30.8.06

 
l’Unità 30.8.06
DOCUMENTI
La prima condanna venne dalla Cgil guidata da Di Vittorio, su «La Rinascita». Il segretario del partito ne ottenne però il ritiro
Togliatti scrisse: «Controrivoluzione in Ungheria»
di Massimo Franchi

L’intervento di Giolitti all’VIII congresso del Pci non fu l’unica voce contraria all’interno del movimento comunista in Italia sui carri armati sovietici in Ungheria. In un comunicato, pubblicato integralmente sul numero di novembre del mensile “Rinascita”, la Cgil guidata da Di Vittorio «ravvisa nei luttuosi avvenimenti d’Ungheria la condanna storica e definitiva di metodi antidemocratici di governo e di direzione politica ed economica che determinano il distacco fra dirigenti e masse popolari e deplora l’intervento di truppe straniere». Togliatti riesce però ad ottenere un “dietrofront” del leader della Cgil in Direzione, non rispondendo direttamente a Giolitti fino all’espulsione per frazionismo che arriverà nel 1957 a cui seguirà la diaspora dal Pci degli intellettuali (Calvino, Sapegno, Trombadori, Crisafulli) annunciata dalla famosa “lettera dei 101”.
Il primo commento ufficiale di Togliatti ai fatti d’Ungheria viene pubblicato sul numero di ottobre sul mensile “La Rinascita”. Nell’editoriale dal titolo “Sui fatti d’Ungheria” il segretario del Pci definisce «estremamente gravi i fatti di questi giorni». Ben conscio delle conseguenze sulla base dell’intervento sovietico contro un governo amico percepisce «la necessità (...) che il militante del nostro movimento (...) non si lasci né sorprendere, né ingannare e sopraffare dall’ondata reazionaria, anticomunista, antisocialista, antisovietica che cerca, nella confusione degli avvenimenti, di trascinare l’opinione pubblica dietro di sè». A differenza della divulgazione del rapporto Chruscev sui crimini di Stalin, quando dopo mesi di attesa attaccò pesantemente il sistema sovietico nel famoso intervento alla rivista culturale “Nuovi argomenti”, Togliatti appoggia subito l’invio dei carri armati sovietici per fermare la «controrivoluzione». Il segretario del Pci addossa la colpa dell’accaduto «all’incomprensibile ritardo dei dirigenti del partito e del Paese nel comprendere la necessità di attuare quei mutamenti (...) che investono la linea seguita nella marcia verso il socialismo» partendo da un’analisi critica del XX congresso del Pcus. Per lui la sommossa di popolo è «organizzata, ha una sua ben elaborata tattica, obiettivi precisi, e non finisce quando, nell’ambito del regime esistente, sono attuate misure tali (il temporaneo ritorno al potere di Nagy, ndr) che garantiscono nel modo più ampio un indirizzo politico del tutto nuovo. Alla sommossa armata, che mette a ferro e fuoco la città, non si può rispondere se non con le armi». Riguardo alle pressioni imperialistiche scrive: «A noi spetta soltanto non perdere il senso della realtà politica e di classe. Sappiamo che l’Ungheria (...) è oggetto da anni di un continuo, martellante intervento. La parola d’ordine e la promessa della liberazione del socialismo sono state strombazzate dai governi imperialistici come uno dei cardini della loro politica. E le ha accompagnate una agitazione incessante, condotta con tutti i mezzi possibili, verso un paese dove le vecchie classi reazionarie conservano le loro radici e le loro speranze». Togliatti conclude poi richiamandosi ai dettami marxisti-leninisti. «Questa è la nostra posizione, che non concede nulla ai nemici del socialismo, che non deve mai attenuare la vigilanza contro i nemici di classe, e quando sono in corso avvenimenti drammatici come quelli d’Ungheria, ci consiglia di non perdere la testa, di guardare alla sostanza delle cose, di non lasciarsi dominare da reazioni unilaterali e sentimentali, né trascinare in uno schieramento che non è il nostro». Il mese seguente Togliatti torna sull’argomento con un altro editoriale dal titolo “Iroldalmi Ujsàg”, nome della gazzetta letteraria ungherese, addossando la colpa della sommossa al circolo di scrittori “Petoefi”. Sentendo che stava perdendo gli intellettuali in Italia, addossava loro la colpa dell’intervento in Ungheria.

l’Unità 30.8.06
Il peccato originale del '56 e la sinistra italiana
di Bruno Bongiovanni


IL CORAGGIO DI NENNI. Nelle parole di Napolitano c’è il riconoscimento pieno di una rottura che allora il leader socialista riuscì ad imporre al suo partito. Lo strappo con l’Urss non compiuto dal Pci cambiò la possibile evoluzione storica di tutti e due i partiti con parabole storiche allora inimmaginabili.

