26.8.06

 
Il Messaggero 26.8.06
Bertinotti: «La svolta in politica estera cambia il pacifismo»
di Nino Bertoloni Meli

ROMA «Sono molto contento e soddisfatto. A Bruxelles è stata premiata la nuova politica estera italiana». Fausto Bertinotti ha seguito dalla Francia dove è in vacanza tutti i passaggi della ”missione Libano”, ha approvato, ha incoraggiato, ha suggerito, e adesso non ha motivo di nascondere la propria soddisfazione. «Il mutamento di asse strategico è evidente, lampante. Per la prima volta emerge un protagonismo della Ue sullo scacchiere internazionale. Un protagonismo senza aggettivi, già dire ”Europa atlantica” appare limitativo, sa di legame a un carro. Europa e Ue fanno coppia attiva. Siamo finalmente nella premessa e nella promessa di una nuova presenza italiana nel mondo. Cresce l’Europa, e anche Annan spesso cauto e guardingo, si è come liberato. E tutto questo si declina sulla pace invece che sulla guerra. Sì, sono veramente contento».
Presidente Bertinotti, la sinistra radicale è oggi a favore dell’intervento in Libano, mentre dalla Cdl e da settori moderati dell’Unione sono arrivate perplessità e preoccupazioni. Come spiega questo paradosso?
«Non è proprio così. L’Unione tutta è per l’intervento, quanto alle preoccupazioni, le ho pure io, le abbiamo tutti, ma non fanno linea politica».
E allora come stanno le cose?
«Parlerei piuttosto di un confronto, e di differenze anche profonde, tra il campo pacifista da una parte e il centrodestra dall’altra».
Questo per spiegare che cosa?
«Semplice: siamo in presenza di un riposizionamento strategico dell’Italia nello scacchiere mondiale. E’ in atto un vero e proprio cambiamento di politica estera. Gli atti di questo governo e di questa maggioranza mostrano che l’Italia torna a essere una forza di pace nel Mediterraneo, una riscoperta del corso lungo della storia italiana, messa in ombra, anzi interrotta negli anni scorsi».
Tutto questo spiega l’adesione pressochè entusiasta della sinistra radic ale e del pacifismo alla missione libanese?
«Davanti a una ricollocazione geo-politica del nostro Paese, in sintonia con una riqualificazione del ruolo della Ue e dell’Onu, di fronte a una ripresa di protagonismo positivo a favore della pace, in un contesto simile è ovvio che tutte quelle forze che avevano contestato la guerra preventiva, il carattere unilaterale dell’intervento e la collocazione atlantica non memore della tradizione mediterranea dell’Italia, non possono non sentirsi in sintonia e protagoniste di questo nuovo corso. L’intervento italiano, e adesso della Ue, è un intervento di pace. Finora si era agito sempre contro qualcuno - Afghanistan, Iraq - ora c’è una iniziativa unitaria a favore di qualcuno e di qualcosa, per la pace. E non solo sotto l’egida dell’Onu, ma con le Nazioni unite protagoniste assolute. In Libano si va per interrompere una spirale di guerra e di terrorismo. Ed è chiaro che il fronte pacifista si ritrovi».
Bertinotti quindi è oggi idealmente in marcia con i pacifisti della Perugia-Assisi. Anche questo appuntamento storico ha cambiato natura?
«Anche la marcia questa volta è per , finora era stata sempre contro qualche intervento. E’ la prima volta che avviene, con tutto l’arcipelago pacifista presente e schierato. A un riposizionamento dell’Italia in politica estera corrisponde un riposizionamento delle forze pacifiste».
Restano le preoccupazioni di alcune forze moderate.
«Le preoccupazioni non sono monopolio di chi le esprime, sono generali, non è che c’è qualcuno indifferente alla vita delle persone. Personalmente sono contrario a qualunque polemica nei confronti di chi avanza preoccupazioni sulla vita umana. Aggiungo però che stesse preoccupazioni si sarebbe dovuto esprimere anche altre volte, ad esempio per l’Iraq; e una uguale sensibilità non guasterebbe a proposito di quella guerra bianca che sono le morti sul lavoro».
C’è un ripensamento nel mondo pacifista sull’uso della forza?
