esplicitamente che non ebbero ragione, nel drammatico autunno del 1956, solo Antonio Giolitti e i promotori del dissenso all’interno del partito comunista, ma anche, e per certi versi soprattutto, i socialisti autonomisti del partito di Nenni, allora in fase di dolorosa, e tuttavia netta, emancipazione dal mito sovietico e dalla lealtà, cui non era estraneo un complicato complesso d’inferiorità, nei confronti del PCI. Non si può negare l’importanza del messaggio. Già vent’anni fa, quando il PCI era ancora in vita, Napolitano aveva tuttavia riconosciuto le ragioni di Giolitti e quindi degli insorti ungheresi. Nella sua autobiografia, scritta e pubblicata quando la presidenza della repubblica era ancora inimmaginata e di là da venire, lo stesso Napolitano non aveva inoltre esitato a rendere pubblico, sempre a proposito del ’56 ungherese, il suo "grave tormento autocritico" riguardo a una posizione a quel tempo consustanziale con la concezione autoritario-manichea del ruolo del Partito comunista, inteso come "inseparabile dalle sorti del campo socialista guidato dall’URSS", campo naturaliter contrapposto, in quanto già installato nel futuro dell’umanità, al fronte "imperialista". Non spazzata via e anzi rafforzata dal XX Congresso del PCUS, destinato a produrre cocenti delusioni dopo le illusioni iniziali, e non ancora messa in crisi, sullo stesso terreno geopolitico, dalla presenza ideale e nel contempo attiva di un campo europeo e democratico, era dunque la perdurante teoria staliniana dei due campi che ancora fermentava nelle coscienze dei comunisti, convinti di cavalcare il corso del mondo, strutturandone i giudizi e i pregiudizi.
Il messaggio, pur essendo stata l’Ungheria del ’56 metabolizzata appieno ben dopo la Cecoslovacchia del ’68, non è dunque importante per un qualche inedito sussulto autocritico. Tutto è già stato detto. E la "linea" togliattiana, codificata dopo il silenzio della calviniana "grande bonaccia delle Antille" (post-XX Congresso), e dopo gli applausi alle mitragliate sugli operai di Poznan (giugno 1956), da molti lustri è già stata fortunatamente messa in discussione. Quel che oggi pesa, e che assume un significato in qualche modo storiografico, è piuttosto il riconoscimento della politica coraggiosa e intelligente del PSI, un partito che allora volle rischiare, a differenza del PCI, la lacerazione (male minore rispetto alla subordinazione al "fantasma di Stalin"). Che approfittò della irreversibile libera uscita del 1956-’57 per adeguare il paese, con il centrosinistra, nonostante il sabotaggio tentato nel 1960 dal governo DC-MSI di Tambroni, e nonostante l’affievolirsi nel 1964 dello slancio riformistico, al panorama sociale che stava aprendosi grazie alla ancora oggi stupefacente rivoluzione industriale di massa del 1958-’63.
Andando ora a rivedere le posizioni espresse su "l’Unità" e su "l’Avanti!" nelle varie fasi della rivoluzione ungherese, e della controrivoluzione-normalizzazione imposta dall’URSS, si nota subito con quanta cautela e senso di responsabilità gli eventi vennero seguiti e commentati dal PSI. Il quale offrì, per così dire, una generosa sponda politica, assolutamente non conservatrice, cui molti dissidenti del PCI - Giolitti in testa - poterono armoniosamente adattarsi. Ma di cui il PCI non seppe e non volle approfittare. "L’Avanti!" rimase infatti coerente con se stesso. Sostenne, come "l’Unità", il nuovo governo ungherese, quando sembrò che quest’ultimo, prima del brutale voltafaccia dell’URSS, godesse dell’appoggio sovietico. Imre Nagy era infatti stato nominato primo ministro dal Partito comunista ungherese. E lo stesso Nagy aveva cercato e ricevuto assicurazioni da Yuri Andropov in merito al fatto che l’URSS non avrebbe soffocato con la violenza il nuovo corso. Andropov, peraltro, ben sapeva che le cose non sarebbero andate così.
La rottura tra le posizioni di Togliatti (e del PCI) e quelle di Nenni (e del PSI) maturò così in via definitiva solo con la svolta operata il 3-4 novembre, quando intervennero le truppe russe che non erano di stanza in Ungheria. Subito emerse, come già nei giorni precedenti, la resistenza operaia. Si formarono ovunque, come nel 1905 e nel 1917 in Russia, come in Germania in Italia e in Ungheria (!) nel primo dopoguerra, i consigli operai. Che seppero durare ben oltre la resa di novembre. Sino a effettuare, ancora in dicembre, e oltre, negoziati con il governo Kadar. Era in atto, dopo Berlino est nel 1953, e dopo Poznan nello stesso 1956, l’ultima rivoluzione operaia, anonima e "di classe", del XX secolo. Chi ricorda del resto un solo nome degli operai di Budapest ? Anche questa rivoluzione era comunque destinata alla sconfitta. "L’Avanti!" riconobbe ad ogni buon conto i caratteri socialisti della rivoluzione ungherese. Lo stesso Indro Montanelli, nelle sue celebri corrispondenze per il "Corriere della Sera", li riconobbe. Le parole durissime scagliate da Togliatti e da Longo, che accuserà di "revisionismo" Giolitti, sono anch’esse celebri. Così come nota è l’ autocritica effettuata a più riprese, già da molti anni, da Pietro Ingrao e la dissidenza di Giuseppe Di Vittorio.
Nelle parole di Napolitano si può infine cogliere, tra le righe, più di un rammarico. Per il coinvolgimento del Pci nella responsabilità morale e politica in un atto repressivo e antioperaio, certamente. Per la dissolta unità della sinistra, altrettanto certamente. Ma anche per l’autoisolamento in cui il Pci si autorecluse, facendosi sballottare dalle ulteriori repliche della storia e costringendo se stesso a una lunga traversata, effettuata al fine di abbandonare un pasticciato leninismo dimidiato e di agguantare quel che il PCI stesso, almeno in parte, nel 1956, già era. Ma anche il PSI, nucleo minoritario dal 1948 della sinistra italiana, fu lasciato solo dal PCI e accusato di collaborare con il "neocapitalismo". Così, anche per responsabilità della politica del 1956 degli ex alleati comunisti, dopo essere stato a sua volta, e per oltre vent’anni, un partito di lotta e di governo in grado di strappare, in sintonia con le trasformazioni della società, grandi conquiste (il divorzio, lo statuto dei lavoratori, e così via), il PSI fu trascinato in processi che erano estranei alla sua natura e alla sua tradizione. Sino a perdere, almeno in parte, se stesso. E a smarrire, almeno in parte, la sua vocazione libertaria. Si può allora dire che è un peccato originale, quello del 1956 del PCUS e del PCI, che la sinistra italiana, nel suo complesso, pur impegnata nella costruzione del partito democratico, sconta ancora oggi.

Repubblica 30.8.06
"Sull'invasione sovietica aveva ragione Nenni"
Autocritica di Napolitano sulle posizioni del Pci sull'invasione dell'Ungheria del 1956
Messaggio del presidente alla fondazione diretta da Tamburrano in vista del viaggio a Budapest
di SIMONETTA FIORI

ROMA - «Sui fatti d´Ungheria, sulla rivoluzione ungherese e sulla sua repressione, aveva ragione Pietro Nenni». Poche e scarne parole, quelle pronunciate da Giorgio Napolitano, alla vigilia del suo viaggio a Budapest nel cinquantesimo anniversario di quella tragedia. Un giudizio inedito, che allarga la riflessione autocritica, andando oltre il pubblico risarcimento formulato una ventina d´anni fa nei confronti del compagno Antonio Giolitti, dissenziente nel 1956 e per questo allora avversato dallo stesso Napolitano. Questa volta il riconoscimento s´estende al partito fratello, il Psi, impersonato dal coraggioso segretario che, sfidando gli umori filosovietici diffusi nella base, ruppe con "i metodi antidemocratici" della Mosca "neocoloniale". «Un´ammissione importante, ricca di implicazioni», la definisce Giuseppe Tamburrano, presidente della Fondazione Nenni e destinatario del messaggio presidenziale. «Non mi aspettavo un riconoscimento così diretto, anche se il ripensamento del complesso rapporto tra Pci e Psi in quella stagione è presente già da tempo nell´elaborazione di Napolitano».
Nel cinquantenario della rivolta ungherese, soffocata nel sangue dai carri armati sovietici, la Fondazione Nenni ha progettato un volumetto - La sinistra in quell´indimenticabile 1956 - che arricchisce la vecchia edizione di Quando i socialisti ruppero con Mosca (una raccolta dell´86) con le nuove testimonianze di Napolitano, Achille Occhetto, Rossana Rossanda. «Diversi mesi fa, prima della nomina presidenziale, chiesi a Napolitano di scrivere un saggio sull´argomento. Allora disse di sì, ma dopo l´elezione mi ha chiesto di alleggerirlo, proponendo di pubblicare il "capitolo ungherese" della sua autobiografia recentemente pubblicata da Laterza. La sorpresa è stata la lettera con il giudizio su Nenni».
Il riconoscimento al "fratello coltello" - fratelli coltelli erano Psi e Pci secondo una formula gramsciana - , finora mai apertamente espresso, è quasi una naturale maturazione della dolorosa autocritica che Napolitano va da tempo elaborando sulla rivoluzione ungherese repressa con la violenza. Una ferita ancora aperta per larga parte della sinistra, che per "zelo conformistico" - come annota il Presidente nell´autobiografia Dal Pci al socialismo europeo - acconsentì alle ragioni di Mosca. «La giustificazione del sanguinoso intervento militare sovietico, per soffocare un moto popolare bollato come controrivoluzione, rimane motivo grave di tormento autocritico», riflette Napolitano, il quale spiega l´ossequio all´Unione Sovietica con il mito "dell´intangibilità del campo socialista" sotto la bandiera di Mosca "rispetto alla sfida del fronte imperialista". «La verità», scrive ancora, «è che vedevamo poco, sentivamo poco le grandi questioni di principio - libertà e democrazia - che erano in gioco nel giudizio sui "fatti d´Ungheria". O meglio restavamo nel chiuso di certezze ideologiche acquisite nel partito».
L´omaggio a Nenni, oggi, rappresenta un ulteriore passo in avanti. Sostiene Tamburrano: «È implicito, in questo riconoscimento al Psi, un ripensamento del rapporto tra i due partiti. Evidente l´attribuzione al Pci della responsabilità della rottura a sinistra. Se Togliatti avesse sostenuto una posizione meno settaria, dando ascolto alle critiche di Giuseppe Di Vittorio, le cose sarebbero potute andare diversamente». Fin qui Tamburrano. Ma Napolitano concorda? «Se il Presidente avesse potuto sviluppare il suo ragionamento in un saggio, questa sarebbe stata la sua posizione. Ha preferito quella frase lapidaria - "Nenni aveva ragione" - in cui è già detto tutto».
Non casuale l´uscita su Nenni alla vigilia del viaggio a Budapest, a cui sta lavorando l´ufficio diplomatico del Quirinale. Un viaggio che - per impegni già assunti dal presidente - anticiperà di qualche settimana le cerimonie ufficiali del 23 ottobre. E che forse contribuirà a sanare quella ferita ancora aperta.