Questo giornale ha ieri pubblicato, all’inizio dell’articolo di Roberto Roscani, le cinque righe del messaggio inviato da Giorgio Napolitano a Giuseppe Tamburrano, presidente della Fondazione Nenni. A proposito di quegli eventi che venivano definiti con minimalistico descrittivismo burocratico "i fatti d’Ungheria", e che ora vengono giustamente rubricati come "rivoluzione ungherese", il Capo dello Stato, all’epoca giovane e già autorevole membro del comitato centrale del PCI, riconosce esplicitamente che non ebbero ragione, nel drammatico autunno del 1956, solo Antonio Giolitti e i promotori del dissenso all’interno del partito comunista, ma anche, e per certi versi soprattutto, i socialisti autonomisti del partito di Nenni, allora in fase di dolorosa, e tuttavia netta, emancipazione dal mito sovietico e dalla lealtà, cui non era estraneo un complicato complesso d’inferiorità, nei confronti del PCI. Non si può negare l’importanza del messaggio. Già vent’anni fa, quando il PCI era ancora in vita, Napolitano aveva tuttavia riconosciuto le ragioni di Giolitti e quindi degli insorti ungheresi. Nella sua autobiografia, scritta e pubblicata quando la presidenza della repubblica era ancora inimmaginata e di là da venire, lo stesso Napolitano non aveva inoltre esitato a rendere pubblico, sempre a proposito del ’56 ungherese, il suo "grave tormento autocritico" riguardo a una posizione a quel tempo consustanziale con la concezione autoritario-manichea del ruolo del Partito comunista, inteso come "inseparabile dalle sorti del campo socialista guidato dall’URSS", campo naturaliter contrapposto, in quanto già installato nel futuro dell’umanità, al fronte "imperialista". Non spazzata via e anzi rafforzata dal XX Congresso del PCUS, destinato a produrre cocenti delusioni dopo le illusioni iniziali, e non ancora messa in crisi, sullo stesso terreno geopolitico, dalla presenza ideale e nel contempo attiva di un campo europeo e democratico, era dunque la perdurante teoria staliniana dei due campi che ancora fermentava nelle coscienze dei comunisti, convinti di cavalcare il corso del mondo, strutturandone i giudizi e i pregiudizi.
Il messaggio, pur essendo stata l’Ungheria del ’56 metabolizzata appieno ben dopo la Cecoslovacchia del ’68, non è dunque importante per un qualche inedito sussulto autocritico. Tutto è già stato detto. E la "linea" togliattiana, codificata dopo il silenzio della calviniana "grande bonaccia delle Antille" (post-XX Congresso), e dopo gli applausi alle mitragliate sugli operai di Poznan (giugno 1956), da molti lustri è già stata fortunatamente messa in discussione. Quel che oggi pesa, e che assume un significato in qualche modo storiografico, è piuttosto il riconoscimento della politica coraggiosa e intelligente del PSI, un partito che allora volle rischiare, a differenza del PCI, la lacerazione (male minore rispetto alla subordinazione al "fantasma di Stalin"). Che approfittò della irreversibile libera uscita del 1956-’57 per adeguare il paese, con il centrosinistra, nonostante il sabotaggio tentato nel 1960 dal governo DC-MSI di Tambroni, e nonostante l’affievolirsi nel 1964 dello slancio riformistico, al panorama sociale che stava aprendosi grazie alla ancora oggi stupefacente rivoluzione industriale di massa del 1958-’63.
