8.8.06
Avvenire 8.8.06
SCHIZOFRENIA, L’AUTO-INDAGINE DI JOHN NASH
Il premio Nobel riflette sul suo disagio psichico e propone una nuova prospettiva: «Forse nella follia si cerca, certo inconsciamente, una fuga da tensioni esistenziali insostenibili»
E se la malattia mentale fosse una scelta?
di John Forbes Nash
Un amico psicologo mi ha confermato che l’attitudine verso i malati di ulcera è cambiato da quando è stato scoperto (da due australiani) il batterio che causa l’ulcera stessa. Le vittime di questa patologia ora tendono ad essere viste come persone sofferenti di una condizione che può essere trattata adeguatamente con gli antibiotici, non come persone con problemi di comportamento, stili di vita o stati psicologici «sbagliati». È però vero, per quanto riguarda la salute mentale, che sembra più desiderabile, per coloro alle prese con questo tipo di problema, che il loro male derivi da un qualche errore di pensiero piuttosto che da un «cervello guasto», essenzialmente al di là di ogni possibilità di aggiustamento. Se consideriamo il cervello umano come il chip Intel o Amd di un computer, possiamo acquisire un’altra prospettiva riguardo alla malattia mentale, che corrisponde ai difetti di funzionamento del processore del computer. Un calcolatore che non lavora nel modo desiderato è infatti analogo a una mente che non risponde nel modo che vorrebbero la famiglia, la società o perfino il Cielo. Quando un computer funziona in modo difettoso sappiamo che la causa può essere nell’hardware o nel software. Potrebbero esserci errori nell’installazione di quest’ultimo, oppure virus e worms che ne impediscono le attività. Continuando l’analogia, è possibile che nel caso di una problema mentale si debba far ricorso ad uno psicoterapueta se il problema riguarda il software, ma ad un dottore di tipo allopatico più che omeopatico se il problema riguarda l’hardware. Allora, cosa è meglio per coloro che sono classificati come malati di mente, essere trattati come computer con difetti di hardware o di software? Ma soprattutto: una persona affetta da schizofrenia può fare qualcosa, in modo volontario, per la propria salute, oppure no? Etimologicamente la parola insanity [pazzia], usata volentieri da giudici e avvocati nei tribunali, deriva dal concetto di salute. «Mens sana in corpore sano» recita il proverbio latino che si riferisce alla radice di insanity. Ma ciò che è sano dal punto di vista dei tribunali non corrisponde alla prospettiva di coloro che lavorano nel campo delle malattie mentali. Una persona può soffrire seriamente di depressione e tuttavia essere giudicata legalmente «sana» fin tanto che non compaiono rischi di un comportamento suicida. Così, non appena si manifestano sintomi di psicosi maniacodepressiva viene classificata come pazza. Di fatto la pazzia è ancora un concetto legale più che medico, cosa che non giudico negativa. Le persone che in un qualsiasi momento della loro vita vengono giudicate mentalmente malate devono essere automaticamente classificate come schizofreniche in modo permanente, casi di disordine bipolare irreversibile? Un tale approccio da parte degli operatori del settore può semplificare i processi di cura delle persone che tendono a scivolare nella malattia mentale. D’altra parte, se coloro che vivono episodi di crisi venissero trattati ogni volta come casi nuovi, nel momento in cui si allontanano da una condizione di normalità possono essere incoraggiati a recuperare il loro stato iniziale. Non è detto insomma che il tipo di «de-stigmatizzazione» che invita il pubblico ad accettare l’esistenza di disabili permanenti – come il modello degli atleti delle Paraolimpiadi – sia sempre positivo per le persone affette da una malattia psichica, perché potrebbe depotenziare lo sforzo per riportare costoro alla normalità e, viceversa, rafforzare un’idea di terapia come semplice «mantenimento», un’accettazione dei malati come bisognosi di cure continue. Personalmente, penso si possa sostenere che coloro che si allontanano dal modo di pensare delle persone «sane» lo fanno spesso, forse a livello inconscio, volontariamente. La struttura di pensiero di uno schizofrenico può offrire una via di fuga: se le circostanze diventano tali da determinare per lui un peso insostenibile a livello esistenziale, in certi casi costui può trovare una fuga lasciando che pensieri irrazionali tipici della schizofrenia governino la sua mente. È un po’ come il processo inverso rispetto al risvegliarsi da un sogno, quando un pensiero vivace ma irrazionale viene rimpiazzato da uno razionale ma meno immaginifico. Se lo stato di anormalità mentale di un individuo, tale da poter essere descritto come un caso di malattia, viene visto come la risultante di una scelta, allora c’è una possibilità in più di ridurre o rimuovere l’anormalità stessa.