Repubblica 30.8.06
QUANTO PESA QUELL'ERRORE
di MIRIAM MAFAI

DUNQUE, aveva ragione Nenni quando nell´autunno del 1956 rompeva il patto di unità d´azione che da quasi trent´anni lo legava ai comunisti. Dunque aveva ragione Nenni quando, a proposito della rivolta degli operai e degli studenti di Budapest scriveva: «Quanto di meglio noi possiamo fare per i lavoratori ungheresi è di aiutarli a spezzare gli schemi della dittatura in forme autentiche di democrazia e di libertà…». Dunque aveva ragione Nenni quando, pochi mesi dopo, al Congresso di Venezia del Psi, gettava alle ortiche per il suo partito non solo la tradizionale politica frontista, ma ogni riferimento al marxismo leninismo, alla dittatura del proletariato, al legame con l´Urss.
Aveva ragione Nenni, come riconosce oggi, nella sua lettera a Giuseppe Tamburrano, il nostro presidente della Repubblica che quegli avvenimenti ha vissuto da giovane dirigente del Pci. E dunque aveva torto il Pci quando, nel corso di quelle drammatiche settimane di cinquant´anni fa, sceglieva di stare, come da un celebre titolo dell´Unità «da una parte della barricata», dalla parte dell´Urss, che aveva mandato i suoi carri armati a Budapest per soffocare la rivolta degli operai e degli studenti che si ribellavano alla dittatura e chiedevano un socialismo democratico, dal volto umano.
Il fantasma della rivoluzione ungherese del 1956 interroga ancora la coscienza di coloro che allora erano comunisti e non ebbero il coraggio o la lucidità politica di dissociarsi dalle posizioni del loro partito. Giorgio Napolitano, che allora aveva trent´anni ed era segretario della federazione di Caserta, ha già ricordato nel suo bel libro di memorie di aver seguito, da quella postazione di periferia «in modo piuttosto distaccato la discussione tra gli intellettuali dissenzienti». Tra questi intellettuali e dirigenti che rifiutarono di aderire alla linea del partito, di condanna per gli insorti ungheresi e di sostegno all´intervento dell´Urss c´era anche Antonio Giolitti che «aveva pronunciato il solo discorso di netto e sostanziale dissenso dalla tribuna dell´VIII Congresso. Tra i primi interventi polemici nei suoi confronti c´era stato il mio» ricorda Giorgio Napolitano. «L´intervento sovietico – affermò allora il giovane dirigente del Pci – oltre ad impedire che l´Ungheria cada nel caos e nella controrivoluzione ha contribuito a salvare la pace nel mondo».
E non è certamente per caso se, appena eletto presidente della Repubblica, egli abbia voluto far visita ad Antonio Giolitti, che in quella occasione, dopo quell´intervento congressuale, aveva abbandonato il Pci. Non fu il solo.
Italo Calvino racconta così quelle drammatiche giornate: «Quella sera in cui arrivarono le notizie dell´invasione dell´Ungheria ero a cena con Amendola a Torino, a casa di Luciano Barca, che dirigeva l´edizione torinese dell´Unità. Amendola era venuto a Torino per incontrare me e gli altri amici dell´Einaudi, per "tenerci buoni" perché si capiva che le difficoltà stavano arrivando e noi davamo segni di grande impazienza. Mentre Amendola parlava, Gianni Rocca che allora era redattore capo dell´Unità, telefonò a Barca. Aveva la voce rotta di pianto. Ci disse: i carri armati stanno entrando a Budapest, si combatte per le strade. Guardai Amendola. Eravano tutti e tre come colpiti da una mazzata. Poi Amendola mormorò: "Togliatti dice che ci sono momenti nella storia in cui bisogna essere schierati da una parte o dall´altra. Del resto il comunismo è come la Chiesa, ci vogliono secoli per cambiare posizione…"».
Non ci sono voluti secoli perché il Pci rivedesse le sue posizioni a proposito dell´Ungheria, perché rompesse quello che è stato chiamato il «legame di ferro» con l´Urss. Non secoli, ma un paio di decenni sì. Per molto tempo la rivoluzione ungherese del 1956 non ebbe nemmeno diritto ad essere definita tale dai comunisti italiani. Prima, nel corso di quelle drammatiche settimane, sul quotidiano del Pci e nelle assemblee di sezione quella rivolta venne qualificata di «terrore bianco» o «controrivoluzione». Poi con il passar del tempo quelle vicende vennero pudicamente ricordate come «i fatti d´Ungheria». Dieci anni dopo, nel 1968, un altro paese che faceva parte del campo socialista vivrà la sua rivoluzione democratica. Sarà la primavera di Praga, la rivolta in nome di un socialismo «dal volto umano». Anche questa volta il movimento sarà stroncato dall´intervento sovietico. Ma in quella occasione il Pci esprimerà, il suo primo dissenso da Mosca. Verranno poi, finalmente, le più esplicite prese di distanza di Berlinguer dall´Urss e dalla sua politica.
E tuttavia le poche righe con le quali oggi Giorgio Napolitano, ricordando gli eventi del 1956, riconosce «la validità dei giudizi di Pietro Nenni e di gran parte del Psi in quel cruciale momento» possono, forse debbono, essere interpretate anche come un invito a rileggere con maggiore equilibrio e attenzione le vicende del Pci e del Psi nel più lungo periodo. Con il Congresso di Venezia del 1957 infatti il Psi, liberandosi dal patto di unità d´azione con i comunisti e dal legame con l´Urss, si avvierà sulla strada di un accordo con la Dc che arriverà pochi anni dopo, nel 1960. Ma ci arriverà profondamente indebolito, sia per le divisioni interne sia per la polemica cui è esposto da sinistra. Da parte sua il Pci, ancora convinto della superiorità del sistema socialista su quello capitalista, alimentava la polemica contro la «deviazione socialdemocratica» del partito di Nenni, una polemica che trovava un´eco particolarmente favorevole nella sua base. I due partiti della sinistra italiana accentuavano così, dopo la crisi del 1956, quella divaricazione che li avrebbe portati alla fine alla reciproca, comune sconfitta.

Repubblica 30.8.06
IL COLLOQUIO
Pietro Ingrao: bisogna tenerne conto prima di dire che Nenni era nel giusto
"Il nostro un errore tragico ma ci fu la rottura a sinistra"
di s.fio.