Andando ora a rivedere le posizioni espresse su "l’Unità" e su "l’Avanti!" nelle varie fasi della rivoluzione ungherese, e della controrivoluzione-normalizzazione imposta dall’URSS, si nota subito con quanta cautela e senso di responsabilità gli eventi vennero seguiti e commentati dal PSI. Il quale offrì, per così dire, una generosa sponda politica, assolutamente non conservatrice, cui molti dissidenti del PCI - Giolitti in testa - poterono armoniosamente adattarsi. Ma di cui il PCI non seppe e non volle approfittare. "L’Avanti!" rimase infatti coerente con se stesso. Sostenne, come "l’Unità", il nuovo governo ungherese, quando sembrò che quest’ultimo, prima del brutale voltafaccia dell’URSS, godesse dell’appoggio sovietico. Imre Nagy era infatti stato nominato primo ministro dal Partito comunista ungherese. E lo stesso Nagy aveva cercato e ricevuto assicurazioni da Yuri Andropov in merito al fatto che l’URSS non avrebbe soffocato con la violenza il nuovo corso. Andropov, peraltro, ben sapeva che le cose non sarebbero andate così.
La rottura tra le posizioni di Togliatti (e del PCI) e quelle di Nenni (e del PSI) maturò così in via definitiva solo con la svolta operata il 3-4 novembre, quando intervennero le truppe russe che non erano di stanza in Ungheria. Subito emerse, come già nei giorni precedenti, la resistenza operaia. Si formarono ovunque, come nel 1905 e nel 1917 in Russia, come in Germania in Italia e in Ungheria (!) nel primo dopoguerra, i consigli operai. Che seppero durare ben oltre la resa di novembre. Sino a effettuare, ancora in dicembre, e oltre, negoziati con il governo Kadar. Era in atto, dopo Berlino est nel 1953, e dopo Poznan nello stesso 1956, l’ultima rivoluzione operaia, anonima e "di classe", del XX secolo. Chi ricorda del resto un solo nome degli operai di Budapest ? Anche questa rivoluzione era comunque destinata alla sconfitta. "L’Avanti!" riconobbe ad ogni buon conto i caratteri socialisti della rivoluzione ungherese. Lo stesso Indro Montanelli, nelle sue celebri corrispondenze per il "Corriere della Sera", li riconobbe. Le parole durissime scagliate da Togliatti e da Longo, che accuserà di "revisionismo" Giolitti, sono anch’esse celebri. Così come nota è l’ autocritica effettuata a più riprese, già da molti anni, da Pietro Ingrao e la dissidenza di Giuseppe Di Vittorio.
Nelle parole di Napolitano si può infine cogliere, tra le righe, più di un rammarico. Per il coinvolgimento del Pci nella responsabilità morale e politica in un atto repressivo e antioperaio, certamente. Per la dissolta unità della sinistra, altrettanto certamente. Ma anche per l’autoisolamento in cui il Pci si autorecluse, facendosi sballottare dalle ulteriori repliche della storia e costringendo se stesso a una lunga traversata, effettuata al fine di abbandonare un pasticciato leninismo dimidiato e di agguantare quel che il PCI stesso, almeno in parte, nel 1956, già era. Ma anche il PSI, nucleo minoritario dal 1948 della sinistra italiana, fu lasciato solo dal PCI e accusato di collaborare con il "neocapitalismo". Così, anche per responsabilità della politica del 1956 degli ex alleati comunisti, dopo essere stato a sua volta, e per oltre vent’anni, un partito di lotta e di governo in grado di strappare, in sintonia con le trasformazioni della società, grandi conquiste (il divorzio, lo statuto dei lavoratori, e così via), il PSI fu trascinato in processi che erano estranei alla sua natura e alla sua tradizione. Sino a perdere, almeno in parte, se stesso. E a smarrire, almeno in parte, la sua vocazione libertaria. Si può allora dire che è un peccato originale, quello del 1956 del PCUS e del PCI, che la sinistra italiana, nel suo complesso, pur impegnata nella costruzione del partito democratico, sconta ancora oggi.