il manifesto 8.8.06
La paura dell'altro
di ROSSANA ROSSANDA
Condivido la collera di Angelo d'Orsi verso chi accusa di antisemitismo ogni critica alle scelte del governo israeliano. Non succede nei confronti di nessun altro paese. Non era neanche mai successo prima degli anni '70. Né l'accusa ci viene da parte di chi ha sofferto di persona delle leggi razziali e delle deportazioni, se è scampato ai campi di sterminio. Penso che ci sia voluta la guerra dei sei giorni e un vero e proprio cambio generazionale, più ancora che qualche scivolata dell'estrema sinistra degli anni '70, nello scordare la tragica percezione di sé da parte degli ebrei; sono episodi che si contano sulle dita d'una mano. Mentre non è accettabile il sospetto che alcuni nuovi esponenti della comunità ebraica gettano di continuo su ogni parola detta dalla sinistra che non approva né l'occupazione dei territori, né l'unilateralismo dei ritiri e dei muri, né la guerra al Libano, mentre aprono con entusiasmo le porte agli eredi della destra, fascisti inclusi.
D'Orsi ha ragione anche nell'infastidirsi del silenzio con il quale lasciamo passare queste accuse, come se avessimo da vergognarci di qualcosa, noi, i soli che si sono battuti assieme agli ebrei. Se il movimento operaio e comunista è stato alle origini antisionista lo è stato per motivi opposti alla discriminazione, perché riteneva ogni questione nazionale secondaria rispetto al battere il capitale. Ma così pensavano anche Rosa Luxemburg e ai suoi amici tedeschi, i molti ebrei del Bund polacco, quelli che facevano parte del gruppo dirigente leninista e perfino staliniano fino al dopoguerra. Antisionismo e antisemitismo non sono stati affatto la stessa cosa. Quanto all'Italia, se le leggi razziali passarono senza vere proteste degli antifascisti, era perché non si potevano esprimere. L'antifascismo poi unificò tutti; la mia generazione è venuta su, se mai, con la ripugnanza a distinguere fra religioni ed etnie, la rivalutazione delle differenze le è estranea, il che le viene, se mai, rimproverato. Ha colpito quelli come me il bisogno di tornare alle proprie radici dopo la sconfitta del 1968, che era stato forse approssimativamente universalista. Accresciuto in molti giovani dalla percezione di essere sopravvissuti al destino dei loro genitori o nonni . Per chi andava in cerca delle radici c'era nell'ebraismo un grande «in più», la scoperta d'una tradizione sapienziale che dette a molti una nuova dimensione del vivere.
Risalgo negli anni perché se l'accusa di antisemitismo è tutto sommato stupida, mi sembra oggi tessuta in una vicenda assai più grande e sofferente che non siano gli strepiti d'un Giuliano Ferrara. C'è nella coscienza di Israele il senso d'un eterno essere in pericolo cui non sa rispondere che con la forza delle armi, la guerra preventiva e la protezione degli Stati Uniti, compiendo un errore fatale verso i paesi che la circondano. Angelo d'Orsi parla della lettera d'una giovane libanese, io ho sotto gli occhi quasi con le stesse parole nell'email d'una giovane e a me assai cara israeliana, e tutte e due hanno paura l'una del paese dell'altra. Sono giovani, nate là, e poco sanno di come si sia arrivati a questa ultima tragedia. La libanese ha sperimentato la crudele invasione israeliana, e poi l'occupazione siriana ed è terrorizzata dall'offensiva di Israele condotta fuori di ogni regola di guerra, con un'enormità di distruzioni e vittime civili, che viene detta contro gli Hezbollah e colpisce lei fra i libanesi, e non viene fermata da nessuno.
