15.8.06

 
Liberazione 15.8.06
Una inversione nella politica internazionale
di Piero Sansonetti

Ha ragione Giulio Andreotti (come spesso gli capita in politica estera): la risoluzione 1701 dell’Onu, che pone fine a un mese di guerra feroce in Libano, non risolve il problema fondamentale che è la causa di quella guerra e della drammaticissima crisi del Medioriente: il problema palestinese. Mezzo milione di profughi in Libano, disperati, poveri, senza una prospettiva, e poi l’inferno di Gaza, dove l’esercito israeliano continua ad uccidere, e le centinaia di migliaia di senza patria, in Israele e altrove. Un popolo intero che non ha una terra, uno stato, un suo sistema di diritti, la possibilità di creare un’economia, e per di più è sottoposto alla violenza brutale di Israele e spesso a plateali violazioni di ogni forma di legalità. Oltre che alle sanzioni - ingiuste e odiose - decise dall’Occidente e dall’Europa, che non hanno gradito il risultato delle elezioni parlamentari a Gaza.
La questione palestinese è gigantesca e non la si può affrontare se non si rompe il sistema di potere-totale instaurato dal binomio Usa-Israele; e se non la si affronta non si potrà mai pensare di avere avviato a soluzione i problemi infernali di quella parte del mondo.
Detto questo, la risoluzione 1701 dell’Onu, dopo molti e molti decenni, segna una svolta nella politica internazionale. Badate che è una svolta importantissima. La 1701 mette fine (speriamo in modo non troppo effimero) a una guerra che aveva provocato centinaia di morti e di orrendi crimini (soprattutto dell’esercito di Israele). E produce una notevole quantità di effetti collaterali importanti: rilancia dopo anni di umiliazioni il ruolo dell’Onu (quasi cancellato dal Kosovo, dall’Afghanistan, dall’Iraq, eccetera); esclude di fatto la Nato e gli Stati Uniti dal ruolo guida e dalla partecipazione alla azione militare; assegna il compito di stabilire la pace all’Unifil (che è già presente sul posto ma vedrà aumentare i suoi uomini e i mezzi) e quindi a un gruppo di paesi europei guidati dalla Francia, e poi dall’Italia e dalla Spagna; impone a Israele di ritirarsi, e garantisce il ritiro con truppe neutrali. In sostanza imprime alla politica internazionale una inversione di tendenza. Che viene accolta con favore dal Libano e dal mondo arabo in tutte le sue formazioni, compresi Hezbollah e persino Jiad islamica. Ora voi capite che opporsi a questa risoluzione può avvenire solo o per errore, per una valutazione distratta, o - però sul versante opposto - perché non si vuole fermare Israele e ridurre il suo ruolo.
Dopodiché è giusto discutere, fare dei distinguo, chiedere garanzie: perché una missione militare è sempre una cosa molto complicata, ed è importante che sia controllata dal parlamento e dall’opinione pubblica e che avvenga dentro i confini delle regole costituzionali e della vocazione pacifista del centrosinistra italiano. Discutiamo bene, però tenendo conto che i tempi non li stabiliamo noi ma l’emergenza umanitaria, ed evitando di fare pasticci come confondere la missione in Libano con quella in Iraq o quella in Afghanistan: non è che sono imprese diverse, sono del tutto opposte. Nei fini, nei modi, nel senso politico.
P. S. Il mio amico Furio Colombo continua a polemizzare con la Rai perché è filopalestinese. Gli ha risposto Sandro Curzi con molta durezza. Ho grande affetto per Furio, che è stato mio direttore tanti anni, e col quale ho lavorato molto bene: però la sua polemica contro colleghi bravissimi del Tg3 è del tutto infondata e molto pericolosa. Infondata perché i giornalisti del Tg3 si sono limitati a riportare le notizie, e se le notizie erano di stragi orrende e di gravissime violazioni della legalità internazionale da parte di Israele, loro non potevano farci niente. Potevano tacere, sorvolare: avrebbero fatto un pessimo lavoro. Furio dice che non hanno dato con sufficiente rilievo la notizia che i bambini uccisi a Cana erano 17 e non 25. Già, ma tutti sappiamo benissimo che è difficile fare un titolo che dice: “Solo 17 i bambini uccisi a Cana dai missili israeliani... ” Non vi pare?
La polemica di Colombo è anche pericolosa, perché indicare pubblicamente dei giornalisti del servizio pubblico, e dire che sono sgraditi, e farlo dalle pagine di un giornale di partito - considerato il partito che ha la maggiore influenza sul Tg3 - potrebbe avere conseguenze. E noi di epurazioni di giornalisti ne abbiamo abbastanza.