Repubblica 30.8.06
"Sull'invasione sovietica aveva ragione Nenni"
Autocritica di Napolitano sulle posizioni del Pci sull'invasione dell'Ungheria del 1956
Messaggio del presidente alla fondazione diretta da Tamburrano in vista del viaggio a Budapest
di SIMONETTA FIORI

ROMA - «Sui fatti d´Ungheria, sulla rivoluzione ungherese e sulla sua repressione, aveva ragione Pietro Nenni». Poche e scarne parole, quelle pronunciate da Giorgio Napolitano, alla vigilia del suo viaggio a Budapest nel cinquantesimo anniversario di quella tragedia. Un giudizio inedito, che allarga la riflessione autocritica, andando oltre il pubblico risarcimento formulato una ventina d´anni fa nei confronti del compagno Antonio Giolitti, dissenziente nel 1956 e per questo allora avversato dallo stesso Napolitano. Questa volta il riconoscimento s´estende al partito fratello, il Psi, impersonato dal coraggioso segretario che, sfidando gli umori filosovietici diffusi nella base, ruppe con "i metodi antidemocratici" della Mosca "neocoloniale". «Un´ammissione importante, ricca di implicazioni», la definisce Giuseppe Tamburrano, presidente della Fondazione Nenni e destinatario del messaggio presidenziale. «Non mi aspettavo un riconoscimento così diretto, anche se il ripensamento del complesso rapporto tra Pci e Psi in quella stagione è presente già da tempo nell´elaborazione di Napolitano».
Nel cinquantenario della rivolta ungherese, soffocata nel sangue dai carri armati sovietici, la Fondazione Nenni ha progettato un volumetto - La sinistra in quell´indimenticabile 1956 - che arricchisce la vecchia edizione di Quando i socialisti ruppero con Mosca (una raccolta dell´86) con le nuove testimonianze di Napolitano, Achille Occhetto, Rossana Rossanda. «Diversi mesi fa, prima della nomina presidenziale, chiesi a Napolitano di scrivere un saggio sull´argomento. Allora disse di sì, ma dopo l´elezione mi ha chiesto di alleggerirlo, proponendo di pubblicare il "capitolo ungherese" della sua autobiografia recentemente pubblicata da Laterza. La sorpresa è stata la lettera con il giudizio su Nenni».
Il riconoscimento al "fratello coltello" - fratelli coltelli erano Psi e Pci secondo una formula gramsciana - , finora mai apertamente espresso, è quasi una naturale maturazione della dolorosa autocritica che Napolitano va da tempo elaborando sulla rivoluzione ungherese repressa con la violenza. Una ferita ancora aperta per larga parte della sinistra, che per "zelo conformistico" - come annota il Presidente nell´autobiografia Dal Pci al socialismo europeo - acconsentì alle ragioni di Mosca. «La giustificazione del sanguinoso intervento militare sovietico, per soffocare un moto popolare bollato come controrivoluzione, rimane motivo grave di tormento autocritico», riflette Napolitano, il quale spiega l´ossequio all´Unione Sovietica con il mito "dell´intangibilità del campo socialista" sotto la bandiera di Mosca "rispetto alla sfida del fronte imperialista". «La verità», scrive ancora, «è che vedevamo poco, sentivamo poco le grandi questioni di principio - libertà e democrazia - che erano in gioco nel giudizio sui "fatti d´Ungheria". O meglio restavamo nel chiuso di certezze ideologiche acquisite nel partito».
L´omaggio a Nenni, oggi, rappresenta un ulteriore passo in avanti. Sostiene Tamburrano: «È implicito, in questo riconoscimento al Psi, un ripensamento del rapporto tra i due partiti. Evidente l´attribuzione al Pci della responsabilità della rottura a sinistra. Se Togliatti avesse sostenuto una posizione meno settaria, dando ascolto alle critiche di Giuseppe Di Vittorio, le cose sarebbero potute andare diversamente». Fin qui Tamburrano. Ma Napolitano concorda? «Se il Presidente avesse potuto sviluppare il suo ragionamento in un saggio, questa sarebbe stata la sua posizione. Ha preferito quella frase lapidaria - "Nenni aveva ragione" - in cui è già detto tutto».
Non casuale l´uscita su Nenni alla vigilia del viaggio a Budapest, a cui sta lavorando l´ufficio diplomatico del Quirinale. Un viaggio che - per impegni già assunti dal presidente - anticiperà di qualche settimana le cerimonie ufficiali del 23 ottobre. E che forse contribuirà a sanare quella ferita ancora aperta.