Il '56 nelle memorie. Nell'autobiografia che uscirà ai primi di settembre parlo molto a lungo di quei fatti: più che un capitolo è la storia di una sconfitta
Il gelo di Togliatti. Quando capii la tragedia, parlai con Togliatti: di fronte alla mia incertezza fu molto freddo. Non ebbi la forza di reagire

«Quella pagina politica è stata per me la più dolorosa: il 1956 è un anno tragico per noi, tremendo». Alla vigilia dell´uscita della sua autobiografia, che alla tragedia di Budapest dedica i capitoli più tormentati, Pietro Ingrao si lascia andare a un ripensamento sofferto, ancora molto vivo a dispetto del mezzo secolo trascorso. «Non c´è dubbio che Antonio Giolitti e anche Pietro Nenni avessero ragione, ma il giudizio di Giorgio Napolitano mi appare un po´ sommario. Bisogna tenere conto anche della rottura a sinistra, prima di dare ragione a Nenni».
La sua è la storia d´un comunista, forse di specie particolare. Un comunista che "voleva la luna", dal titolo delle memorie che l´editore Einaudi pubblicherà ai primi di settembre. «Lì parlo molto a lungo del 1956, e anche dei miei errori. Spero che i miei peccati emergano dal libro con chiarezza. È un capitolo molto lungo: più che un capitolo è la storia d´una sconfitta, di errori, difetti e incompiutezze, raccontati con sincerità».
I ricordi risalgono all´ottobre del 1956, a quegli eventi che sigleranno "l´Errore con la E maiuscola" d´una generazione di comunisti. Ingrao è direttore dell´Unità quando, il 23 ottobre a Budapest, una manifestazione di plauso a Gomulka si trasforma in una insurrezione armata contro il potere comunista. Ne sono protagonisti operai e studenti che rivendicano "una più ampia democrazia nel quadro del regime socialista". Nella notte tra il 23 e il 24 "l´ordine" è ripristinato dall´irruzione delle truppe sovietiche. Tocca a Ingrao, sull´Unità del 25 ottobre, scrivere l´editoriale che censura pesantemente i rivoltosi. «Quando crepitano le armi dei controrivoluzionari, si sta da una parte o dall´altra delle barricate. Un terzo campo non c´è... Domani si potrà discutere e anche differenziarsi... Oggi si difende la rivoluzione socialista». Così si legge in quel fondo anonimo, che - come emerge dal verbale della Direzione cinque giorni dopo - esprime una posizione laboriosamente limata con la segreteria.
La crisi s´aggrava una settimana più tardi. Nella notte tra il 3 e il 4 novembre i carri armati sovietici intervengono una seconda volta in Ungheria, schiacciando la resistenza popolare. Migliaia i morti, decine di migliaia i feriti. Nel quarantunenne Ingrao esplodono quei dubbi prima soltanto timidamente affiorati. «Allora mi resi conto che si trattava di una tragedia, così telefonai a Togliatti e gli chiesi un appuntamento. Era un pomeriggio grigio, piovoso. Di fronte alla mia incertezza, Togliatti fu molto freddo. Mi disse che non bisognava esitare, e per tagliare la conversazione usò questa frase: "Oggi ho bevuto un bicchiere di vino in più". Non ebbi la forza di reagire».
Una ferita ancora aperta, il peccato originale che getta una luce su tutti «i ritardi, le incomprensioni, gli sbagli che abbiamo fatto non solo sullo specifico dramma ungherese, ma in generale sul leninismo e sullo stalinismo». Non è certo reticente la testimonianza di Ingrao, che già nel libro-intervista con Antonio Galdo, Il compagno disarmato (Sperling), aveva denunciato i pesanti errori del partito. La sua riflessione autocritica s´allarga alle due figure centrali del comunismo, a Stalin ma ancor prima a Lenin, senza alcuna tentazione assolutoria per quest´ultimo. «Ieri ci illudevamo che ci fosse una differenza sostanziale tra i due personaggi. Consideravamo Stalin il traditore degli ideali di Lenin. Non è così». Un´autocritica radicale, propria di un comunista nonagenario che non ha paura di riflettere sugli errori commessi. «Allora non capimmo, o non volemmo capire, che quella ideologia era nata sotto il segno del ripudio della democrazia e con l´uso sistematico di una violenza rivoluzionaria che ammazza, reprime, distrugge. Non ci rendemmo conto, e potevamo farlo, che, senza sgombrare il campo da questo vizio d´origine del movimento comunista, saremmo andati incontro a una drammatica sconfitta, come poi puntualmente è accaduto».
Per Ingrao la vicenda di Budapest è "un appuntamento mancato con la storia". «Un appuntamento decisivo, perché poteva cambiare il destino della sinistra non solo in Italia». Guai, però, a parlare di pentimento. «Il pentimento non è una parola che appartiene al mio linguaggio. Ha un sapore di sacrestia. Ma se pentirsi significa riconoscere i propri errori, allora io non ho paura di questa parola».

Repubblica 30.8.06
IL PERSONAGGIO
La rottura con il Pci di Togliatti al congresso del ´56: "Il gioco dell'avversario lo fa chi tace"
Giolitti, l'antico apostata "Quel dramma ora è più lontano"
di NELLO AJELLO


Il ricordo dell'intervento di Di Vittorio: "Mi invitò a rivedere criticamente il mio atteggiamento, ma si vedeva che era turbato dal suo stesso dissenso ormai rientrato"
La grande soddisfazione per l´omaggio del presidente della Repubblica, in maggio, subito dopo l´elezione al Quirinale: "È stato gentile, aperto, cordiale"

Antonio Giolitti aveva ragione nel 1956, quando criticò - a differenza del Pci di Palmiro Togliatti, che ad essa plaudì - l´invasione dell´Ungheria da parte dell´Unione sovietica. In una lettera inviata a Giuseppe Tamburrano, presidente della Fondazione Nenni, e brevemente riportata dall´Unità di ieri, il capo dello Stato non si limita ad evocare l´evento, ma esprime una «riflessione autocritica», ricordando che le posizioni assunte in quel frangente dal vertice del Pci erano da lui condivise.
Insomma, così afferma il presidente Napolitano, Giolitti criticando le posizioni del partito comunista nel quale militava, era nel giusto, mentre io, allora - mezzo secolo fa - sbagliai insieme al mio partito. E´ un riconoscimento «doloroso» che si estende anche a Pietro Nenni e a gran parte del Psi (ecco spiegata la lettera a Tamburrano), che nell´autunno del 1956 espressero critiche analoghe a quelle che manifestò Giolitti nei riguardi del Pci e del suo segretario Palmiro Togliatti.
Giolitti, che ha superato i 91 anni, è nella sua casa di vacanze, a Cavour. Non ha letto L´Unità. Ma certo non gli sfugge l´importanza della notizia che gli riferisco. E accetta di rievocare al telefono quella vicenda che lo vide protagonista. E´ l´8 dicembre 1956, il Pci celebra a Roma il suo VIII congresso.
Dall´invasione dell´Ungheria è passato un mese e mezzo, una stagione assai difficile per il partito di Togliatti, tra il fermento che circola nelle sedi culturali, il dissenso espresso da figure eminenti come Eugenio Reale e Fabrizio Onofri - neppure invitati al congresso, ricorda Giolitti - e il diniego opposto da scrittori del rango di Italo Calvino (per fare un solo esempio).
Prima che Giolitti prendesse la parola, vibranti riserve sulle posizioni del partito erano state espresse da Furio Diaz, celebre storico ed ex sindaco di Livorno.
Ma il compito di dare una prospettiva unitaria a queste critiche sarà assunto proprio dall´allora quarantunenne Antonio Giolitti. «Per noi», avrebbe poi raccontato Gianni Rocca, presente al congresso in quanto delegato, «era come se lui solo si fosse preso l´incarico di lasciare ai leader e agli astanti una testimonianza collettiva di dissenso». E lo stesso protagonista rammenta che, essendo allora la sua figura poco nota, il Corriere della sera aveva sentito il bisogno di presentarlo ai lettori, più o meno con queste parole: «L´onorevole Giolitti è un giovane quarantenne, alto, bruno, elegante. Si dice che il suo nome interessava ai comunisti, che vogliono dirsi eredi del Risorgimento e del liberalismo. Si dice anche che fosse uno dei giovani più cari a Togliatti». «Fosse», sottolinea Giolitti.
«Ormai non lo ero più. Non lo sarei più stato».
A sentirlo rievocare da lui, quel lontano dicembre assume di nuovo il calore di un trauma. Senza enfasi - ma a detta di tanti testimoni d´epoca, neppure in quel frangente clamoroso l´enfasi si affacciò nell´oratoria giolittiana: ognuno è come è, magari per sempre - Giolitti cita il se stesso di allora. Per esempio, quando esordì rilevando una contraddizione nelle tesi del segretario comunista e dei suoi seguaci più ferventi: «Non si può sostenere che gli errori e i delitti denunziati al XX congresso del Pcus non hanno intaccato la permanente sostanza democratica del potere socialista, e allo stesso tempo definire legittimo, democratico e socialista un governo come quello contro il quale è insorto il popolo di Budapest il 23 ottobre». O allorché egli escluse che, esprimendo ciascuno le proprie idee, si favorisse il nemico di classe. «Molte volte, al contrario», obiettò, «il gioco dell´avversario lo fa chi tace». O infine quando nel suo intervento affiorò una documentata denuncia: «Abbiamo visto combattere e sradicare senza pietà le opinioni di quei compagni - e io sono fra costoro - che hanno manifestato dubbi e dissensi in merito alla definizione di controrivoluzionaria data alla rivolta popolare d´Ungheria».
Un´altra scena che resta incisa nella memoria è impersonata da Giuseppe Di Vittorio, che invita Giolitti a «rivedere criticamente il proprio atteggiamento». Ma quello che parlava all´VIII congresso, ora egli aggiunge, «era un Di Vittorio turbato dal suo stesso dissenso poi quasi rientrato. Un uomo e un combattente ormai troppo stanco per aver coraggio». Si può essere allergici al protagonismo quanto si vuole - faccio notare a Giolitti - ma dire a Togliatti che per il Pci «si tratta, non di continuare e migliorare, ma di cambiare e correggere; e di cambiare gli uomini che non si possono correggere», è un qualcosa che nel Pci non s´era mai sentito. Giolitti, dall´altro capo del telefono, acconsente.
L´antico apostata gradisce come merita la mossa di Napolitano.
Parla con piacere della visita che il presidente gli fece nel maggio scorso, fresco di elezione al Quirinale: «Gentile, aperto, cordiale». Rievoca i tempi, non poi tanto remoti, nei quali - dopo essere stato per decenni un battistrada sulla «via del riformismo», essere assurto a sinonimo della Programmazione e aver vissuto da protagonista la travagliata vicenda del centrosinistra - egli scorse nella gestione craxiana del Psi un´intolleranza quasi altrettanto grave di quella sperimentata a suo tempo nel partito di Togliatti. Per un lungo periodo ancora, ricorda, cercherà «di mettere bene i piedi con qualche sdrucciolone, sulle vie della politica». Il suo è stato, in fondo, - anche quando nel giugno del 1987 venne eletto senatore nelle liste del Pci - un tentativo (sono parole sue) di «passare dall´illusione dell´utopia alle speranze del riformismo», senza smarrire «il rapporto sempre problematico fra efficacia della passione politica e coerenza con i valori etici. Poi, man mano che l´età avanzava, s´era sentito sempre più «un senzatetto di sinistra».
Mentre gli parlo, Giolitti mi dà il senso di aver riconquistato un´identità, semmai l´avesse persa davvero. Le sue utopie di «timoroso riformista» (così ama definirsi) diventano una lezione che va onorata in alto loco. C´è un uomo, classe 1915, che ha lungamente operato in politica. Con coraggio. Ecco, per lui il presente ha ancora in serbo un dono.