La israeliana ha alle spalle secoli di negazioni e sofferenze, arrivate fino alla Shoah, ha imparato a scuola che gli arabi che circondano il suo paese non ne hanno mai accettato l'esistenza, dall'Iran con Israele confina ed è infinitamente più grande, Ahmadjnejad contiua a ripeterglielo, alcuni suoi amici sono morti per l'attacco dei kamikaze palestinesi e lei ha contato nell'ultimo mese i missili di Hezbollah. Nessuna delle due donne riesce a figurarsi l'altra. Sono terrorizzate. Lo stesso pensano in Israele gli amici di Peace Now e uomini che ammiriamo come Yehoshua, Grossmann e perfino Amos Oz: pensano che «stavolta la guerra è giusta» - anche se gli pare che come «ammonimento al popolo libanese basti». Intanto quella del 1967 era finita in sei giorni, mentre adesso gli Hezbollah tengono testa da oltre tre settimane a uno degli eserciti più preparati del mondo. Va a spiegare la spirale degli avvenimenti e il meccanismo delle rappresaglie all'una e all'altra. Va a far capire alla mia giovane amica israeliana che Israele occupa la Palestina da quasi quaranta anni e ha fatto dei giovani di quel popolo, il più colto e laico del Medioriente, che non sono mai stati un giorno liberi, seguaci di un fondamentalismo che ne esprime la collera. Va a farle capire che anche l'arabismo è ormai vittima di un fondamentalismo che apparteneva solo a minuscoli gruppi, prima che la politica del suo paese in Palestina, e poi quella americana in Afganistan e poi l'invasione dell'Afganistan e poi dell'Iraq lo moltiplicasse, così come l'attuale guerra moltiplicherà gli Hezbollah. Va a farle capire che questi prima del 1982 non esistevano. Né i kamikaze durante la prima Intifada. Va a persuaderla che l'accettazione da parte israeliana di uno stato palestinese avrebbe da decenni staccato la spina che avvelena il Medio Oriente, e fatto dimenticare che Israele vi è stato installato a forza dalle potenze occidentali per garantire in qualche modo gli ebrei da una nuova Shoah di cui noi, l'Europa, eravamo soli colpevoli. Installato in un mondo che della Shoah nulla era tenuto a sapere e tanto meno di una terra promessa qualche migliaio di anni fa a sconosciuti da un Dio sconosciuto. E dalla quale venivano cacciati coloro che per duemila anni vi avevano lavorato. Va a farle capire oggi che la giovane Israele doveva vincere la diffidenza dei vicini, o almeno dopo la guerra dei sei giorni stare a quelle risoluzioni dell'Onu che adesso invoca contro i libanesi.
Qualche settimana fa Luciana Castellina scriveva su queste colonne: Io ho paura per Israele. Io non ho paura per la sua esistenza, noi tutti la difenderemmo a ogni costo. Ho paura delle sofferenze che Israele impone e si impone in una spirale di errori. Mi fa impressione il colono che dice rassegnato: «Ebbene, se Israele deve vivere grazie alla spada, viva con la spada», ma mi riempie di collera Claude Lanzmann, quello del film sulla Shoah, che protesta su Le Monde perché Israele è stata accusata di esagerare in Libano. Come, Israele non esagera, non può esagerare, il sangue fatto versare agli ebrei non sarà mai abbastanza compensato da altro sangue - gli ebrei sono stati colpiti in modo che il loro paese ha tutti i diritti e nessun dovere verso gli altri. Sono parole dementi come quelle del presidente iraniano, il reciproco l'una dell'altra. Ma il premier Olmert le sta praticando. E come Sharon non si accorge non solo dell'odio che si tira addosso, ma dell'errore strategico che fa. Rabin è stato ammazzato e dimenticato.
Di questa sciagurata spirale l'agitazione di parte della comunità ebraica italiana è un frammento derisorio. Ma è vero - ha ragione d'Orsi - che dovremmo smettere di stare in silenzio perché la matassa è complicata e ancora recente la perdita di innocenza del nostro paese. La posta in gioco è troppo alta, il pericolo troppo bruciante, il ricatto troppo stupido. Bisogna dirlo alto e forte che il governo di Israele sbaglia. Che si deve fermare. Che l'amministrazione americana è il suo più pericoloso alleato e consigliere. Che la comunità internazionale è stata finora troppo corriva. E che se c'è una discontinuità che urge per il centrosinistra al governo è questa. Se ne faccia carico.