«Uso della forza è espressione troppo generica. C’è chi come me è approdato alla non violenza e si propone di prosciugare il mondo da ogni forma di violenza. Bisogna però riconoscere che in questa bonifica che ha il suo massimo nel rifiuto della guerra e di tutte le armi, una quota di violenza è oggi ancora incorporata in luoghi e apparati, come ad esempio quelli dello Stato volti a esercitare il potere della legge. Bene, così come al potere dello Stato si può chiedere di non esercitare una violenza offensiva dei diritti delle persone, così sullo scacchiere internazionale si può puntare a un uso delle armi che sia un ”non uso”, come potere deterrente. Il leader libanese Siniora lo ha in un certo senso teorizzato quando ha detto ”non chiediamo di usare le armi, ma di accompagnare l’azione dell’esercito libanese”. C’è un uso non offensivo delle armi. E c’è una enorme differenza tra un esercito che fa la guerra e che occupa un Paese con la forza della armi, e un intervento di interposizione di forze internazionali con il consenso di tutti, sottolineo tutti, i Paesi interessati. Non è che gli Usa hanno chiesto a Saddam se era d’accordo con il loro intervento armato».
Come presidente della Camera auspica una mozione unitaria o una che marchi le differenze con l’opposizione in Parlamento?
«Penso si debba puntare a una risoluzione che coinvolga tutte le forze in Parlamento. Il consenso unanime è una giusta ambizione che va perseguita».
Resta il problema degli Hezbollah: vanno disarmati? Come? Da chi?
«Chi dice questo non vuole l’intervento dell’Onu. Delle due l’una: se si promuovono azioni militari unilaterali non è intervento Onu, quest’organismo agisce solo con il consenso delle parti interessate. L’intervento per disarmare Hezbollah non lo vuole né Annan né altri, fra l’altro renderebbe arduo se non impossiile il coinvolgimento di Paesi di origine islamica. Si andrebbe verso una escalation di guerra vera e propria, e quelle preoccupazioni sulle vite umane di cui si parlava che fine farebbero? Evitiamo insomma di ridurre le questioni a pura polemica interna. Quello è un compito che si assumerà direttamente il Libano».
Quale l’obiettivo politico della missione?
«Duplice: fermare la violenza in quei territori e orientare alla pace, con un’iniziativa che porti alla attuazione della parola d’ordine ”due popoli-due Stati”. Così come va riconosciuto il diritto di Israele a esistere e a vivere sicuro, allo stesso modo va riconosciuto l’uguale diritto palestinese ad avere uno Stato».
Presidente Bertinotti, veniamo alla politica interna. Il suo pari grado del Senato, Marini, ha chiesto di cambiare la legge elettorale. E’ d’accordo?
«Quella attuale è una cattiva legge, trovo del tutto legittimo avanzare riflessioni e richeste. Aggiungo che non necessariamente la legge elettorale è oggi una priorità. E poi, in che direzione cambiarla?».
Già, che tipo di nuovo sistema elettorale?
«Una premessa: veniamo da una stagione che dura da una quindicina d’anni in cui si è discusso di leggi elettorali e riforme istituzionali secondo una visione del momento e utilitaristica, e sotto l’incalzare di una parola d’ordine che intendeva subordinare tutto il resto: la governabilità. Non si è partiti dalle novità del Paese. Ci ha pensato comunque il referendum costituzionale a seppellire tutto e a dire che d’ora in avanti si può mettere certo mano a cambiamenti, ma a partire dal fatto che l’intero impianto costituzionale va sostanzialmente confermato. Occorre un sistema elettorale che avvicini i cittadini alle istituzioni e che confermi e rilanci il ruolo dei partiti, che favorisca una nuova strategia di partecipazione. Il sistema che favorisce questo è il proporzionale, e il più adeguato a garantirlo è quello tedesco».
Legge finanziaria. E’ vero che sarà la prova del nove della tenuta del governo?
«Quante prove del nove si chiedeono e si attendono! Suggerirei a dubbiosi o speranzosi di misurarsi sul terreno della tenuta di cinque anni».
Condivide l’idea di un nuovo patto sociale suggerita da Prodi?
«Ho una diffidenza antica alla stessa formulazione di ”patto sociale”, vi rifuggo. Preferisco il termine ”riforma”. Sono piuttosto per individuare le forze motrici del cambiamento, e le individuo nel grande campo del lavoro, nelle forze ambientaliste e in una parte della borghesia, quella che ha capito come le politiche neoliberiste invece di essere liberatorie per le imprese, alla fine diventano elemento di mortificazione. E che ha capito anche che la sfida sulla competizione internazionale non riposa sulla compressione del costo del lavoro».