Repubblica 30.8.06
QUANTO PESA QUELL'ERRORE
di MIRIAM MAFAI

DUNQUE, aveva ragione Nenni quando nell´autunno del 1956 rompeva il patto di unità d´azione che da quasi trent´anni lo legava ai comunisti. Dunque aveva ragione Nenni quando, a proposito della rivolta degli operai e degli studenti di Budapest scriveva: «Quanto di meglio noi possiamo fare per i lavoratori ungheresi è di aiutarli a spezzare gli schemi della dittatura in forme autentiche di democrazia e di libertà…». Dunque aveva ragione Nenni quando, pochi mesi dopo, al Congresso di Venezia del Psi, gettava alle ortiche per il suo partito non solo la tradizionale politica frontista, ma ogni riferimento al marxismo leninismo, alla dittatura del proletariato, al legame con l´Urss.
Aveva ragione Nenni, come riconosce oggi, nella sua lettera a Giuseppe Tamburrano, il nostro presidente della Repubblica che quegli avvenimenti ha vissuto da giovane dirigente del Pci. E dunque aveva torto il Pci quando, nel corso di quelle drammatiche settimane di cinquant´anni fa, sceglieva di stare, come da un celebre titolo dell´Unità «da una parte della barricata», dalla parte dell´Urss, che aveva mandato i suoi carri armati a Budapest per soffocare la rivolta degli operai e degli studenti che si ribellavano alla dittatura e chiedevano un socialismo democratico, dal volto umano.
Il fantasma della rivoluzione ungherese del 1956 interroga ancora la coscienza di coloro che allora erano comunisti e non ebbero il coraggio o la lucidità politica di dissociarsi dalle posizioni del loro partito. Giorgio Napolitano, che allora aveva trent´anni ed era segretario della federazione di Caserta, ha già ricordato nel suo bel libro di memorie di aver seguito, da quella postazione di periferia «in modo piuttosto distaccato la discussione tra gli intellettuali dissenzienti». Tra questi intellettuali e dirigenti che rifiutarono di aderire alla linea del partito, di condanna per gli insorti ungheresi e di sostegno all´intervento dell´Urss c´era anche Antonio Giolitti che «aveva pronunciato il solo discorso di netto e sostanziale dissenso dalla tribuna dell´VIII Congresso. Tra i primi interventi polemici nei suoi confronti c´era stato il mio» ricorda Giorgio Napolitano. «L´intervento sovietico – affermò allora il giovane dirigente del Pci – oltre ad impedire che l´Ungheria cada nel caos e nella controrivoluzione ha contribuito a salvare la pace nel mondo».
E non è certamente per caso se, appena eletto presidente della Repubblica, egli abbia voluto far visita ad Antonio Giolitti, che in quella occasione, dopo quell´intervento congressuale, aveva abbandonato il Pci. Non fu il solo.
Italo Calvino racconta così quelle drammatiche giornate: «Quella sera in cui arrivarono le notizie dell´invasione dell´Ungheria ero a cena con Amendola a Torino, a casa di Luciano Barca, che dirigeva l´edizione torinese dell´Unità. Amendola era venuto a Torino per incontrare me e gli altri amici dell´Einaudi, per "tenerci buoni" perché si capiva che le difficoltà stavano arrivando e noi davamo segni di grande impazienza. Mentre Amendola parlava, Gianni Rocca che allora era redattore capo dell´Unità, telefonò a Barca. Aveva la voce rotta di pianto. Ci disse: i carri armati stanno entrando a Budapest, si combatte per le strade. Guardai Amendola. Eravano tutti e tre come colpiti da una mazzata. Poi Amendola mormorò: "Togliatti dice che ci sono momenti nella storia in cui bisogna essere schierati da una parte o dall´altra. Del resto il comunismo è come la Chiesa, ci vogliono secoli per cambiare posizione…"».
Non ci sono voluti secoli perché il Pci rivedesse le sue posizioni a proposito dell´Ungheria, perché rompesse quello che è stato chiamato il «legame di ferro» con l´Urss. Non secoli, ma un paio di decenni sì. Per molto tempo la rivoluzione ungherese del 1956 non ebbe nemmeno diritto ad essere definita tale dai comunisti italiani. Prima, nel corso di quelle drammatiche settimane, sul quotidiano del Pci e nelle assemblee di sezione quella rivolta venne qualificata di «terrore bianco» o «controrivoluzione». Poi con il passar del tempo quelle vicende vennero pudicamente ricordate come «i fatti d´Ungheria». Dieci anni dopo, nel 1968, un altro paese che faceva parte del campo socialista vivrà la sua rivoluzione democratica. Sarà la primavera di Praga, la rivolta in nome di un socialismo «dal volto umano». Anche questa volta il movimento sarà stroncato dall´intervento sovietico. Ma in quella occasione il Pci esprimerà, il suo primo dissenso da Mosca. Verranno poi, finalmente, le più esplicite prese di distanza di Berlinguer dall´Urss e dalla sua politica.
E tuttavia le poche righe con le quali oggi Giorgio Napolitano, ricordando gli eventi del 1956, riconosce «la validità dei giudizi di Pietro Nenni e di gran parte del Psi in quel cruciale momento» possono, forse debbono, essere interpretate anche come un invito a rileggere con maggiore equilibrio e attenzione le vicende del Pci e del Psi nel più lungo periodo. Con il Congresso di Venezia del 1957 infatti il Psi, liberandosi dal patto di unità d´azione con i comunisti e dal legame con l´Urss, si avvierà sulla strada di un accordo con la Dc che arriverà pochi anni dopo, nel 1960. Ma ci arriverà profondamente indebolito, sia per le divisioni interne sia per la polemica cui è esposto da sinistra. Da parte sua il Pci, ancora convinto della superiorità del sistema socialista su quello capitalista, alimentava la polemica contro la «deviazione socialdemocratica» del partito di Nenni, una polemica che trovava un´eco particolarmente favorevole nella sua base. I due partiti della sinistra italiana accentuavano così, dopo la crisi del 1956, quella divaricazione che li avrebbe portati alla fine alla reciproca, comune sconfitta.