Agi 8.8.06
LEGGE 180: BINETTI E VALPIANA, DIRITTO A CURA E PIU' STRUTTURE (AGI)
Roma, 8 ago. - Il diritto alla cura, ad esser curato per star bene, va garantito a tutti: aver chiuso i manicomi non vuol dire negare l'esistenza della malattia mentale che c'e', esiste e va affrontata costruendo strutture adeguate dotate di personale qualificato. La richiesta partita dal poeta Edoardo Sanguineti e diretta al Ministro della Salute Livia Turco, ha trovato, nelle senatrici Paola Binetti e Tiziana Valpiana che fanno parte nella Commissione Sanita' del Senato, attenzione e considerazione. Il nostro paese non dispone di un 'Irccs' (istituto ricovero e cura a carattere scientifico) dedicato unicamente alla ricerca e studio, al trattamento e cura della malattia mentale; dispone di un rapporto di posti letto per 10 mila abitanti di 1,72 contro una media europea di 2,25; a fronte di 301 strutture pubbliche con 4108 posti letto (0,78 per 10 mila abitanti) e 8058 operatori, dispone pero' di 54 case di cura private con 4862 posti letto (0,94 per 10 mila abitanti) e 2384 operatori. "Aver chiuso i manicomi - spiega la Binetti - non significa negare la realta' della malattia mentale: bisogna rimettere mano alla 180 senza scadere nelle dispute ideologiche perche' nei 26 anni trascorsi dall'entrata in vigore della legge sono cambiate tante cose, dai criteri di diagnosi alle terapie". E la Valpiana precisa: "la sofferenza mentale c'e', esiste e va affrontata con interventi mirati alla salute della persona, alla vicinanza alla realta' della persona". Dunque, metter mano alla 180 e' 'cosa di sinistra'? "Se e' stato a suo tempo giusto chiudere i manicomi - sostiene il poeta Sanguineti - oggi e' altrettanto giusto fare strutture sanitarie adeguate di trattamento e cura perche' il cittadino ha il diritto alla cura, a star bene come prevede la Costituzione per non esser di peso a se, ai suoi familiari e alla societa'. E' insomma al di la' delle pure ed inutili dispute ideologiche arrivato il momento di rivedere la legge 180. "Chi soffre di disagi psichici se non di vere e proprie malattie mentali ha bisogno del luogo deputato al trattamento e alla cura - conclude Sanguineti - lo si chiami come si vuole ma quel luogo va fatto e reso disponibile all'uso per chi soffre". (AGI) Pat
Agi 8.8.06
LEGGE 180: BINETTI E VALPIANA, DIRITTO A CURA E PIU' STRUTTURE (AGI)
Roma, 8 ago. - Chiusi i manicomi (o meglio, gli ospedali psichiatrici) a partire dal 1978, sono stati introdotti i Dsm, i 'dipartimenti di salute mentale', quindi una rete territoriale di servizi: dai centri salute mentale (Csm) ai servizi psichiatrici di diagnosi e cura (Spdc); dai day-hospital (Dh) alle strutture residenziali (Rs) ai centri diurni (Cd), con un massimo di 16 posti letto. Poi, conclusasi nel 1999 la chiusura degli ospedali psichiatrici, il 'ricovero' avviene nei 262 Spdc (che hanno 3431 posti letto; 13,1 posti letto per Spdc), nelle 23 Cpu (Cliniche Psichiatriche Universitarie con 399 posti letto, pari a 17,3 perstruttura) nei 16 Csm-24 (10 in Friuli e 6 in Campania con 98 posti letto) e nelle 54 Case di Cura Convenzionate Private (Cdc con 4862 posti letto). Per quanto riguarda i ricoveri, sono stati (anno 2001) 103.260 in 292 strutture pubbliche per un totale di 1.227.676 giorni di ricovero: nelle 54 Cdc i ricoveri sono stati 35.880 con 1.252.049 giorni. Il rapporto ricoveri/numero persone ricoverate varia da 1,34 nelle Cpu a 1,45 negli Spdc sino a 1,66 nei Csm-24h, mentre nelle Cdc questo rapporto si attesta a 1,55. "Il fatto che il Ministro Turco abbia inserito la malattia mentale ai primi posti delle priorita' da affrontare dimostra la sua serieta' - dice lo psichiatra Michele Tansella che dirige a Verona uno dei tre centri Oms per la psichiatria - L'Italia ha bisogno di strutture altamente qualificate: non abbiamo un solo Irccs che si occupi di malattie mentali". E Tansella lancia una proposta: "bisogna procedere nella programmazione e ricostruzione dei servizi ma sulla base dell'evidenza scientifica: ossia vanno realizzati solo quei modelli che hanno dato prova di efficacia e funzionalita' sperimentate". Dunque, il modello organizzativo, costruito sulla scia della 180 e spesso portato ad esempio, sta rivelandosi pieno di crepe e criticita'. "La 180 e' il vero tabu' da sfatare: nessuno ne vuole parlare, nessuno ha il coraggio d'intervenire - dice la Binetti - su una questione spinosa e delicata: dico che il tempo e' oramai maturo per rivedere la 180, alla luce dei progressi scientifici fatti in questi anni sulla conoscenza, diagnosi e terapia delle malattie mentali". L'argomento, insomma, e' all'ordine del giorno della Commissione stessa. "Si possono destinare i proventi della vendita delle strutture manicomiali alla costruzione di servizi e strutture, alla formazione di personale che realizzino - spiega la Valpiana - quella vicinanza alla realta' delle persone che e' indispensabile per garantire il diritto alla cura". Un'opera di restyling della 180, allora. "L'importante e' che si cominci a porre la questione all'ordine del giorno", conclude la Binetti e la Valpiana e' certa che "si troveranno le soluzioni migliori e piu' efficaci perche' si assicuri il diritto alla cura". (AGI) Pat 081647 AGO 06
SCHIZOFRENIA, L’AUTO-INDAGINE DI JOHN NASH
Il premio Nobel riflette sul suo disagio psichico e propone una nuova prospettiva: «Forse nella follia si cerca, certo inconsciamente, una fuga da tensioni esistenziali insostenibili»
E se la malattia mentale fosse una scelta?