Liberazione 15.8.06
«Fausto, perchè mandi messaggi a Castro? Lì c’è una dittatura...»
di Pietro Ingrao

Caro direttore,
Come militante di Rifondazione comunista sento il bisogno di esprimere il mio dissenso dal messaggio che in questi giorni il presidente Bertinotti e anche il compagno Giordano hanno inviato a Fidel Castro. Da tempo penso che a Cuba sia in atto un regime di pesante dittatura, che ha compiuto gravi atti di repressione del diritto al dissenso e alla libertà di opinione, instaurando nell’isola un clima di dura illibertà.
Può darsi che io mi sbagli, ma ritengo giusto si sappia che sulla situazione in atto a Cuba ci sono in Rifondazione rilevanti differenze di opinione.
* * *
L’opinione di Pietro Ingrao conta sempre molto. Specialmente su questioni così grandi e generali: come l’idea di libertà, di Stato, di dittatura, di regime. Il messaggio che Bertinotti e Giordano hanno inviato a Castro - e lo hanno fatto a titolo personale - rispecchia la linea politica (se si può usare questo termine un po’ antico) che Rifondazione ha sempre espresso su Cuba. Una linea di grande rispetto - naturalmente - per la rivoluzione e per molti dei suoi valori, (e per la lotta che Cuba ha dovuto sostenere, in questi quasi 50 anni, contro il continuo attacco degli Stati Uniti), ma insieme di critica severa per i limiti fortissimi alla libertà - e allo svolgimento democratico della politica - e per ogni singolo atto di repressione e di punizione del dissenso, o di violazione dei diritti umani. Questa critica Rifondazione l’ha espressa anche solennemente nella aule parlamentari.
Naturalmente Ingrao ha ragione: in Rifondazione convivono giudizi abbastanza diversi su Cuba e sul castrismo. Bertinotti e Giordano, per esempio, hanno detto molte volte di non essere convinti che l’esperienza castrista possa essere liquidata in toto, come fosse il regime sovietico o la storia del partito comunista bulgaro.

Liberazione 15.8.06
Saleem, sgozzata perché non seguiva le regole del patriarcato fondamentalista
Alle volte i maschi di famiglia decidono che il prezzo della libertà di una donna è la vita
di Monica Lanfranco