Repubblica 30.8.06
Luciana: "Per mio padre e tutti noi furono giorni pieni di angoscia"

Luciana Nenni, la figlia di Pietro, ha 84 anni, la voce fragile, la memoria intatta. A "Repubblica" concede un breve cammeo. Riaffiorano, improvvisi, evocati dalla cronaca politica e dalle parole del presidente Napolitano, gli eventi che hanno segnato la vita e la memoria della sua famiglia: «Per noi fu un vero dramma», dice. Ecco la sua testimonianza: «Mi ricordo benissimo quei giorni convulsi e incredibilmente pieni di angoscia. Le notizie si susseguivano. I carri armati a Budapest? Per noi era inconcepibile. Posso sintetizzare tutto in una telefonata concitata che fece al papà mia sorella Vany. Parlò in francese, disse: «E´ il mondo nel quale abbiamo creduto che sprofonda... ». Mio padre ha fermato nel diario le sue riflessioni: «Come ha ragione Vany! E´ la sola delle mie figliole che si era iscritta a Parigi al partito comunista francese. Ora si sente tradita. Lo siamo tutti traditi. E´ tradito l´internazionalismo proletario». Una cosa è certa, in famiglia noi Nenni l´abbiamo sempre pensata: il dramma dell´Ungheria ha avuto il merito di mostrare alla sinistra italiana il vero volto dell´Unione Sovietica e di aprire la strada al socialismo moderno e dal volto umano.

29.8.06

 
La Repubblica 29.8.06 Prima pagina
La discussione
Il socialismo è morto la sinistra no
di ANTHONY GIDDENS


Il secolo post-socialista
Quell'idea è morta nell'89, ma i valori della sinistra sopravvivono

Oggi non ha senso definire antioperaia la politica di liberalizzazione del mercato del lavoro. E non è di destra tentare di dare risposte efficaci al terrorismo
Il filone rivoluzionario è scomparso senza lasciare traccia, quello riformista si rivela ormai inadeguato
Sono favorevole alla creazione di un partito unificato della sinistra in Italia. Non so se sarà possibile, ma credo che il post-socialismo debba essere più ecumenico

Il socialismo è morto. La data precisa del decesso è nota – il 1989 – ma già da tempo la sua salute era malferma. Per tutta la durata della sua storia il termine stesso di «socialismo» è stato conteso e rivendicato da gruppi politici d´ogni sorta, dai comunisti agli anticomunisti. La storia della sinistra è costellata di infinite dispute sul suo significato. In passato, la principale linea di demarcazione passava tra la sinistra rivoluzionaria e quella riformista.
La prima non credeva nella possibilità di una trasformazione della società attraverso i metodi parlamentari. In tempi relativamente recenti, il libro di Ralph Miliband Socialismo parlamentare è stato considerato un testo chiave, largamente adottato dalle università in molte parti del mondo. Secondo le tesi di Miliband, una società socialista non avrebbe potuto nascere attraverso una vittoria elettorale, ma solo per vie extraparlamentari, dato che i socialisti dovevano trasformare lo Stato in quanto tale. Altri esponenti della linea rivoluzionaria, di tradizione sia leninista che trotzkista, mantenevano però un atteggiamento meno categorico di quello di Ralph Miliband nei confronti della «democrazia borghese».
Per converso, e a partire dall´opera di Eduard Bernstein, il socialismo riformista si era proposto di conseguire il cambiamento sociale passando per il parlamento e per la democrazia elettorale. Quasi tutte le attuali formazioni di centro-sinistra hanno origine da figure fondatrici della stessa area. Una delle maggiori ironie della storia è il fatto che il socialismo rivoluzionario, determinato a trasformare profondamente il mondo e apparentemente impegnato in quest´opera per mezzo secolo, è scomparso quasi senza lasciare traccia.
Ormai continua ad esistere solo in regimi che hanno dimostrato di non avere un futuro, come quello cubano, o sopravvive come una flebile eco in paesi quali la Cina o il Vietnam.
La stessa idea di un superamento del capitalismo attraverso una rivoluzione politica laica è quasi del tutto scomparsa. La sinistra estrema di oggi si definisce solo in termini di contrapposizione - a volte «anti-capitalista», ma più spesso «no global». Se si eccettua l´Islam radicale, i rivoluzionari in politica ormai non esistono più. Perché l´idea centrale che ha fatto da propulsore al socialismo rivoluzionario, la nozione alla base della definizione stessa del socialismo - l´idea cioè che un´economia controllata e rispondente ai bisogni umani possa sostituirsi ai meccanismi dei prezzi e del profitto - una volta messa alla prova, è fallita dovunque. Era un´idea sbagliata.
Il socialismo riformista ha creduto in un´economia mista. Ha ritenuto possibile imbrigliare le irrazionalità del capitalismo riservando allo Stato un ruolo parziale nella vita economica. I «settori chiave» dell´economia - quali i trasporti, le comunicazioni, l´industria siderurgica, il carbone e l´energia elettrica - dovevano rimanere sotto il controllo dello Stato. Dopo la seconda guerra mondiale, per vari decenni in Occidente questo «compromesso» era sembrato in grado di funzionare: non però grazie ai meriti del socialismo di per sé, bensì per quelli della teoria economica formulata da un liberale, John Maynard Keynes. Lo Stato ha potuto così esercitare sull´economia un controllo generale regolando la domanda, mentre il welfare forniva una rete di sicurezza quando le cose non andavano per il verso giusto.
Oggi la domanda chiave è se anche questo tipo di socialismo sia morto. La mia risposta è un chiaro sì: non vi sono eccezioni alla netta, inequivoca constatazione con cui ho iniziato quest´articolo. Il più delle volte, lo stato ha dimostrato la sua inadeguatezza nella conduzione diretta delle imprese. D´altra parte, la gestione della domanda in senso keynesiano ormai non è più efficace, e può anzi diventare controproducente nel contesto di un mercato globale.
Cosa rimane dopo la fine del socialismo? O in altri termini, cosa resta della sinistra? (NdT: in inglese la domanda è un bisticcio: what is left of the left?) Ricordo le interminabili discussioni su questi temi ai convegni degli anni ‘90. Le risposte (almeno a mio modo di vedere) sono oggi più chiare di allora. La sinistra è sopravvissuta alla fine del socialismo. Esiste una chiara linea di discendenza dal socialismo riformista agli attuali partiti di centro-sinistra, ma in termini di valori assai più che politici. La sinistra sostiene una serie di valori quali l´egualitarismo, la solidarietà, la tutela dei più vulnerabili, così come la convinzione che l´azione collettiva sia necessaria all´efficace perseguimento di questi obiettivi. Il concetto di «azione collettiva» è riferito non solo al ruolo dello Stato, ma anche a quello di altri organismi della società civile.
Tuttavia oggi la sinistra non può più definirsi semplicemente negli stessi termini del socialismo d´un tempo, come la via per limitare i danni inflitti dai mercati alla vita sociale. Se è vero che il capitalismo ha tuttora bisogno di regole, oggi il compito dei governi è quello di favorire un miglior funzionamento dei mercati, di espandere il loro ruolo, piuttosto che ridurlo. Non ha senso contestare come antioperaia la politica di liberalizzazione del mercato del lavoro, che con ogni ragione il nuovo governo italiano sta tentando di portare avanti. L´attuale compartimentazione del mercato del lavoro in Italia non contribuisce minimamente a promuovere la causa della giustizia sociale, ma rappresenta al contrario uno dei fattori di aumento della disoccupazione, oltre ad aggravare l´insicurezza di chi lavora nei settori informali e non protetti. Nei paesi scandinavi, che in Europa hanno raggiunto il grado più elevato di giustizia sociale, il mercato del lavoro è stato oggetto di riforme radicali.
La sinistra non può più definirsi in contrapposizione alle riforme del welfare. Come ho già ricordato, lo stato sociale è nato come rete di sicurezza, che subentra quando si perde il posto di lavoro, si divorzia, ci si ammala o si invecchia. Alcune di queste funzioni permangono, ma oggi il welfare deve assumere sempre più le caratteristiche di un meccanismo di investimento sociale. In un´era di libertà individuali e di aspirazioni sempre maggiori, dobbiamo investire nelle persone per aiutarle ad aiutarsi da sé. Il sistema scolastico dev´essere riqualificato in maniera radicale per consentirci di affrontare un mondo sempre più competitivo; e occorre inoltre facilitare l´accesso a un´istruzione superiore di alta qualità, e aprire percorsi formativi anche alle fasce di età più avanzata.
La sinistra non può più definirsi nei termini di una concezione classica delle libertà civili. Non è di destra ammettere che la criminalità e il disordine sociale rappresentano un grave problema per molti cittadini. Non è di destra sostenere che l´immigrazione dovrebbe essere controllata, o chiedere agli immigrati di farsi carico di una serie di responsabilità civili, ivi compreso l´obbligo di apprendere la lingua nazionale.
Non è di destra cercare di dare risposte efficaci al terrorismo. Le nuove minacce terroristiche cui le società occidentali devono far fronte non sono paragonabili a quelle dei tempi delle Brigate rosse, o al terrorismo «locale» dell´IRA o dell´ETA. Il terrorismo di tipo nuovo è più globale, e potenzialmente di gran lunga più letale. Il diritto di sentirsi al sicuro dalla violenza terroristica è di per sé una libertà importante, che va ponderata rispetto alle altre. Infine, la sinistra ovviamente non può più definirsi in contrapposizione alla democrazia parlamentare. Il multipartitismo ha i suoi difetti, ma l´alternativa non può essere il cosiddetto «Stato del popolo». La rappresentanza popolare di stampo sovietico si è dimostrata tutt´altro che democratica. Oggi la sinistra deve dare la sua piena adesione al pluralismo, sia in campo politico che nel più ampio contesto sociale.
Sono favorevole all´idea della creazione di un partito unificato della sinistra in Italia. Non se so in pratica ciò sarà possibile: dopo tutto, in passato la sinistra è stata ripetutamente affondata dalle scissioni e divisioni al suo interno. Ma credo che la sinistra post-socialista possa e debba essere più ecumenica di quanto tendesse a esserlo la sinistra radicale. E´ necessario continuare a innovare in politica, per poter essere in grado di portare avanti i valori della sinistra in un mondo di massicce trasformazioni sociali. Ma l´innovazione politica può nascere solo dal libero scambio delle idee, non certo da un chiuso dogmatismo.