di John Forbes Nash
Un amico psicologo mi ha confermato che l’attitudine verso i malati di ulcera è cambiato da quando è stato scoperto (da due australiani) il batterio che causa l’ulcera stessa. Le vittime di questa patologia ora tendono ad essere viste come persone sofferenti di una condizione che può essere trattata adeguatamente con gli antibiotici, non come persone con problemi di comportamento, stili di vita o stati psicologici «sbagliati». È però vero, per quanto riguarda la salute mentale, che sembra più desiderabile, per coloro alle prese con questo tipo di problema, che il loro male derivi da un qualche errore di pensiero piuttosto che da un «cervello guasto», essenzialmente al di là di ogni possibilità di aggiustamento. Se consideriamo il cervello umano come il chip Intel o Amd di un computer, possiamo acquisire un’altra prospettiva riguardo alla malattia mentale, che corrisponde ai difetti di funzionamento del processore del computer. Un calcolatore che non lavora nel modo desiderato è infatti analogo a una mente che non risponde nel modo che vorrebbero la famiglia, la società o perfino il Cielo. Quando un computer funziona in modo difettoso sappiamo che la causa può essere nell’hardware o nel software. Potrebbero esserci errori nell’installazione di quest’ultimo, oppure virus e worms che ne impediscono le attività. Continuando l’analogia, è possibile che nel caso di una problema mentale si debba far ricorso ad uno psicoterapueta se il problema riguarda il software, ma ad un dottore di tipo allopatico più che omeopatico se il problema riguarda l’hardware. Allora, cosa è meglio per coloro che sono classificati come malati di mente, essere trattati come computer con difetti di hardware o di software? Ma soprattutto: una persona affetta da schizofrenia può fare qualcosa, in modo volontario, per la propria salute, oppure no? Etimologicamente la parola insanity [pazzia], usata volentieri da giudici e avvocati nei tribunali, deriva dal concetto di salute. «Mens sana in corpore sano» recita il proverbio latino che si riferisce alla radice di insanity. Ma ciò che è sano dal punto di vista dei tribunali non corrisponde alla prospettiva di coloro che lavorano nel campo delle malattie mentali. Una persona può soffrire seriamente di depressione e tuttavia essere giudicata legalmente «sana» fin tanto che non compaiono rischi di un comportamento suicida. Così, non appena si manifestano sintomi di psicosi maniacodepressiva viene classificata come pazza. Di fatto la pazzia è ancora un concetto legale più che medico, cosa che non giudico negativa. Le persone che in un qualsiasi momento della loro vita vengono giudicate mentalmente malate devono essere automaticamente classificate come schizofreniche in modo permanente, casi di disordine bipolare irreversibile? Un tale approccio da parte degli operatori del settore può semplificare i processi di cura delle persone che tendono a scivolare nella malattia mentale. D’altra parte, se coloro che vivono episodi di crisi venissero trattati ogni volta come casi nuovi, nel momento in cui si allontanano da una condizione di normalità possono essere incoraggiati a recuperare il loro stato iniziale. Non è detto insomma che il tipo di «de-stigmatizzazione» che invita il pubblico ad accettare l’esistenza di disabili permanenti – come il modello degli atleti delle Paraolimpiadi – sia sempre positivo per le persone affette da una malattia psichica, perché potrebbe depotenziare lo sforzo per riportare costoro alla normalità e, viceversa, rafforzare un’idea di terapia come semplice «mantenimento», un’accettazione dei malati come bisognosi di cure continue. Personalmente, penso si possa sostenere che coloro che si allontanano dal modo di pensare delle persone «sane» lo fanno spesso, forse a livello inconscio, volontariamente. La struttura di pensiero di uno schizofrenico può offrire una via di fuga: se le circostanze diventano tali da determinare per lui un peso insostenibile a livello esistenziale, in certi casi costui può trovare una fuga lasciando che pensieri irrazionali tipici della schizofrenia governino la sua mente. È un po’ come il processo inverso rispetto al risvegliarsi da un sogno, quando un pensiero vivace ma irrazionale viene rimpiazzato da uno razionale ma meno immaginifico. Se lo stato di anormalità mentale di un individuo, tale da poter essere descritto come un caso di malattia, viene visto come la risultante di una scelta, allora c’è una possibilità in più di ridurre o rimuovere l’anormalità stessa.