Facciamo un gioco: troviamo insieme quante più frasi e aforismi misogini, anche apparentemente lievi e persino ritenuti spiritosi, presenti in ogni tradizione e cultura? Inizio io: donne e buoi dei paesi tuoi (che allude al patto tra uomini sul non interferire in materia di governo delle femmine, bene economico fondamentale equiparato appunto al bestiame); chi dice donna dice danno (che traduce l’inevitabilità della sventura legata al sesso femminile e alla sua frequentazione, e giustifica l’assenza in vaste zone del mondo delle bambine, selezionate attraverso l’ecografia o soppresse alla nascita); la donna è la porta del diavolo (significato chiaro, affermazione variamente presente in ogni trattato religioso di ogni fede). Mi fermo qui, rammentando l’apparentemente innocuo auguri e figli maschi che non è raro incontrare, anche solo per scherzo, nei pronostici nazionali.
E’ nell’intreccio di questi fattori, impastati micidialmente di ossequio della tradizione, di fondamentalismo religioso e di legge patriarcale che origina la drammatica vicenda planetaria della guerra contro le donne, guerra che miete ogni anno vittime a milioni in tempi e luoghi dove infuria la guerra guerreggiata ma che parimenti umilia, schiavizza e uccide metà del genere umano anche dove non suonano le sirene, cadono bombe o esplodono corpi assassini.
In questi giorni di ansia per il Libano, per l’Iraq e per chissà quante altre guerre e pericoli che incombono rischia di passare come secondaria, o solo come fatto di ordinaria cronaca nera, la morte atroce, in luogo e tempo di relativa pace quale è la provincia bresciana, della giovane Hina Saleem, di origine pakistana, trovata uccisa e seppellita nel giardino della casa paterna. Dopo due giorni di inutili ricerche, innescate dall’allarme lanciato dal fidanzato italiano con il quale la ragazza viveva da poco, il ritrovamento del corpo ha dato il via alle indagini, dalle quali emergono inquietanti risvolti. Sembrerebbe infatti che l’esecuzione di Hina sia stata decisa da un consiglio di famiglia, che preferiva la sua morte piuttosto che il disonore di una convivenza con un uomo di diversa religione: la giovane si sarebbe sottratta ad un matrimonio combinato, trasgredendo al punto da osare convivere. Il padre, che si è costituito ieri pomeriggio insieme a un cognato, si rifiuta di rispondere agli inquirenti, mentre il fidanzato italiano sarebbe ancora sotto protezione, in un luogo segreto, per timore di eventuali ritorsioni da parte di altri familiari di Hina.
La foto della ragazza pubblicata dai giornali la ritrae bella, profondi occhi scuri, il sorriso aperto e pieno di vita che ogni ragazza dovrebbe avere nell’affrontare le promesse dell’amore, del futuro, della costruzione della propria esistenza, che invece è stata fermata per sempre dal coltello che le ha tagliato la gola. L’orrore della sua morte ci ricorda che ancora troppi sono i pericoli che le donne corrono, solo perché sono donne: pericoli che hanno le sembianze non di maniaci sconosciuti, di uomini folli o spietati che ti aggrediscono per strada, ma che hanno il volto, lo sguardo e le mani di tuo marito, del tuo compagno, di un tuo parente, di tuo fratello, di tuo padre. Uomini vicini, vicinissimi, che hai amato, spesso che ti sei scelta, con i quali hai progettato la vita, o percorsi di esistenza. Ci rammenta che fino a quando la libertà di scelta delle donne di vivere pienamente e senza vincoli, terreni e ultraterreni, non verrà considerata indicatore prioritario per la realizzazione della civiltà, della cultura e della politica di un paese e di un popolo nessuna donna e nessun uomo saranno al sicuro.
CI testimonia che la pace e l’armonia tra i generi si costruiscono a cominciare dalla sconfitta delle tenaci e letali visioni fondamentaliste di chi usa le religioni brandendole come spade e come uniche fonti per tenere l’ordine e il controllo, visioni che diventano leggi di regimi totalitari, spesso succhiate con il latte dalle madri, che purtroppo sorreggono l’architrave patriarcale, potente alleato di ogni regime liberticida, sessuofobo e oscurantista. Ci incalza a non perdere di vista che la sfida, oggi specialmente in tempi di guerra e scontro di civiltà, che deve raccogliere chi si dice femminista e di sinistra è quella di rilanciare i valori della laicità e dell’autodeterminazione femminile, fragili sempre e da tramandare con costanza e ostinazione alle giovani generazioni, per metterli a disposizione di ogni persona, specialmente di chi arriva in occidente, come beni preziosi, collettivi, e irrinunciabili. Hina ne voleva godere, e forse è stata lasciata sola, troppo sola di fronte al pericolo. Così come era stata lasciata sola la giovane operaia italiana perseguitata dall’ex fidanzato, nonostante lo avesse più volte denunciato alla polizia, e uccisa dallo stesso alcuni mesi fa. Così come sole sono state lasciate le oltre 200 donne ammazzate tra le mura domestiche lo scorso anno, punte sanguinanti dell’iceberg della violenza di genere. Sole, perché accanto alla costernazione e all’orrore c’è ancora troppa gente, e troppe culture, e troppi modi di pensare, che giustificano la violenza contro le donne. Si dice: certo è orribile che sia stata stuprata, picchiata o uccisa. Però. Però forse una donna non dovrebbe essere troppo libera; non dovrebbe provocare con l’abbigliamento, e perché poi studiare, o lavorare fuori casa invece di sposarsi e fare la mamma, perché essere inquieta, non stare al suo posto, chiedere, volere vivere? Perché non sottostare alla legge del padre, a quella del clan, a quella di dio? Troppo spesso gli omicidi di donne vengono giustificati e letti, quasi compresi e quasi empatizzati, come gesti di uomini disperati che non sono riusciti a sopportare il dolore e il peso della separazione, per troppo amore, per troppo attaccamento. E va a finire che era lei, la vittima, quella donna così troppo autonoma, ad essere egoista, insensibile: troppo poco donna, appunto.