(Traduzione di Elisabetta Horvat)

l'Unità 29.8.06 Prima pagina
UNGHERIA
Napolitano: nel '56 sull’invasione aveva ragione Nenni
di Roberto Roscani

«La mia riflessione autocritica sulle posizioni prese dal Pci, e da me condivise, nel 1956 e il suo pubblico riconoscimento da parte mia ad Antonio Giolitti “di aver avuto ragione” valgono anche come pieno e doloroso riconoscimento della validità dei giudizi e delle scelte di Pietro Nenni e di gran parte del Psi in quel cruciale momento». Firmato: Giorgio Napolitano.
Cinque righe secche. Parole come pietre in un messaggio che il capo dello Stato ha inviato a Giuseppe Tamburrano, presidente della Fondazione Nenni. Verranno pubblicate, insieme al capitolo sul ‘56 del libro «Dal Pci al socialismo europeo. Un’autobiografia politica» di Napolitano (edito lo scorso anno da Laterza) in un libro riflessione che la Fondazione farà uscire a fine ottobre.
Perché pesano davvero quelle parole che arrivano mezzo secolo dopo i «fatti d’Ungheria»? Perché dentro c’è una combinazione di consapevolezza politica e di partecipazione umana che non ammette scorciatoie, che impedisce infingimenti, che non chiede scuse ma scusa. Napolitano non ha aspettato certo il 2006 per dire che «Giolitti aveva ragione».
Vent’anni fa aveva già apertamente riconosciuto le ragioni di quel suo amico e compagno che nell’VIII congresso del Pci aveva condannato con grande nettezza l’intervento militare sovietico in Ungheria contro una rivolta popolare definita dall’Urss «controrivoluzione». Eppure nel ‘56 fu proprio Napolitano tra i primi ad attaccare Giolitti al congresso, con parole dure e con una giustificazione dell’intervento militare sovietico come di un elemento di “stabilizzazione internazionale” e addirittura come un contributo alla pace nel mondo. E di questo c’è un aperto riconoscimento accompagnato da una profonda riflessione autocritica nelle pagine della sua autobiografia.
«Mi mosse allora, ritengo, anche un certo zelo conformistico»; ma c’è qualcosa di più, quel terribile errore nasceva dal «concepire il ruolo del Pci come inseparabile dalle sorti del “campo socialista” guidato dall’Urss». Ma in queste righe c’è anche politicamente un passo in più: dare ragione a Giolitti chiudeva infatti una ferita interna al Pci (e d’altra parte la strada di Napolitano e Giolitti si era ricongiunta in mille occasioni sulla scena politica italiana ed europea). Dare ragione a Pietro Nenni e al Psi per le posizioni che avevano assunto nel 1956 significa riconoscere ad un partito della sinistra (i compagni con cui si era costituito il Fronte Popolare) la capacità di aver visto giusto. Per il Psi nenniano quel giudizio fu il primo strappo dall’Urss, fu un passo fondamentale per la costruzione di una «autonomia» dal «campo socialista» e anche dall’ingombrante alleato comunista.
«Per me - spiega Giuseppe Tamburrano - quelle parole hanno un enorme valore. So bene che il Pci del 1956 non avrebbe potuto rompere con Mosca: non ce ne erano le condizioni, il partito si sarebbe lacerato. Ma certo guardando indietro con gli occhi di oggi mi viene da dire: se allora il Pci avesse assunto una posizione meno netta (penso soprattutto alle parole di Togliatti, sprezzanti contro quella che anche nel Pci tutti chiamavano una tragedia), se avesse prevalso Di Vittorio, che ha sempre criticato l’intervento sovietico a reprimere la rivolta popolare ungherese, forse avremmo scritto una storia diversa dell’Italia e della sinistra italiana».
Se... se... Quello del 1956 e dell’Ungheria è uno dei capitoli su cui il Pci e tutti i gruppi dirigenti che lo hanno attraversato, ha più riflettuto. È certamente impossibile ripercorrere quell’anno (dal XX congresso del Pcus con la denuncia chruscioviana dei mali e degli orrori staliniani alla rivolta ungherese sostenuta dal partito comunista di quel paese e soffocata nel sangue degli studenti e degli operai ma anche dei dirigenti comunisti come Imre Nagy e Pál Maléter) senza leggerlo come uno di quegli snodi, di quelle biforcazioni della storia. Quel bivio fu colto da Nenni che riuscì a portare il Psi (dove pure le componenti filosovietiche erano forti, dove nella base era stato salutato con orgoglio il premio Lenin che Stalin consegnò a Nenni) sulla strada che il Pci avrebbe preso compiutamente solo molti anni dopo. «La verità è che vedevamo poco, sentivamo poco le grandi questioni di principio - libertà e democrazia - che erano in gioco nel giudizio sui “fatti d’Ungheria”. O meglio restavamo nel chiuso nelle certezze ideologiche... Molti anni sarebbero dovuti passare perché ci identificassimo pienamente con l’eredità più alta del liberalismo e della democrazia anziché considerare sacrificabili, dove si pretendesse di edificare il socialismo, o meramente formale regole, le garanzie, le procedure della democrazia politica. Lo disse Enrico Berlinguer, ma solo nel 1977»: parole di Giorgio Napolitano.
Ora quello che allora era un giovane dirigente del Pci non si nasconde gli errori e rivendica semmai la strada (la fatica, il dolore, l’impegno) percorsa insieme a tanti altri è presidente della Repubblica. La sua riflessione nelle poche righe inviate alla Fondazione Pietro Nenni (dopo le molte scritte e argomentate da decenni) farà riflettere e discutere, anche perché siamo alla vigilia delle celebrazioni ungheresi a cinquant’anni dalla rivoluzione del ‘56. Il Quirinale sta preparando il viaggio del presidente a Budapest dove è stato invitato per l’occasione.
In Italia, dove spesso le polemiche storiche sono pretesto per risse e linciaggi da parte della destra, qualcuno ha fatto finta che questa strada non fosse stata compiuta. Già vent’anni fa - come rivendica nei suoi scritti - Napolitano riconobbe che «Giolitti aveva ragione»; oggi allarga il discorso alla sinistra italiana e ai meriti di Nenni.
Per i critici più “sottili” che sfidano il presidente della Repubblica e chi viene dal vecchio Pci a chiamare col nome di rivoluzione gli eventi d’Ungheria non resta che rimandare all’incipit del capitolo che Giorgio Napolitano dedica nella sua autobiografia proprio a quelle vicende: «...ci fu prima il trauma del 1956: dei “fatti d’Ungheria”, della rivoluzione ungherese e della sua repressione».

Liberazione 29.8.06
Ci ha lasciati la paziente simbolo (suo malgrado) del Santa Maria della Pietà di Roma. Vittima per trenta e più anni della segragazione manicomiale: protagonista di un riscatto sociale formidabile grazie anche al progetto di riabilitazione che porta il suo nome
Il testamento di Giuseppina F., morta libera dal manicomio


Ventisei anni fa moriva a Venezia Franco Basaglia, lo psichiatra cui si deve l’introduzione in Italia della legge 180 e la chiusura dei manicomi. Quattro giorni fa è morta Giuseppina F., paziente storica dell’ospedale psichiatrico Santa Maria della Pietà di Roma. Vittima per trenta e più anni dei soprusi manicomiali, Giuseppina è poi diventata protagonista di un riscatto sociale formidabile grazie anche al progetto di riabilitazione che porta il suo nome. Uno psichiatra e uno psicoterapeuta, Luigi Attenasio e Angelo Di Gennaro, la ricordano attraverso una “finzione” - dedicata anche a Basaglia il cui pensiero e la cui pratica sono ancora attuali - in cui raccontano le sue ultime volontà.