Repubblica 30.8.06
IL COLLOQUIO
Pietro Ingrao: bisogna tenerne conto prima di dire che Nenni era nel giusto
"Il nostro un errore tragico ma ci fu la rottura a sinistra"
di s.fio.

Il '56 nelle memorie. Nell'autobiografia che uscirà ai primi di settembre parlo molto a lungo di quei fatti: più che un capitolo è la storia di una sconfitta
Il gelo di Togliatti. Quando capii la tragedia, parlai con Togliatti: di fronte alla mia incertezza fu molto freddo. Non ebbi la forza di reagire

«Quella pagina politica è stata per me la più dolorosa: il 1956 è un anno tragico per noi, tremendo». Alla vigilia dell´uscita della sua autobiografia, che alla tragedia di Budapest dedica i capitoli più tormentati, Pietro Ingrao si lascia andare a un ripensamento sofferto, ancora molto vivo a dispetto del mezzo secolo trascorso. «Non c´è dubbio che Antonio Giolitti e anche Pietro Nenni avessero ragione, ma il giudizio di Giorgio Napolitano mi appare un po´ sommario. Bisogna tenere conto anche della rottura a sinistra, prima di dare ragione a Nenni».
La sua è la storia d´un comunista, forse di specie particolare. Un comunista che "voleva la luna", dal titolo delle memorie che l´editore Einaudi pubblicherà ai primi di settembre. «Lì parlo molto a lungo del 1956, e anche dei miei errori. Spero che i miei peccati emergano dal libro con chiarezza. È un capitolo molto lungo: più che un capitolo è la storia d´una sconfitta, di errori, difetti e incompiutezze, raccontati con sincerità».
I ricordi risalgono all´ottobre del 1956, a quegli eventi che sigleranno "l´Errore con la E maiuscola" d´una generazione di comunisti. Ingrao è direttore dell´Unità quando, il 23 ottobre a Budapest, una manifestazione di plauso a Gomulka si trasforma in una insurrezione armata contro il potere comunista. Ne sono protagonisti operai e studenti che rivendicano "una più ampia democrazia nel quadro del regime socialista". Nella notte tra il 23 e il 24 "l´ordine" è ripristinato dall´irruzione delle truppe sovietiche. Tocca a Ingrao, sull´Unità del 25 ottobre, scrivere l´editoriale che censura pesantemente i rivoltosi. «Quando crepitano le armi dei controrivoluzionari, si sta da una parte o dall´altra delle barricate. Un terzo campo non c´è... Domani si potrà discutere e anche differenziarsi... Oggi si difende la rivoluzione socialista». Così si legge in quel fondo anonimo, che - come emerge dal verbale della Direzione cinque giorni dopo - esprime una posizione laboriosamente limata con la segreteria.
La crisi s´aggrava una settimana più tardi. Nella notte tra il 3 e il 4 novembre i carri armati sovietici intervengono una seconda volta in Ungheria, schiacciando la resistenza popolare. Migliaia i morti, decine di migliaia i feriti. Nel quarantunenne Ingrao esplodono quei dubbi prima soltanto timidamente affiorati. «Allora mi resi conto che si trattava di una tragedia, così telefonai a Togliatti e gli chiesi un appuntamento. Era un pomeriggio grigio, piovoso. Di fronte alla mia incertezza, Togliatti fu molto freddo. Mi disse che non bisognava esitare, e per tagliare la conversazione usò questa frase: "Oggi ho bevuto un bicchiere di vino in più". Non ebbi la forza di reagire».
Una ferita ancora aperta, il peccato originale che getta una luce su tutti «i ritardi, le incomprensioni, gli sbagli che abbiamo fatto non solo sullo specifico dramma ungherese, ma in generale sul leninismo e sullo stalinismo». Non è certo reticente la testimonianza di Ingrao, che già nel libro-intervista con Antonio Galdo, Il compagno disarmato (Sperling), aveva denunciato i pesanti errori del partito. La sua riflessione autocritica s´allarga alle due figure centrali del comunismo, a Stalin ma ancor prima a Lenin, senza alcuna tentazione assolutoria per quest´ultimo. «Ieri ci illudevamo che ci fosse una differenza sostanziale tra i due personaggi. Consideravamo Stalin il traditore degli ideali di Lenin. Non è così». Un´autocritica radicale, propria di un comunista nonagenario che non ha paura di riflettere sugli errori commessi. «Allora non capimmo, o non volemmo capire, che quella ideologia era nata sotto il segno del ripudio della democrazia e con l´uso sistematico di una violenza rivoluzionaria che ammazza, reprime, distrugge. Non ci rendemmo conto, e potevamo farlo, che, senza sgombrare il campo da questo vizio d´origine del movimento comunista, saremmo andati incontro a una drammatica sconfitta, come poi puntualmente è accaduto».
Per Ingrao la vicenda di Budapest è "un appuntamento mancato con la storia". «Un appuntamento decisivo, perché poteva cambiare il destino della sinistra non solo in Italia». Guai, però, a parlare di pentimento. «Il pentimento non è una parola che appartiene al mio linguaggio. Ha un sapore di sacrestia. Ma se pentirsi significa riconoscere i propri errori, allora io non ho paura di questa parola».