il manifesto 15.8.06
Ma il Corano non permette di uccidere la figlia ribelle
Il diritto musulmano non delega alla famiglia il diritto di decidere sulla vita o la morte dei figli
di Annalena Di Giovanni

Un tempo ritenuto una tradizione culturale «mediterranea», ultimamente ritenuto da molti una pratica tipicamente islamica, il delitto cosiddetto d'onore è in realtà un fenomeno trasversale a culture e religioni, riscontrabile in qualsivoglia cultura dove la discendenza è patrilineare e dove il controllo della sessualità femminile viene caricato di precise istanze sociali. Tuttavia, che la condotta di una donna divenga il baricentro del prestigio della sua famiglia non è assolutamente sancito in ambito islamico. Non soltanto: che sia la famiglia, a giudicare e punire una donna, è insensato ed apertamente condannabile dal diritto musulmano.
Anzitutto, il complesso sistema probatorio del diritto islamico mal si adatta all'arbitrario sistema punitivo del delitto d'onore. Nel Corano sono condannati l'adulterio ed il sesso extra-maritale, o zina, e dunque meritevoli di punizione colui o colei li pratichino. Il problema, nel caso di una donna, è riuscire a provarne la colpevolezza. Per farlo occorrono quattro testimoni oculari pronti a giurare di aver visto la donna accusata fornicare consensualmente con un uomo che non sia suo marito. Contro i diffamatori esistono pene severe, e comunque cinque giuramenti di innocenza di una donna valgono più di quattro improbabili testimoni oculari messi insieme. Nel caso che la donna sia incinta, la prova non è sufficiente perchè una gravidanza non ne prova la colpa di consensualità; in questo, l'unica scuola giuridica a far eccezione è quella malikita, in vigore soprattutto in Africa occidentale, che considera la gravidanza prova sufficiente di zina. L'episodio nella vita del profeta Maometto alla base di questo questo complesso sistema di «tutela» dalla diffamazione (che all'epoca servì per discolparle sua moglie A'sha, sparita per una notte in compagni di un giovane) segnò un'evidente e volontaria frattura con il diritto consuetudinario e con l'intera struttura politico-sociale araba arcaica che proprio sul controllo e sulla reclusione delle donne si basavano. A prescindere dalla probatorietà o meno della zina, nessun sistema di diritto autorizza figure estranee al proprio ordinamento ad amministrare le pene ed il diritto musulmano non è da meno:perchè un padre o un fratello dovrebbero essere autorizzati a fare il lavoro di un tribunale? La dottrina giuridica islamica si è minutamente articolata e sviluppata per secoli, proprio per sostituirsi a quelli che erano i costumi e le tradizioni locali, svincolare gli individui dal potere del clan e garantire a tutti un «giusto processo» secondo i propri criteri. Perchè abdicare dunque? Un esempio lampante della distanza del diritto islamico dalla pratica del delitto d'onore è la turchia ottomana del 1500, quando nel tentativo di armonizzare l'estesa popolazione musulmana si istituirono corti sciaraitiche su tutto il territorio. Accadeva spesso che le donne «disonorate» ricorressero al tribunale autoaccusandosi. Il motivo era semplice: le pene dispensate dal Qadhi (giudice) rispetto a quelle del padre o del fratello maggiore erano ben diverse dalla morte. Dal canto suo, la comunità si riteneva soddisfatta dalla pubblica ammissione del proprio «errore». La morale era in qualche modo ribadita, l'ordine pubblico «salvo» e la reintegrazione della «svergognata» possibile.
Indubbiamente c'è un problema a monte, quello che sorge di fronte ad una morale religiosa e la sua imposizione. Anche l'Antico Testamento, come il Corano, prevedeva severe pene per l'adulterio ma sono ormai molti gli stati in cui religione ed ordine pubblico,sono ambiti distinti ed ognuno è libero di condurre la propria sfera privata in base alle proprie convinzione. Ma è logica e profonda la distanza tra delitto d'onore ed islam, quantomeno sul piano teorico.