il manifesto 8.8.06
La paura dell'altro
di ROSSANA ROSSANDA
Condivido la collera di Angelo d'Orsi verso chi accusa di antisemitismo ogni critica alle scelte del governo israeliano. Non succede nei confronti di nessun altro paese. Non era neanche mai successo prima degli anni '70. Né l'accusa ci viene da parte di chi ha sofferto di persona delle leggi razziali e delle deportazioni, se è scampato ai campi di sterminio. Penso che ci sia voluta la guerra dei sei giorni e un vero e proprio cambio generazionale, più ancora che qualche scivolata dell'estrema sinistra degli anni '70, nello scordare la tragica percezione di sé da parte degli ebrei; sono episodi che si contano sulle dita d'una mano. Mentre non è accettabile il sospetto che alcuni nuovi esponenti della comunità ebraica gettano di continuo su ogni parola detta dalla sinistra che non approva né l'occupazione dei territori, né l'unilateralismo dei ritiri e dei muri, né la guerra al Libano, mentre aprono con entusiasmo le porte agli eredi della destra, fascisti inclusi.
D'Orsi ha ragione anche nell'infastidirsi del silenzio con il quale lasciamo passare queste accuse, come se avessimo da vergognarci di qualcosa, noi, i soli che si sono battuti assieme agli ebrei. Se il movimento operaio e comunista è stato alle origini antisionista lo è stato per motivi opposti alla discriminazione, perché riteneva ogni questione nazionale secondaria rispetto al battere il capitale. Ma così pensavano anche Rosa Luxemburg e ai suoi amici tedeschi, i molti ebrei del Bund polacco, quelli che facevano parte del gruppo dirigente leninista e perfino staliniano fino al dopoguerra. Antisionismo e antisemitismo non sono stati affatto la stessa cosa. Quanto all'Italia, se le leggi razziali passarono senza vere proteste degli antifascisti, era perché non si potevano esprimere. L'antifascismo poi unificò tutti; la mia generazione è venuta su, se mai, con la ripugnanza a distinguere fra religioni ed etnie, la rivalutazione delle differenze le è estranea, il che le viene, se mai, rimproverato. Ha colpito quelli come me il bisogno di tornare alle proprie radici dopo la sconfitta del 1968, che era stato forse approssimativamente universalista. Accresciuto in molti giovani dalla percezione di essere sopravvissuti al destino dei loro genitori o nonni . Per chi andava in cerca delle radici c'era nell'ebraismo un grande «in più», la scoperta d'una tradizione sapienziale che dette a molti una nuova dimensione del vivere.
Risalgo negli anni perché se l'accusa di antisemitismo è tutto sommato stupida, mi sembra oggi tessuta in una vicenda assai più grande e sofferente che non siano gli strepiti d'un Giuliano Ferrara. C'è nella coscienza di Israele il senso d'un eterno essere in pericolo cui non sa rispondere che con la forza delle armi, la guerra preventiva e la protezione degli Stati Uniti, compiendo un errore fatale verso i paesi che la circondano. Angelo d'Orsi parla della lettera d'una giovane libanese, io ho sotto gli occhi quasi con le stesse parole nell'email d'una giovane e a me assai cara israeliana, e tutte e due hanno paura l'una del paese dell'altra. Sono giovani, nate là, e poco sanno di come si sia arrivati a questa ultima tragedia. La libanese ha sperimentato la crudele invasione israeliana, e poi l'occupazione siriana ed è terrorizzata dall'offensiva di Israele condotta fuori di ogni regola di guerra, con un'enormità di distruzioni e vittime civili, che viene detta contro gli Hezbollah e colpisce lei fra i libanesi, e non viene fermata da nessuno.