Repubblica 30.8.06
IL PERSONAGGIO
La rottura con il Pci di Togliatti al congresso del ´56: "Il gioco dell'avversario lo fa chi tace"
Giolitti, l'antico apostata "Quel dramma ora è più lontano"
di NELLO AJELLO


Il ricordo dell'intervento di Di Vittorio: "Mi invitò a rivedere criticamente il mio atteggiamento, ma si vedeva che era turbato dal suo stesso dissenso ormai rientrato"
La grande soddisfazione per l´omaggio del presidente della Repubblica, in maggio, subito dopo l´elezione al Quirinale: "È stato gentile, aperto, cordiale"

Antonio Giolitti aveva ragione nel 1956, quando criticò - a differenza del Pci di Palmiro Togliatti, che ad essa plaudì - l´invasione dell´Ungheria da parte dell´Unione sovietica. In una lettera inviata a Giuseppe Tamburrano, presidente della Fondazione Nenni, e brevemente riportata dall´Unità di ieri, il capo dello Stato non si limita ad evocare l´evento, ma esprime una «riflessione autocritica», ricordando che le posizioni assunte in quel frangente dal vertice del Pci erano da lui condivise.
Insomma, così afferma il presidente Napolitano, Giolitti criticando le posizioni del partito comunista nel quale militava, era nel giusto, mentre io, allora - mezzo secolo fa - sbagliai insieme al mio partito. E´ un riconoscimento «doloroso» che si estende anche a Pietro Nenni e a gran parte del Psi (ecco spiegata la lettera a Tamburrano), che nell´autunno del 1956 espressero critiche analoghe a quelle che manifestò Giolitti nei riguardi del Pci e del suo segretario Palmiro Togliatti.
Giolitti, che ha superato i 91 anni, è nella sua casa di vacanze, a Cavour. Non ha letto L´Unità. Ma certo non gli sfugge l´importanza della notizia che gli riferisco. E accetta di rievocare al telefono quella vicenda che lo vide protagonista. E´ l´8 dicembre 1956, il Pci celebra a Roma il suo VIII congresso.
Dall´invasione dell´Ungheria è passato un mese e mezzo, una stagione assai difficile per il partito di Togliatti, tra il fermento che circola nelle sedi culturali, il dissenso espresso da figure eminenti come Eugenio Reale e Fabrizio Onofri - neppure invitati al congresso, ricorda Giolitti - e il diniego opposto da scrittori del rango di Italo Calvino (per fare un solo esempio).
Prima che Giolitti prendesse la parola, vibranti riserve sulle posizioni del partito erano state espresse da Furio Diaz, celebre storico ed ex sindaco di Livorno.
Ma il compito di dare una prospettiva unitaria a queste critiche sarà assunto proprio dall´allora quarantunenne Antonio Giolitti. «Per noi», avrebbe poi raccontato Gianni Rocca, presente al congresso in quanto delegato, «era come se lui solo si fosse preso l´incarico di lasciare ai leader e agli astanti una testimonianza collettiva di dissenso». E lo stesso protagonista rammenta che, essendo allora la sua figura poco nota, il Corriere della sera aveva sentito il bisogno di presentarlo ai lettori, più o meno con queste parole: «L´onorevole Giolitti è un giovane quarantenne, alto, bruno, elegante. Si dice che il suo nome interessava ai comunisti, che vogliono dirsi eredi del Risorgimento e del liberalismo. Si dice anche che fosse uno dei giovani più cari a Togliatti». «Fosse», sottolinea Giolitti.
«Ormai non lo ero più. Non lo sarei più stato».
A sentirlo rievocare da lui, quel lontano dicembre assume di nuovo il calore di un trauma. Senza enfasi - ma a detta di tanti testimoni d´epoca, neppure in quel frangente clamoroso l´enfasi si affacciò nell´oratoria giolittiana: ognuno è come è, magari per sempre - Giolitti cita il se stesso di allora. Per esempio, quando esordì rilevando una contraddizione nelle tesi del segretario comunista e dei suoi seguaci più ferventi: «Non si può sostenere che gli errori e i delitti denunziati al XX congresso del Pcus non hanno intaccato la permanente sostanza democratica del potere socialista, e allo stesso tempo definire legittimo, democratico e socialista un governo come quello contro il quale è insorto il popolo di Budapest il 23 ottobre». O allorché egli escluse che, esprimendo ciascuno le proprie idee, si favorisse il nemico di classe. «Molte volte, al contrario», obiettò, «il gioco dell´avversario lo fa chi tace». O infine quando nel suo intervento affiorò una documentata denuncia: «Abbiamo visto combattere e sradicare senza pietà le opinioni di quei compagni - e io sono fra costoro - che hanno manifestato dubbi e dissensi in merito alla definizione di controrivoluzionaria data alla rivolta popolare d´Ungheria».
Un´altra scena che resta incisa nella memoria è impersonata da Giuseppe Di Vittorio, che invita Giolitti a «rivedere criticamente il proprio atteggiamento». Ma quello che parlava all´VIII congresso, ora egli aggiunge, «era un Di Vittorio turbato dal suo stesso dissenso poi quasi rientrato. Un uomo e un combattente ormai troppo stanco per aver coraggio». Si può essere allergici al protagonismo quanto si vuole - faccio notare a Giolitti - ma dire a Togliatti che per il Pci «si tratta, non di continuare e migliorare, ma di cambiare e correggere; e di cambiare gli uomini che non si possono correggere», è un qualcosa che nel Pci non s´era mai sentito. Giolitti, dall´altro capo del telefono, acconsente.
L´antico apostata gradisce come merita la mossa di Napolitano.
Parla con piacere della visita che il presidente gli fece nel maggio scorso, fresco di elezione al Quirinale: «Gentile, aperto, cordiale». Rievoca i tempi, non poi tanto remoti, nei quali - dopo essere stato per decenni un battistrada sulla «via del riformismo», essere assurto a sinonimo della Programmazione e aver vissuto da protagonista la travagliata vicenda del centrosinistra - egli scorse nella gestione craxiana del Psi un´intolleranza quasi altrettanto grave di quella sperimentata a suo tempo nel partito di Togliatti. Per un lungo periodo ancora, ricorda, cercherà «di mettere bene i piedi con qualche sdrucciolone, sulle vie della politica». Il suo è stato, in fondo, - anche quando nel giugno del 1987 venne eletto senatore nelle liste del Pci - un tentativo (sono parole sue) di «passare dall´illusione dell´utopia alle speranze del riformismo», senza smarrire «il rapporto sempre problematico fra efficacia della passione politica e coerenza con i valori etici. Poi, man mano che l´età avanzava, s´era sentito sempre più «un senzatetto di sinistra».
Mentre gli parlo, Giolitti mi dà il senso di aver riconquistato un´identità, semmai l´avesse persa davvero. Le sue utopie di «timoroso riformista» (così ama definirsi) diventano una lezione che va onorata in alto loco. C´è un uomo, classe 1915, che ha lungamente operato in politica. Con coraggio. Ecco, per lui il presente ha ancora in serbo un dono.