All’alba del 25 Agosto me ne sono andata così senza clamore, in modo civile e dignitoso per quanto possa esserlo quando si muore. Ero ricoverata al Policlinico Gemelli per, come si dice, un brutto male. Lì ho sofferto ma anche non ho sofferto. Gli psichiatri stiano tranquilli, non è un delirio, come lo chiamano loro, il mio. Soffrivo, questo sì, ma la mia sofferenza era ridiventata una sofferenza, per così dire normale, in un luogo riconosciuto da tutti come un luogo di cura. Nonostante la malattia avanzasse velocemente come un carro armato (dico così perché anche io sono rimasta colpita da tutto quello che ormai troppo facilmente avviene in questo mondo dove si va a fare la guerra per imporre la pace), con i medici a fare di tutto per fermarla, ho avuto la possibilità di riflettere sulla mia vita (sono/ero del 1949). Ah, ho dimenticato di dire che a 16 anni sono entrata nel manicomio di Roma e vi sono rimasta più di trent’anni. Anni bui, di silenzio sociale, di privazione e negazione dei diritti, dai più elementari, mangiare, dormire sereni, lavarsi…, a quelli più ”sofisticati”, vestirsi decentemente, leggere, studiare, avere relazioni, insomma scegliere di fare ciò che più ti piace. La mia presunta malattia d’origine, chi se ne ricorda più, la cui definizione lascia il tempo che trova, non può essere una giustificazione a tutto quello che ho passato lì dentro. Poi, finalmente, grazie alla 180, le dimissioni dal S. Maria della Pietà e l’inserimento in una grande casa con una “impresa” riabilitativa, il Progetto Giuseppina, chiamato proprio come me, perché nel frattempo ero diventata, non mi date della presuntuosa, abbastanza “famosa”. Purtroppo come lo si può essere in manicomio. Avevo proprio un bel caratterino ma mi sembrava giusto non venire sconfitta, lottare con tutte le forze, anche se impari, contro le violenze e i soprusi che mi facevano, che sentivo ingiusti gratuiti e immeritati. Una volta fuori, da vittima sono diventata protagonista, se così si può dire, perchè ho contribuito a trasformare le teste di tanti che mi sono stati vicino, in fondo tutta la grande famiglia del Progetto Giuseppina. In primis, e me ne sono accorta dall’atmosfera di grande rispetto e commozione che aleggiava durante il mio funerale, tutti i miei compagni di decennali sventure manicomiali con cui avevo condiviso i tanti passi avanti fatti. Con loro vivevamo anche affettuosamente: Eugenio, per esempio, mi trattava come una figlia mentre Anna, un’altra veterana del Progetto, mi ha salutato con grande dolcezza: ” Ciao Giuseppina, dormi, dormi! ”. Non li avevo mai visto così seri, così “sani e normali”. Di quella normalità che in questo caso non è concetto banale ma è “fotografia” e senso di una raggiunta conquista di civiltà e democrazia. Sono stata importante anche per gli operatori, che mi hanno voluto bene e a cui ho voluto bene: ora sanno che ci si può riscattare umanamente e socialmente se si riprende a vivere da persone e non da bestie. Per non dire dei miei familiari, con cui si era ricostruito un rapporto umano, di cui avevo perso il gusto e il sapore. Mia sorella Maria, poi, una vera combattente, ha giurato sulla mia bara che continuerà a lottare perchè non tornino più i lager manicomiali.
A questi due dottori, Luigi Attenasio e Angelo Di Gennaro, del Dipartimento di Salute Mentale della ASL Roma C, lascio queste mie ultime volontà. Mi sembrano bravi come gli altri di Psichiatria Democratica che ho conosciuto e che sono andati anche a Strasburgo a dire che i manicomi non devono esistere più non solo in Italia ma anche in Europa. E voglio ricordare, chissà se è una coincidenza, che Franco Basaglia moriva, come oggi, ventisei anni fa. In una calda giornata di Agosto, proprio come me. E’ lui che chiamo a garanzia contro ogni tentativo di ripensamento sulla 180. Da qualunque parte esso venga, anche in modo subdolo e mascherato, come quando si rivendicano sottili distinzioni tra cura e assistenza e si dice che prendersi cura anziché curare significa non prendersi la responsabilità della cura e della guarigione, generando nuova cronicità. Bene ha fatto la dottoressa Gabriele che si chiama Giuseppina come me, quella che è diventata un importante direttore ma che io ricordo perché è andata a lavorare con Basaglia, a cantargliene quattro a quelli che dicono che fare psichiatria in senso trasformativo significa fare soprattutto psicoterapia. Come se solo parlare con qualche specialista può cambiare la mente. E stare in una casa invece che in un manicomio, lavorare, amare, essere amati, fare delle cose, non è anche questo terapia? Che valore avrebbe allora il lavoro altamente qualificato degli operatori dei dipartimenti (ce ne sono tanti di seri e bravi) o di Antonella, Giuseppe, Pietro, Maria Grazia della cooperativa Aelleilpunto tra le cui braccia negli ultimi anni sono vissuta e anche morta? Se non si può parlare di certe cose (che non si conoscono), è meglio tacere. Fidatevi, ve lo dice una che la psichiatria l’ha conosciuto e subìto, non teorizzata e se mi si domanda se sono guarita dalla malattia mentale, da quassù lo posso dire: sì!. Voglio salutarvi tutti con un messaggio: guardare avanti è bene ma guardare avanti e indietro é ancora meglio.
Giuseppina F.

L’anniversario - 26 anni fa moriva Basaglia
«La follia è una condizione umana. In noi la follia esiste ed è presente come lo è la ragione. Il problema è che la società, per dirsi civile, dovrebbe accettare tanto la ragione quanto la follia, invece incarica una scienza, la psichiatria, di tradurre la follia in malattia allo scopo di eliminarla», sono parole di Franco Basaglia, padre della legge 180 e fondatore di Psichiatria Democratica, morto ventisei anni fa a Venezia.
Il primo impatto con la terribile realtà dei manicomi - cancelli, finestre chiuse, persone legate, camice di forza, catene- Basaglia lo ha nel 1961 quando diventa direttore dell'Ospedale psichiatrico di Gorizia. E’ la che inizia a metter in pratica le sue idee: niente più contenzione fisica, elettroshock o lobotomie. Niente più cancelli chiusi, Niente più pazienti trattati come cose, ma come persone.
Nel 1971 Basaglia è all’ospedale psichiatrico San Giovanni di Trieste. Nascono le cooperative di pazienti che lavorano e guadagnano, ma anche laboratori di pittura e di teatro, esperienze che continuano ancora oggi. Nel 1977 Il San Giovanni è il primo manicomio a chiudere in Italia. Un anno dopo, il 13 maggio 1978, il Parlamento approva la legge 180 di riforma psichiatrica. Finalmente tutti i ”malati mentali“ escono dai manicomi. E’ la fine delle violenze gratuite, delle umiliazioni, dell’assenza di diritti. Niente più elettroshock forzato, lobotomia, confisca dei beni. L’indesiderato, non si può più cancellare o nascondere rinchiudendolo in una struttura dalla quale uscirà solo da morto. Da quel momento in poi la follia va riconosciuta ed accettatta.
Basaglia muore nel 1980 a causa di un tumore al cervello fulminante, ma ancora oggi, a ventisei anni dalla morte e a ventotto dalla 180, le sue idee sono ancora ancora vive e attuali. Purtroppo non mancano i continui attacchi alla legge 180, attacchi da chi il diagio altrui vorrebbe fosse nascosto.

Corriere della Sera 29.6.06
Quelle oscure vie della complicità
di Edoardo Boncinelli

Natascha è stata sequestrata quando aveva dieci anni e per otto anni è stata in balia del suo sequestratore. Si è liberata e sembra felice di essere libera, ma non mostra verso quello che a conti fatti si è comportato con lei come un aguzzino quel risentimento che ci si potrebbe aspettare. Una storia con qualche tratto gentile, in mezzo a tante altre solamente trucide e violente. Un’anomalia nell’anomalia. Ci sono stati infatti casi di vero e proprio rapimento amoroso per il sequestratore da parte della ragazza sequestrata, casi che vanno certamente spiegati. Ma qui non c’è nemmeno questo incapricciamento.
C’è una presa di distanza, una strana aria di maturità, un’assenza, almeno apparente, di odio verso chi le ha fatto subire un rapporto estorto e distorto, negli anni dello sbocciare della sua femminilità. Come spiegarlo? Nel rapporto sentimentale umano concorrono due componenti essenziali: la sessualità finalizzata alla riproduzione e un lento processo di attaccamento reciproco che trova il suo modello nel rapporto fra genitore e figlio, soprattutto fra madre e figlio. L’atteggiamento materno verso i figli e quello filiale verso i genitori è presente in molte specie animali più o meno vicine a noi. Costituisce il centro nodale delle cosiddette «cure parentali», quei comportamenti dei genitori verso i figli che comprendono il nutrimento, la protezione, l’istruzione e anche il conferimento di un senso di sicurezza, fondamentale per poter crescere bene. Questo clima privilegiato di solito si allenta e dilegua dopo che la prole comincia a «camminare con le sue gambe».
I nostri «cuccioli» però restano tali per un periodo molto più lungo di tutti gli altri e conservano per lungo tempo, somaticamente e psicologicamente, molti dei caratteri tipici degli esemplari giovanissimi delle altre specie. E’ per questo che si sviluppa quella particolarissima forma di attaccamento reciproco fra uomo e donna, e talvolta anche fra individui dello stesso sesso, che noi chiamiamo amore romantico. In questo rapporto ciascuno tende a comportarsi come un figlio rispetto al partner. Ma poiché i due non possono comportarsi entrambi come figli, succede che in qualche circostanza l’uomo fa il figlio e la donna la madre e in altre le parti si invertono.
Questo gioco dura normalmente per tutta la vita, ma è negli anni dell’adolescenza o in quelli immediatamente successivi che viene messo a punto. Che è poi l’età nella quale secondo i greci della classicità i giovani migliori si andavano formando «all’ombra» di una guida più sicura e più esperta. Natascha si è trovata a vivere quegli anni in uno stato di reclusione e di soggezione, ma evidentemente Wolfgang la trattava in una maniera particolare, una maniera che l’ha offesa e vilipesa, ma non lacerata. Lei ha così avuto una sorta di «educazione sentimentale», abnorme e riprovevole quanto si vuole, ma che non ha impedito lo sviluppo di una sorta di complicità e quasi di comprensione anche da parte sua. Nei recessi del «guazzabuglio del cuore umano» di manzoniana memoria in Natascha libera è affiorato poi un barlume di istinto materno verso il figlio discolo, ma in fondo bisognoso di protezione.