La israeliana ha alle spalle secoli di negazioni e sofferenze, arrivate fino alla Shoah, ha imparato a scuola che gli arabi che circondano il suo paese non ne hanno mai accettato l'esistenza, dall'Iran con Israele confina ed è infinitamente più grande, Ahmadjnejad contiua a ripeterglielo, alcuni suoi amici sono morti per l'attacco dei kamikaze palestinesi e lei ha contato nell'ultimo mese i missili di Hezbollah. Nessuna delle due donne riesce a figurarsi l'altra. Sono terrorizzate. Lo stesso pensano in Israele gli amici di Peace Now e uomini che ammiriamo come Yehoshua, Grossmann e perfino Amos Oz: pensano che «stavolta la guerra è giusta» - anche se gli pare che come «ammonimento al popolo libanese basti». Intanto quella del 1967 era finita in sei giorni, mentre adesso gli Hezbollah tengono testa da oltre tre settimane a uno degli eserciti più preparati del mondo. Va a spiegare la spirale degli avvenimenti e il meccanismo delle rappresaglie all'una e all'altra. Va a far capire alla mia giovane amica israeliana che Israele occupa la Palestina da quasi quaranta anni e ha fatto dei giovani di quel popolo, il più colto e laico del Medioriente, che non sono mai stati un giorno liberi, seguaci di un fondamentalismo che ne esprime la collera. Va a farle capire che anche l'arabismo è ormai vittima di un fondamentalismo che apparteneva solo a minuscoli gruppi, prima che la politica del suo paese in Palestina, e poi quella americana in Afganistan e poi l'invasione dell'Afganistan e poi dell'Iraq lo moltiplicasse, così come l'attuale guerra moltiplicherà gli Hezbollah. Va a farle capire che questi prima del 1982 non esistevano. Né i kamikaze durante la prima Intifada. Va a persuaderla che l'accettazione da parte israeliana di uno stato palestinese avrebbe da decenni staccato la spina che avvelena il Medio Oriente, e fatto dimenticare che Israele vi è stato installato a forza dalle potenze occidentali per garantire in qualche modo gli ebrei da una nuova Shoah di cui noi, l'Europa, eravamo soli colpevoli. Installato in un mondo che della Shoah nulla era tenuto a sapere e tanto meno di una terra promessa qualche migliaio di anni fa a sconosciuti da un Dio sconosciuto. E dalla quale venivano cacciati coloro che per duemila anni vi avevano lavorato. Va a farle capire oggi che la giovane Israele doveva vincere la diffidenza dei vicini, o almeno dopo la guerra dei sei giorni stare a quelle risoluzioni dell'Onu che adesso invoca contro i libanesi.
Qualche settimana fa Luciana Castellina scriveva su queste colonne: Io ho paura per Israele. Io non ho paura per la sua esistenza, noi tutti la difenderemmo a ogni costo. Ho paura delle sofferenze che Israele impone e si impone in una spirale di errori. Mi fa impressione il colono che dice rassegnato: «Ebbene, se Israele deve vivere grazie alla spada, viva con la spada», ma mi riempie di collera Claude Lanzmann, quello del film sulla Shoah, che protesta su Le Monde perché Israele è stata accusata di esagerare in Libano. Come, Israele non esagera, non può esagerare, il sangue fatto versare agli ebrei non sarà mai abbastanza compensato da altro sangue - gli ebrei sono stati colpiti in modo che il loro paese ha tutti i diritti e nessun dovere verso gli altri. Sono parole dementi come quelle del presidente iraniano, il reciproco l'una dell'altra. Ma il premier Olmert le sta praticando. E come Sharon non si accorge non solo dell'odio che si tira addosso, ma dell'errore strategico che fa. Rabin è stato ammazzato e dimenticato.
Di questa sciagurata spirale l'agitazione di parte della comunità ebraica italiana è un frammento derisorio. Ma è vero - ha ragione d'Orsi - che dovremmo smettere di stare in silenzio perché la matassa è complicata e ancora recente la perdita di innocenza del nostro paese. La posta in gioco è troppo alta, il pericolo troppo bruciante, il ricatto troppo stupido. Bisogna dirlo alto e forte che il governo di Israele sbaglia. Che si deve fermare. Che l'amministrazione americana è il suo più pericoloso alleato e consigliere. Che la comunità internazionale è stata finora troppo corriva. E che se c'è una discontinuità che urge per il centrosinistra al governo è questa. Se ne faccia carico.