Repubblica 30.8.06
Luciana: "Per mio padre e tutti noi furono giorni pieni di angoscia"

Luciana Nenni, la figlia di Pietro, ha 84 anni, la voce fragile, la memoria intatta. A "Repubblica" concede un breve cammeo. Riaffiorano, improvvisi, evocati dalla cronaca politica e dalle parole del presidente Napolitano, gli eventi che hanno segnato la vita e la memoria della sua famiglia: «Per noi fu un vero dramma», dice. Ecco la sua testimonianza: «Mi ricordo benissimo quei giorni convulsi e incredibilmente pieni di angoscia. Le notizie si susseguivano. I carri armati a Budapest? Per noi era inconcepibile. Posso sintetizzare tutto in una telefonata concitata che fece al papà mia sorella Vany. Parlò in francese, disse: «E´ il mondo nel quale abbiamo creduto che sprofonda... ». Mio padre ha fermato nel diario le sue riflessioni: «Come ha ragione Vany! E´ la sola delle mie figliole che si era iscritta a Parigi al partito comunista francese. Ora si sente tradita. Lo siamo tutti traditi. E´ tradito l´internazionalismo proletario». Una cosa è certa, in famiglia noi Nenni l´abbiamo sempre pensata: il dramma dell´Ungheria ha avuto il merito di mostrare alla sinistra italiana il vero volto dell´Unione Sovietica e di aprire la strada al socialismo moderno e dal volto umano.

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