il manifesto 15.8.06
Sulla strada dei diritti e della responsabilità
Un saggio di Francesco Fistetti che ripercorre la storia recente del pensiero critico italiano indicando nell'incontro di Gramsci e di Foucault la strada per uscire dalla sua crisi
di Carlo Altini

In questo lungo post-1989 parlare di marxismo, in Italia, non è ritenuto un elemento caratterizzante l'«intellettuale impegnato». Più rassicurante è parlare di «sinistra», magari senza specificarne la natura. Con tutta evidenza, si tratta di uno slittamento linguistico cui corrisponde uno slittamento culturale che indica un blocco etico ed epistemologico nell'elaborazione di una teoria critica della società. Malgrado questo tabù diventa, tuttavia, sempre più innegabile che proprio oggi alcuni elementi del pensiero marxista appaiono preziosi per cogliere la forma universale di astrazione che il capitalismo ha assunto nell'età globale, cioè nell'epoca della crisi della produzione fordista e della sovranità statale. Ma quale marxismo? E da dove ripartire, dopo gli anni del deserto?
Su il manifesto (24, 28, 30 marzo, 11 e 22 aprile) sono già apparsi contributi di filosofi e economisti che mirano a mettere a tema alcune prove di rinascita del marxismo. Francesco Fistetti (La crisi del marxismo in Italia. Cronache di filosofia politica: 1980-2005, il Melangolo, pp. 103, euro 16) ci indica una strada feconda, elaborando un intreccio esemplare tra filosofia politica e storia della filosofia. Infatti il suo ritorno su alcuni snodi fondamentali della storia intellettuale italiana degli ultimi tre decenni non intende limitarsi a proporre percorsi eruditi di catalogazione storica, ma intende proprio - attraverso la comprensione delle anomalie, delle svolte, degli errori e dei problemi inevasi del marxismo italiano - individuare una nuova via di pensiero critico.
Senza perdere il gusto per la complessità concettuale e le stratificazioni teoriche, le analisi politiche e i profili intellettuali tracciati da Fistetti si presentano come fugaci e lapidari giudizi sull'incapacità del pensiero marxista, negli anni Ottanta, di «guardare in faccia la realtà e di volgersi ad un atteggiamento critico nei confronti dei paradigmi filosofico-politici dominanti». Non meno vivide le accuse contro le politiche dei partiti della sinistra, in particolare contro la «legge bronzea delle élites» e contro la separazione tra teoria e politica. Addirittura disastrosa l'illusione nutrita da tanti intellettuali di trovare nelle pagine di Carl Schmitt e Niklas Luhmann la via d'uscita ai problemi della democrazia, mentre decisivo sarebbe stato l'incrocio - mai tentato - tra i concetti di egemonia e governamentalità, cioè tra le indagini di Antonio Gramsci e Michael Foucault sulla «metafisica» e sull'antropologia dello Stato keynesiano-fordista (e, in misura minore, per l'autore sarebbe stato utile il confronto con l'austromarxismo di Bauer e Adler, con il socialismo liberale di Carlo Rosselli e con il liberalsocialismo di Guido Calogero).
Ne risulta pertanto una galleria di errori (da quelli compiti secondo Fistetti dai marxisti Tronti, Geymonat, Negri e Asor Rosa e dagli intellettuali di «sinistra» Cacciari, Vattimo, Veca e Flores d'Arcais), di fronte ai quali vengono invocati gli esempi di riflessione critica offerti da Claude Lefort, per esempio intorno al tema-chiave della biopolitica totalitaria.
Risiede in questo mancato aggiornamento della «cassetta degli attrezzi» dei marxisti italiani (ma, possiamo aggiungere, non solo italiani) l'incapacità di comprendere e di governare il decisivo passaggio culturale dal paradigma distributivo al paradigma del riconoscimento che si è consumato negli anni Novanta e la cui onda lunga è ancora al centro (talvolta in modo tragico, come nei tribalismi fondamentalisti) delle attuali politiche nazionali e internazionali.
La pars destruens del volume serve a spiegare lo status quo del pensiero marxista dovuto alla sciagurata divaricazione tra le «due sinistre», cioè tra coloro che accettano un angusto liberalismo economico-politico e coloro che, pur smascherando le illusioni del neoliberalismo, non riescono a definire un nuovo paradigma democratico, visto che si limitano a enfatizzare le tendenze negative della cittadinanza nazionale e della governance globale. Fistetti non ha dubbi sul nucleo del problema: «Il punto critico della teoria di Marx e dei marxismi è esattamente il politico» che porta a pagare un prezzo altissimo alla difesa della democrazia e dei diritti.
In breve: al marxismo italiano è mancata un'elaborazione concettuale che, a partire da una riflessione critica sui propri limiti nell'analisi dello Stato keynesiano-fordista, fosse in grado di rispondere all'attuale crisi della democrazia, senza gettare via la democrazia stessa.
Qui Fistetti recupera la lezione di Lévinas assumendo la «responsabilità per l'altro» quale terreno di ricostruzione di una polis autenticamente democratica e quale risposta al rapporto problematico tra giustizia e riconoscimento. I diritti non devono dunque essere intesi individualisticamente, ma come bene comune (ecco perché è necessario parlare di asimmetria dell'altro e di eccedenza della diversità): solo così le differenze non si presentano come affermazione di identità contrapposte, ma come espressione di una finitudine consapevole dei propri limiti. Qui, in un'etica del limite che intacca lo statuto del soggetto «proprietario» senza corrodere il linguaggio dei diritti, risiede la vera sfida che il pensiero marxista può lanciare - senza complessi d'inferiorità - al pensiero liberale, soprattutto attraverso un ripensamento dell'ethos delle nostre categorie filosofiche e politiche, così da rimettere in gioco le questioni del dono e dell'obbligazione verso gli altri, anche e soprattutto nell'epoca della globalizzazione.