Corriere della Sera 29.6.06
Gli scritti pessimistici di Schopenhauer
OLTRE IL GIOCO DELLE OMBRE
di Paola Capriolo

Curioso destino, quello di Schopenhauer: lui che fu e si volle filosofo sistematico, tanto da prescrivere al lettore l'ordine esatto in cui affrontare i suoi scritti, già in vita dovette gran parte del proprio tardivo successo non tanto all'architettura possente del Mondo come volontà e rappresentazione,
quanto allo scintillante stile aforistico dei Parerga e paralipomena, dove il rigore della speculazione metafisica cede così spesso il campo a quell'argomentare fulmineo, come a colpi di fioretto, che gli procura un posto d'onore nella tradizione dei grandi moralisti.
Di questo secondo filone, apparentemente più eccentrico e divagante, fanno parte anche le piccole gemme che da anni Franco Volpi va estraendo dalla miniera delle carte postume e l'ultima delle quali è appunto la breve raccolta di Senilia ora pubblicata nella traduzione di Giovanni Giurisatti (Arthur Schopenhauer, L'arte di invecchiare, edito da Adelphi, pp.112, € 8).
Il tema di fondo, come risulta dal titolo, è la vecchiaia, o più esattamente la vecchiaia quale si presenta a un maestro del pessimismo, nonché incallito misantropo sin dalla più tenera età, che giunge a varcare serenamente la soglia dei settant'anni rifiutando con sdegnosa impavidità qualunque conforto di tipo religioso. C'è poco da illudersi: l'uomo non è altro che un "nulla vivente", condannato ad abitare per una manciata d'anni questo inferno che è il mondo svolgendovi il duplice ruolo di anima dannata e di diavolo torturatore; così stando le cose, è vano presumere di poter trasferire armi e bagagli in una qualche vita ultraterrena ciò che siamo soliti definire la nostra individualità, anche se senza dubbio sarebbe carino «portare intatto nell'altro mondo il greco che abbiamo imparato in questo».
Eppure, proprio mentre ci mostra la vanità delle più diffuse speranze umane, Schopenhauer ce ne addita un'altra, attinta dal cuore stesso del suo sistema: la speranza, anzi, la ferma convinzione che «tutto ciò che trapassa non è mai veramente esistito» e che la nostra essenza più profonda non si identifica con quanto in noi è soggetto al tempo. Ora la comprendiamo meglio, la serenità di questo vecchio: è quella di chi non cerca l'immortalità altrove, in una chimerica vita futura, ma sa di portarla in sé, nel centro del proprio essere.
In fondo è semplicissimo: basta distogliere lo sguardo dal gioco di specchi che tempo e spazio proiettano intorno a noi, per cogliere dietro l'effimera fantasmagoria dei fenomeni l'eterna, unica realtà della "cosa in sé"; allora scopriamo che quella "pretesa ridicola" dell'immortalità viene davvero esaudita, ma «solo grazie al fatto che l'individualità è una mera apparenza»; mentre «ciò che rimane immutato e sempre identico, e non invecchia col passare degli anni, è appunto il nucleo della nostra essenza, che non sta nel tempo e proprio per questo è indistruttibile».
Secondo il pensatore l'individuo è pura apparenza

Corriere della Sera 29.6.06
Nel «Muro di pietra» il filosofo analizza la contraddizione fra dolore e speranza di salvezza
Severino e il paradosso di Dostoevskij
La scelta fra Cristo e la verità: una lettura controcorrente
di Armando Torno

B isogna ammettere che in Italia oggi scarseggiano i filosofi. La maggioranza dei personaggi che viene identificata con la nobile qualifica è composta da gioviali commercianti di idee che scribacchiano, a volte insegnano e se la cavano più o meno dignitosamente; una piccola quota è inoltre quella dei cicisbei televisivi, che si trascinano da una rete all'altra per non far dimenticare la loro faccia. Tra le altre medie e infime categorie non mancano nemmeno coloro che cercano di vestirsi da filosofi e di essere pronti ad aggiungere un'opinione a tutto quel che capita: sono gli eredi degli «intellettuali impegnati» del '68, che diventavano autorevoli con barba e propositi di lotta. Ci sono poi i patetici, gli scopritori di acqua calda, i chierichetti del pensiero che conformano le proprie genuflessioni al problema. E così di seguito, fra intrattenitori proni e supini di ogni genere.
Tutta gente che non fa del male ma, come dire?, è sovente ignorante, fastidiosa e pochi, se non pochissimi, sanno leggere i veri maestri sui testi originali. Il guaio è che circolano traduzioni traballanti e improvvisate: in altri tempi avrebbero causato duelli all'ultimo sangue. Pazienza. Usando un'espressione popolare diremo che «la va così».
Non chiedeteci di fornirvi, cari lettori, un elenco di eccezioni. Chi scrive mai ha fatto il pagellatore in vita sua e non desidera cominciare ora. È però certo che uno dei pochissimi filosofi italiani sia Emanuele Severino, che da oltre un cinquantennio scrive pagine di riferimento, è tradotto in diverse lingue e non è sceso a compromessi con l'aria che tira (o che tirava).
Le sue opere ormai si dividono in due categorie: quelle teoretiche, che escono nella collana filosofica di Adelphi (dove sono state ristampate anche le giovanili), e quelle divulgative (nate da articoli, brevi saggi, conferenze o prefazioni) che sono quasi tutte edite da Rizzoli. In questi giorni vede la luce, appunto da Rizzoli, Il muro di pietra, l'ultima raccolta che reca come sottotitolo «sul tramonto della tradizione filosofica» (pp. 206, e 19). Il libro chiude una trilogia, cominciata con Dall'Islam a Prometeo
(2003) e proseguita con Nascere (2005). Tra i dieci saggi che contiene — vere palestre per pensare — ci sembra che due offrano spunti inediti nel percorso di ricerca di Severino. Si tratta de Il muro di pietra e de La differenza ontologica.
Partiamo da quest'ultimo. Sono pagine dove Severino scende nel sottosuolo, o meglio nell'inconscio, della filosofia di Heidegger, passando attraverso gli atomisti, vale a dire quei pensatori che sono tra i fondatori del materialismo. Egli nota — lo riferisce anche Aristotele — che per Leucippo e Democrito, i primi maestri di questa scuola, «il vuoto è», affermazione che equivale a «il nulla è». Da un lato il vuoto separa l'essere da se stesso, proiettandolo nel molteplice; dall'altro è la condizione della possibilità del divenire. Scrive Severino: «Per la prima volta in modo esplicito, per rendere possibile l'affermazione dell'esistenza del divenire, l'atomismo afferma, dunque, che il nulla è».
Nella fascinosa analisi che segue, si evidenzia il tentativo, da parte di Platone e Aristotele, di evitare le conseguenze di questa affermazione; quindi si ricorda che Nietzsche fu il primo a sostenere che se c'è un divenire non può esserci un Dio pieno; infine che in Heidegger si legge un'apertura — dopo aver identificato l'essere con il vuoto e il nulla — che lascia intravedere nel suo discorso la possibilità di Dio. Ma non è qualcosa di tenue o di velato. Per farsene un'idea, basterà notare che Severino crede che Heidegger sia più vicino a Dio rispetto a Kant.
Ma la novità del libro è l'analisi filosofica di Dostoevskij, attuata attraverso la lettera del 1854 a Natalia Dimìtrievna Fonvìzina (dove lo scrittore afferma che se dovesse scegliere tra la verità e Cristo, preferirebbe quest'ultimo), quindi con alcune pagine delle Memorie del sottosuolo, infine e soprattutto con il capolavoro ultimo del sommo russo, I fratelli Karamazov.
Dostoevskij è considerato — come Eschilo e Leopardi — un filosofo e la sua analisi del dolore è letta nella prospettiva del divenire. Proviamo a tradurre il tutto in parole semplici: se l'evidenza del mondo è il dolore, allora non si può parlare di redenzione futura in una composizione operata da Dio nel Regno dei Cieli, perché questo dolore presente che colpisce anche un bimbo nessuno potrà cancellarlo in un tempo che verrà. La sofferenza è una delle forme emergenti del divenire e se ci fosse redenzione futura, essa sarebbe una burla nei confronti del dolore reale che l'uomo continua a provare.
Per completezza va aggiunto che «muro di pietra» è un'espressione che compare nelle Memorie del sottosuolo e rappresenta la Teoria incontrovertibile e assoluta, o meglio il «due più due fa quattro». Sestov — del quale Bompiani ha appena pubblicato il fondamentale Atene e Gerusalemme — riteneva che il «muro di pietra» sia il «principio di non contraddizione» che è stato formulato nel IV libro della Metafisica di Aristotele, Severino aggiunge che nella ricordata lettera alla Fonvìzina il «muro di pietra» andrebbe tradotto con «verità». Ma sappiamo che Dostoevskij sceglie Cristo rispetto alla verità. O lo preferisce alle teorie che la filosofia ha elaborato, e continua a elaborare, su di essa?