Liberazione Lettere 26 agosto 2006
Legge 180. Dibattere su follia e normalità


Caro direttore, nella lettera su “Liberazione” di ieri, “Legge 180. Possiamo discuterne guardando avanti? ”, siamo di fronte ad operatori della salute mentale che esprimono pareri, critiche, accuse, invocano trasformazioni relativamente alla legge 180. La cosa sarebbe legittima e perfino utile, se non fosse che tutto ciò viene fatto senza una conoscenza della normativa, nel merito e nell’importanza. A titolo esemplificativo, voglio sottolineare che, contrariamente a quanto sostenuto, la legge non prevede nessun passaggio della salute mentale alle Regioni (concetto peraltro molto leghista). Per fare il proprio lavoro con professionalità, per prendersi cura con un "approccio globale", non c’è bisogno di revisioni. La 180 non entra infatti nel merito dell’operatività professionale e non prescrive alcuna tipologia di trattamento. Non impedisce, insomma, a nessun operatore di fare il proprio lavoro con efficacia. Cosa si invoca dunque? A proposito di cronicità, voglio sottolineare che questa è spesso frutto di tecniche che, essendo riduzioniste, non tengono conto di altri bisogni, come il diritto di cittadinanza, l’inserimento lavorativo, il diritto alla casa, secondo una presa in carico di basagliana memoria. Prendersi cura significa proprio non tenere conto dei soli bisogni sanitari, ma anche dei diritti sociali. Non esiste quindi nessun equivoco. Questo approccio allarga il confine ed il limite di ogni tecnica psichiatrica, senza escludere nessuna forma di psicoterapia, infatti tutte le acquisizioni più moderne parlano di interventi combinati e solo i conservatori legati ad inutili ortodossie non hanno la capacità di cogliere questa novità. Pensare solo alla mente con la psicoterapia e scotomizzare il corpo fisico e il corpo sociale è un’operazione vecchia e di una cultura che non ha niente a che vedere con la sinistra e con Rifondazione in particolare. In ultimo, chi si definisce di sinistra non può essere ignorante delle battaglie e delle culture relative. Va consigliato di studiare Basaglia e di leggere meglio i testi marxiani e femministi. Senza queste basi è complicato dibattere sulla follia e sulla normalità che poi altro non è che un dibattere sul senso della vita. E’ per me elemento di preoccupazione leggere lettere firmate da psichiatri che propongono tali posizioni coinvolgendo la Asl di cui sono direttore generale. Nella stessa ci sono decine di seri professionisti che non si separano in gruppi ma lavorano in rete, mentre cene sono altri che selezionano i pazienti scegliendo quelli che preferiscono curare, che non si impegnano nel Spdc e sulla crisi, lasciando che magari il paziente venga contenuto fisicamente… Mi domando quanti degli operatori che hanno firmato la lettera ieri sono impegnati nel trattamento a domicilio. Non è forse a causa di questa mancanza che le famiglie si sentono abbandonate?

Giuseppina Gabriele Direttore Generale Asl Roma D

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