il manifesto 15.8.06
Variazioni attorno al trittico maledetto della filosofia
Oltre la tradizione Marx, Spinoza e Machiavelli. L'altra storia del materialismo. «Incursioni spinoziste» di Vittorio Morfino per Mimesis Il vuoto del presente Un teorico che costringe a misurarsi con l'aleatorietà degli eventi storici e le possibilità offerte dalla contingenza
di Roberto Ceccarelli

E' una fortuna che nessuno abbia ancora avuto il cattivo gusto di dichiarare l'avvento di un «rinascimento di Spinoza», anche se in Italia continuano a moltiplicarsi libri, convegni, tesi di laurea e un certo fascino diffuso per il filosofo olandese. Spinoza non è mai stato arruolato e, di conseguenza, abbandonato da un partito, dalle masse o semplicemente dagli specialisti. Dopo il «secolo grande e terribile», il Novecento, oggi non viene riscoperto proprio da «nessuno».
Al contrario di quanto purtroppo accade a Marx da qualche tempo. A nessuno infatti passerebbe per la testa che una rinnovata analisi filologica dell'opera di Spinoza possa scatenare le fantasie di una riscossa contro un mondo ingiusto. Non solo perché essa sia più impervia di quella del filosofo di Treviri, e non consente facili analogie con il presente, ma perché lo studio dei pensatori materialisti dovrebbe avvertire che raramente la teoria offre una chiave universale capace di imbandire la tavola per la rivoluzione.
L'indice di serietà di un libro su uno dei principali autori della tradizione materialista sta nello schiarire il cielo da ogni velleitarismo politico e teorico. Per chi crede che Spinoza - per non dire Marx - abbia inteso la teoria innanzitutto come il campo di battaglia contro altre teorie, segno che la teoria è sempre prodotta dalle contingenze storiche, da uno scontro, da una polemica, e che alla storia vanno strette la camicia di forza della teleologia o del finalismo, una lettura interessante è quella del libro di Vittorio Morfino Incursioni spinoziste. Causa, tempo, relazione (Mimesis, pp.235, € 16).
La ragione è evidente, basta scorrere i suoi primi tre saggi. Quello di Spinoza è ancora un pensiero che serve a muovere guerra contro le immagini consolidate del pensiero occidentale. Morfino scardina ad esempio l'immagine classica che la storia della filosofia ha dato di Spinoza. Quella cioè di una filosofia improntata all'idea che Heidegger aveva della storia dell'«Essere» e che oggi, dopo un trentennio di penetrazione nelle nostre università, mantiene ancora la testa nelle classifiche del gradimento accademico.
Nella ricostruzione fornita dal filosofo tedesco, scrive Morfino, sono presenti tutti i pregiudizi che hanno flagellato per secoli la ricezione dello spinozismo. Panteista, irrazionale, mistico è il pensiero spinozista nel quale, parola di Hegel e di Schelling, non esiste riflessione ma solo immediatezza; non esiste il lavoro del negativo ma solo la cieca necessità delle cose; non esiste storia ma solo teologia. In Heidegger, poi, come Cartesio, e più di Leibniz, Spinoza altro non sarebbe che un pensatore dell'anima occidentale, fautrice del nichilismo.