Agi 8.8.06
LEGGE 180: BINETTI E VALPIANA, DIRITTO A CURA E PIU' STRUTTURE (AGI)
Roma, 8 ago. - Il diritto alla cura, ad esser curato per star bene, va garantito a tutti: aver chiuso i manicomi non vuol dire negare l'esistenza della malattia mentale che c'e', esiste e va affrontata costruendo strutture adeguate dotate di personale qualificato. La richiesta partita dal poeta Edoardo Sanguineti e diretta al Ministro della Salute Livia Turco, ha trovato, nelle senatrici Paola Binetti e Tiziana Valpiana che fanno parte nella Commissione Sanita' del Senato, attenzione e considerazione. Il nostro paese non dispone di un 'Irccs' (istituto ricovero e cura a carattere scientifico) dedicato unicamente alla ricerca e studio, al trattamento e cura della malattia mentale; dispone di un rapporto di posti letto per 10 mila abitanti di 1,72 contro una media europea di 2,25; a fronte di 301 strutture pubbliche con 4108 posti letto (0,78 per 10 mila abitanti) e 8058 operatori, dispone pero' di 54 case di cura private con 4862 posti letto (0,94 per 10 mila abitanti) e 2384 operatori. "Aver chiuso i manicomi - spiega la Binetti - non significa negare la realta' della malattia mentale: bisogna rimettere mano alla 180 senza scadere nelle dispute ideologiche perche' nei 26 anni trascorsi dall'entrata in vigore della legge sono cambiate tante cose, dai criteri di diagnosi alle terapie". E la Valpiana precisa: "la sofferenza mentale c'e', esiste e va affrontata con interventi mirati alla salute della persona, alla vicinanza alla realta' della persona". Dunque, metter mano alla 180 e' 'cosa di sinistra'? "Se e' stato a suo tempo giusto chiudere i manicomi - sostiene il poeta Sanguineti - oggi e' altrettanto giusto fare strutture sanitarie adeguate di trattamento e cura perche' il cittadino ha il diritto alla cura, a star bene come prevede la Costituzione per non esser di peso a se, ai suoi familiari e alla societa'. E' insomma al di la' delle pure ed inutili dispute ideologiche arrivato il momento di rivedere la legge 180. "Chi soffre di disagi psichici se non di vere e proprie malattie mentali ha bisogno del luogo deputato al trattamento e alla cura - conclude Sanguineti - lo si chiami come si vuole ma quel luogo va fatto e reso disponibile all'uso per chi soffre". (AGI) Pat
Agi 8.8.06
LEGGE 180: BINETTI E VALPIANA, DIRITTO A CURA E PIU' STRUTTURE (AGI)
Roma, 8 ago. - Chiusi i manicomi (o meglio, gli ospedali psichiatrici) a partire dal 1978, sono stati introdotti i Dsm, i 'dipartimenti di salute mentale', quindi una rete territoriale di servizi: dai centri salute mentale (Csm) ai servizi psichiatrici di diagnosi e cura (Spdc); dai day-hospital (Dh) alle strutture residenziali (Rs) ai centri diurni (Cd), con un massimo di 16 posti letto. Poi, conclusasi nel 1999 la chiusura degli ospedali psichiatrici, il 'ricovero' avviene nei 262 Spdc (che hanno 3431 posti letto; 13,1 posti letto per Spdc), nelle 23 Cpu (Cliniche Psichiatriche Universitarie con 399 posti letto, pari a 17,3 perstruttura) nei 16 Csm-24 (10 in Friuli e 6 in Campania con 98 posti letto) e nelle 54 Case di Cura Convenzionate Private (Cdc con 4862 posti letto). Per quanto riguarda i ricoveri, sono stati (anno 2001) 103.260 in 292 strutture pubbliche per un totale di 1.227.676 giorni di ricovero: nelle 54 Cdc i ricoveri sono stati 35.880 con 1.252.049 giorni. Il rapporto ricoveri/numero persone ricoverate varia da 1,34 nelle Cpu a 1,45 negli Spdc sino a 1,66 nei Csm-24h, mentre nelle Cdc questo rapporto si attesta a 1,55. "Il fatto che il Ministro Turco abbia inserito la malattia mentale ai primi posti delle priorita' da affrontare dimostra la sua serieta' - dice lo psichiatra Michele Tansella che dirige a Verona uno dei tre centri Oms per la psichiatria - L'Italia ha bisogno di strutture altamente qualificate: non abbiamo un solo Irccs che si occupi di malattie mentali". E Tansella lancia una proposta: "bisogna procedere nella programmazione e ricostruzione dei servizi ma sulla base dell'evidenza scientifica: ossia vanno realizzati solo quei modelli che hanno dato prova di efficacia e funzionalita' sperimentate". Dunque, il modello organizzativo, costruito sulla scia della 180 e spesso portato ad esempio, sta rivelandosi pieno di crepe e criticita'. "La 180 e' il vero tabu' da sfatare: nessuno ne vuole parlare, nessuno ha il coraggio d'intervenire - dice la Binetti - su una questione spinosa e delicata: dico che il tempo e' oramai maturo per rivedere la 180, alla luce dei progressi scientifici fatti in questi anni sulla conoscenza, diagnosi e terapia delle malattie mentali". L'argomento, insomma, e' all'ordine del giorno della Commissione stessa. "Si possono destinare i proventi della vendita delle strutture manicomiali alla costruzione di servizi e strutture, alla formazione di personale che realizzino - spiega la Valpiana - quella vicinanza alla realta' delle persone che e' indispensabile per garantire il diritto alla cura". Un'opera di restyling della 180, allora. "L'importante e' che si cominci a porre la questione all'ordine del giorno", conclude la Binetti e la Valpiana e' certa che "si troveranno le soluzioni migliori e piu' efficaci perche' si assicuri il diritto alla cura". (AGI) Pat 081647 AGO 06