Corriere della Sera 29.8.06
Il blitz del 10 agosto
«Gli arrestati di Londra non erano pronti a colpire» Il New York Times attacca la tesi del complotto
di Alessandra Farkas

NEW YORK — Le autorità inglesi e americane avevano parlato di una «strage di massa su scala inimmaginabile», «ben più catastrofica dell'11 di settembre», «vicinissima alla fase di esecuzione». Ma a smontare la «montagna di indizi» raccolti lo scorso 10 agosto dalla polizia britannica sul presunto complotto terroristico per far saltar in aria, con esplosivi liquidi, dieci aerei in volo, potenzialmente su città americane, è il New York Times.
In un articolo firmato da Don Van Natta, Elaine Sciolino e Stephen Grey, il quotidiano americano, da mesi impegnato in un braccio di ferro con l'Amministrazione Bush, suggerisce che, «se mai davvero esistito, il piano degli aspiranti attentatori non era affatto vicino all'esecuzione».
«I sospetti non erano pronti a colpire immediatamente» hanno rivelato al giornale cinque alti funzionari britannici.
«Nonostante le incriminazioni — scrive il New York Times —le autorità inglesi non sono ancora sicure che tra i sospetti ci fosse qualcuno tecnicamente capace di mettere assieme e far esplodere liquidi in un aereo in volo».
Il New York Times aveva sollevato simili dubbi già lo scorso 14 agosto in un editoriale, dove Paul Krugman sosteneva che «gli inglesi volevano aspettare, ma gli americani hanno spinto perché si andasse avanti». Una tesi ben più articolata nel reportage di ieri, pubblicato in un primo momento solo sulla versione cartacea distribuita in Usa. «La diffusione sul web è stata rinviata temporaneamente su suggerimento dell'ufficio legale — spiega una nota della direzione —. La legge britannica proibisce la pubblicazione di informazioni che possano pregiudicare un'azione legale in corso».

Liberazione 29.8.06
Modigliani, l’arte a scapito della vita
di Paolo Nelli

Una mostra fa emergere il contrasto tra la serenità dei suoi quadri e l’impulso autodistruttivo della sua esistenza. Con le compagne aveva rapporti conflittuali ma nulla traspare nell’equilibrio delle figure umane dipinte. Alla Royal academy of arts di Londra fino al 15 ottobre

Londra. Una vita destinata a leggenda bohémien. Povertà, malattia, relazioni disperate, droga, alcol. Perché la vita non vale la propria arte e perseguire l’arte vale la perdita della propria vita. Eppure il contrasto è forte tra la serenità dei quadri di Modigliani e la sua esistenza votata all’autodistruzione. Thora Klinchowström, modella per una delle ultime tele, testimonia che Modigliani non smise un attimo di bere, di tossire, di sputare sangue, mentre la dipingeva. Ma la pacatezza della figura dipinta è solenne. Tutto è bilanciato. Pastosità dei colori nel richiamo tra sfondo e figura e quel carnato che assorbe la luce e risplende nella semplicità, che è forse la dote più grande di Modigliani. Rendere tutto semplice.
In un periodo dove l’anelito modernista portava alla distorsione, la sua distorsione è minima, al confronto, mirata a un’estetica dove l’equilibrio è tutto. Nell’arte, non nella vita. Nella ripetizione delle pose, l’inclinazione maggiore del viso o un braccio alzato, creano una dinamica nuova. Il sublime va cercato nel perfezionamento dei dettagli. Equilibrio tra classico e nuovo. Nessuna rivoluzione. Solo un affinamento delle nuove stimolazioni, cubiste, neoafricane, attinte nel fermento di una Parigi vulcanica, dove, a dispetto della prima guerra mondiale in corso, il mondo dell’arte si sedeva nei caffè, si stordiva di hashish, si annegava nell’alcol per creare l’arte moderna. L’arte moderna come frutto di una sbornia collettiva o, come dirà Duchamp, del «primo gruppo artistico veramente internazionale».
Modigliani è un pittore di esseri umani. Come ogni artista si è nutrito di ciò che lo circondava. Ma la sua fame era di persone, da fagocitare al servizio dell’arte. Messe a sedere o tenute in piedi su uno sfondo minimo. Mai in un contesto. Al limite la porta del suo studio, nell’ultimo periodo, funzionale a un bilanciamento di geometrie, a un taglio di colori. Eppure Modigliani non è ritrattista. Almeno non nel senso di scendere a compromessi con la commerciabilità, al servizio di committenti. Di modelli, però, aveva bisogno. Ha dipinto amici artisti, galleristi e loro parenti e conoscenti. E il loro nome lo scriveva sulle tele.
Per i suoi nudi era il mercante d’arte Zborowski a procurargli modelle. E a stipendiarlo. Si dice che lo chiudesse a chiave nello studio, e aspettava il quadro. Ma i nudi sono senza nome. Sono pure forme femminili al servizio della sua classicità. Si scorgono i corpi del Tiziano in quelle carni piene dai colori così vivi. Modigliani è un pittore della carne. Non c’è personalità in quelle donne, nessun riferimento biografico, solo forma, stilizzata eppure morbida. Nessuna delle sue compagne è stata dipinta nuda.
Beatrice Hastings era una poetessa che a Parigi scriveva per una rivista inglese. Una personalità scontrosa. Una relazione con Modigliani, tra il ‘14 e il ‘16 dove l’alcol e le liti abbondarono. Si narra di una lite terminata con la poetessa buttata fuori dalla finestra. Non c’è traccia di questo sulle tele. I suoi tratti fisici riconoscibili, inseriti nei tratti estetici che il pittore va inseguendo. Non c’è interesse psicologico di verità, in Modigliani. La vita, non solo la sua, ma quella di chi ritrae, è una cosa. Altra cosa è l’arte.
Nel 1918 Zborowski organizza un soggiorno di Modigliani, con la compagna Jeanne Hébuterne, in Costa Azzurra. La salute peggiora. Non ci sono amici, artisti o modelle. La mancanza di soggetti lo spinge verso la gente del posto, i contadini, i ragazzi. Senza intento sociale. C’è solo il bisogno di forme. Bisogno di persone per continuare a nutrire la sua arte che deve raggiungere una sua perfezione. Ovvero, si legge nel catalogo: «Colli lunghi e inclinati, visi ovali, allungati e piatti, occhi a forma di mandorla, labbra piccole e ben definite. Figure impostate su una ideale S. Le linee lunghe. I colori dello sfondo hanno un profondo legame coi colori dei personaggi». Con questi pattern astratti vengono dipinte le sue ultime principali modelle, Hanka Zborowska, moglie del gallerista, Lunia Czechowska, ospite della famiglia Zborowoski, e ancora la Hébuterne, con la quale Modigliani aveva già avuto una figlia. Hébuterne aveva 19 anni quando incontrò Modigliani. Era bella, giovane, un po’ timida, delicata e docile, così viene descritta. Di buona famiglia cattolica. E’ un amore totale, e malato. Modigliani è uomo affascinante, bello, quando non ubriaco anche gentile. Di lui accetta tutto. Sembra incarnare la figura dell’agnello predestinato al sacrificio per Modigliani. Nei quadri c’è solo la dolcezza. Nessuna traccia della vita vera, dei cambi d’umore dell’artista, dove all’affetto si alterna l’irritazione per la sottomissione incondizionata di quella ragazza. Lei esiste per lui. Per la sua arte e ha già capito tutto persa in un mondo adolescente. Non chiama neppure un dottore quando Modigliani da due giorni è incosciente. Non ci sono alternative. Non c’è lieto fine, neppure redenzione. La storia è nota. Due giorni dopo la morte di Modigliani, incinta di otto mesi, a 22 anni, si uccide.
L’ultimo modello di Modigliani è proprio se stesso. Lui, così restio a farsi ritrarre, sceglie la propria persona per l’ultimo dei suoi dipinti. Il più simbolico. Un autoritratto. Sullo sfondo, ancora, si direbbe una porta, ma l’equilibrio della composizione, stavolta, è sbilanciato verso sinistra, verso l’uscita. Le gambe del pittore sono già oltre. La tavolozza è al limite. Il resto del busto sta seguendo. La morte è già lì e lui, consapevole, gli va incontro. Da artista. Ho dato, me ne vado.
Le sue opere sembrano parlarci di un uomo che ha amato la gente. Mentendo. Della gente Modigliani aveva bisogno per pagare il suo personale tributo all’arte e 35 anni di vita gli sono bastati. In questo le opere non mentono. Sobrie e sature insieme, in perfetto equilibrio nei disequilibri di spalle troppo piegate, colli troppo lunghi, visi troppo ovali, emanano una sensazione di solennità semplice. E bellezza.

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