Morfino sostiene esattamente il contrario. Spinoza è la rottura con il nichilismo. Egli nega l'esistenza di essenze estranee (l'anima, l'essere, Dio e molto altro ancora) all'esperienza mondana e alla sua storia. Per lui non vi sono che eventi prodotti da una trama di relazioni tra individui, dall'intreccio delle causalità immanenti della storia, e dall'assenza di direzione degli incontri dai quali scaturiscono le condizioni per costruire la storia.
E' una prospettiva che si fa interessante quando, verso la fine del libro, Morfino riprende gli ultimi scritti di Louis Althusser. Si tratta dei testi «maledett»", scritti dal 1982 in poi, quando il filosofo francese usciva dal fondo oscuro in cui la sua mente era precipitata dopo l'omicidio della moglie. Testi trascurati che Morfino, animatore di riviste ma anche di collane editoriali, ha saputo valorizzare negli anni Novanta proponendo la loro traduzione in Italia. In questi testi Spinoza viene inserito in una «corrente materialista» che risale a Lucrezio e si allunga sino a Machiavelli e Marx. Althusser pensava questa storia «altra» della filosofia proprio in opposizione a quella descritta da Heidegger, per non parlare di quella sulla bocca di tutti i marxisti-leninisti ortodossi ed eretici del Novecento, il cui marxismo - scriveva - «è una forma trasformata e mascherata di idealismo».
Spinoza-Machiavelli-Marx. E' questa la triade maledetta indicata da Althusser nell'«altra» storia del materialismo che non serve solo a dimostrare che un altro mondo è possibile, ma che in questo mondo non esiste nessuna garanzia per nessuno. Questo perché esso naviga in un «vuoto» abbacinante: di valori, di fondamenti, di direzione, dove è necessario - con duro realismo - irrompere nella congiuntura politica e teorica e invertirne il senso.
Ma il vuoto della congiuntura è un drago difficile da domare. Perché ogni congiuntura matura per una trasformazione politica e sociale è sempre sospesa all'aleatorietà degli eventi. E può anche accadere che, una volta raggiunta una conquista (una rivoluzione, e persino lo stato sociale) la si perda nel breve giro di una generazione. Quella «crisi del marxismo», denunciata da Althusser alla fine degli anni Settanta, è oggi più attuale che mai perché è diventata crisi della politica tout court: incapace di fermare l'evento e di darsi una filosofia della storia; di consolidare le aperture politiche e sociali di una particolare congiuntura.
Il tragico alternarsi degli eventi sulla scena della politica, constatato in maniera rapsodica dall'ultimo Althusser, non sembra lasciare nel libro di Morfino alcuna traccia di scetticismo o di fallimento. Al contrario, alla fine della sua lettura ci si chiede se il costruttivismo politico dell'ontologia delle relazioni - una tesi già molto diffusa in Europa, a iniziare da Etienne Balibar nel suo ultimo libro su Spinoza Il transindividuale (Ghibli) - non sia un modo per credere materialisticamente in questo mondo. E di non tradirlo intonando l'inno crepuscolare del come eravamo che sembra ormai diventato l'unico modo per essere riconosciuti materialisti e di «sinistra», oggi.

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