18.8.06

 
Liberazione 18.8.06
Anche in Italia le donne vengono picchiate e uccise. E la Cassazione arriva a giustificare gli stupri
Hina e Jennifer, vittime della cultura patriarcale (e non della religione)
di Laura Eduati

Nell’Italia che riserva in Parlamento appena il 12% dei seggi alla rappresentanza femminile, le donne sono un oggetto di proprietà dei maschi. Che le maltrattano, le violentano, le uccidono. Abbiamo spesso pubblicato le cifre: ogni anno 200 donne muoiono ammazzate dai mariti, dai fidanzati, dagli amanti che non sopportano la loro ribellione, il loro volere amare un altro o un’altra vita. Gli assassini sono tutti, o quasi, italiani. Come sono italiani nel 90% dei casi gli autori dei circa 30mila stupri e tentati stupri compiuti ogni anno nel nostro Paese.
Parlando di Hina, sgozzata e sepolta in una buca nel giardino di casa, ci siamo dimenticati di un’altra fossa: quella in cui morì asfissiata Jennifer Zacconi, ventenne di Martellago (Venezia) massacrata a calci e pugni dal padre del bimbo che portava in grembo e che avrebbe partorito appena quindici giorni dopo. Lucio Niero, titolare di un night club, quel figlio non lo voleva. E così ha pensato di risolvere il disonore (era sposato e non sopportava l’idea che la moglie venisse a sapere del tradimento) eliminando la giovane ragazza. In nome di quale dio e di quale religione è stata uccisa Jennifer?
Mohammed Sallem, il padre di Hina, invece non sopportava più le critiche di una parte della comunità pakistana che lo additavano come un pater familias incapace di farsi obbedire dalla figlia. L’indomani della morte di Jennifer un editoriale del Gazzettino la bollava come una “ragazza facile”: una ragazza bella e libera che passava le serate in discoteca e che si era concessa ad un uomo di diciotto anni più grande di lei, e per giunta sposato. Troppo, per la cultura provincial-cattolica del Nordest.
Mohammed Sallem ha detto di aver ucciso Hina perché non voleva che diventasse una ragazza occidentale, cioè una di facili costumi. Come Jennifer, Hina amava uscire la sera, andare a ballare, lavorava in un night club come cameriera, fumava canne e beveva birra. In pochi mesi aveva percorso quel tragitto di emancipazione che le donne italiane hanno compiuto in trent’anni, ma che in molte parti d’Italia rimane ancora un obiettivo irraggiungibile. La cronaca nera pulsa di casi efferati: il 5 luglio scorso Francesca B., 36 anni di Macerata, venne ritrovata moribonda in un cassonetto dell’immondizia. La sera prima il marito, direttore artistico del teatro della città, italiano e certamente uomo di fine cultura, l’aveva riempita di botte e poi l’aveva chiusa in un sacco nero. Poi, come si fa con la spazzatura, l’aveva gettata via. I due vivevano separati e a quanto pare lei non voleva saperne di tornare insieme. Ancora: due giorni fa, a Siracusa, un uomo ha ammazzato moglie e suocera e poi si è impiccato. I vicini dicono che la coppia litigava spesso.
Dopo lo sgozzamento di Hina, Giuliano Amato ci ripensa sulla cittadinanza in cinque anni, e studia di prorogarla a sette. «La donna si rispetta secondo regole che io considero universali», ha commentato. Regole che però in Italia sembrano appannarsi. Nel 2005 alla Conferenza Mondiale di New York il governo Berlusconi ricevette una dura reprimenda: inaccettabili e retrivi, si disse, gli stereotipi con cui viene raffigurata la donna italiana. Provocante bomba del sesso nella pubblicità, nei media e persino nei settimanali femminili. Insomma, se non è santa è una puttana. Come nella sentenza della Cassazione che la scorsa primavera diede le attenuanti ad uno stupratore perché la vittima, minorenne, non era più vergine e dunque lo shock da violenza sessuale le era sicuramente parso meno forte. In Pakistan vige ancora la terribile tradizione dello stupro di gruppo per punire le donne macchiate di disonore. In Italia lo stupro ha spesso delle attenuanti: avevi i jeans troppo stretti (e dunque te li eri tolti tu), eri già avvezza al sesso, era solo sesso orale, in fondo ti violentava tuo marito. Sempre la Cassazione, nel 2003, stabilì che non è reato giustificare lo stupro. Si riferiva alla vicenda di una donna che da anni subiva le attenzioni sessuali del suocero. Quando se ne lamentò col marito, questi le rispose: «Che vuoi che ti dica? E’ mio padre, può permettersi di fare ciò che vuole».
I media italiani stanno facendo della storia di Hina la storia di una comunità, quella pakistana, che non riesce a integrarsi nella società italiana. E per estensione resuscita il fantasma dell’Islam irriducibile. Lo ha ribadito persino Francesco Merlo su La Repubblica di tre giorni fa: l’omicidio di Hina è «un atto di guerra contro l’Occidente», come se solo nelle comunità musulmane la donna subisse la prevaricazione maschile. Bossi dice: «Se gli dai la cittadinanza può darsi che votino per qualche partito, ma gli uomini hanno radici profonde, e gli uomini ritornano sempre alle loro radici, alla loro storia». La premio Nobel iraniana Shirin Ebadi ricorda spesso come queste radici non siano affatto religiose ma patriarcali, e che la sharia (la legge islamica) spesso non c’entri nulla. Lo dimostrano le mutilazioni genitali, l’evirazione del piacere sessuale femminile praticata indifferentemente da cristiani, musulmani, animisti.
Per Daniela Santanché (An) è invece tutta colpa del Corano: in commento pubblicato ieri sul Tempo parla dei «luoghi» (le comunità musulmane in Italia) «dove leggi italiane - che garantiscono a tutti il diritto alla vita, alla salute, alla dignità, alla libertà di parola e di comportamento - non valgono più». In parte è vero. Ma perché non estendere la difesa delle donne musulmane alle donne italiane? A Bologna la Procura ha aperto un’inchiesta a carico di alcune famiglie straniere dove, si sospetta, i padri maltrattano le figlie desiderose di uno stile di vita più occidentale. Non è difficile ipotizzare che in altre case, italiane, avvengano i medesimi conflitti. In fondo, come ricordava ieri Il Riformista, il delitto d’onore è stato abolito solo nel 1981. E fino al 1996 la violenza sessuale veniva considerata reato contro la morale e non, com’è oggi, contro la persona. 1996. Dieci anni fa, non secoli fa.

Liberazione 18.8.06
L’assassinio di Hina, la religione, i dogmi
I vantaggi del relativismo
di Marco Aime

Ora inizierà il facile tormentone sulle culture. Accade sempre così, quando succedono fatti come quelli che hanno visto Hina, una povera ragazza pakistana di ventun’anni, uccisa barbaramente dalla propria famiglia, forse dal padre stesso. Si darà la colpa all’Islam e via di seguito. Come se davanti a episodi così atroci non ci fossero responsabilità individuali, colpe di singoli individui che ragionano, male, malissimo, e che si autoassolvono imputando a una religione l’inevitabilità dell’accaduto.
Finisce poi che ci si divide tra chi, facendo d’ogni erba un fascio, acuisce la propria insofferenza verso gli stranieri in genere, accomunandoli in un unico calderone di cultura "altra" e tra chi reputa che i dettami dei testi religiosi costituiscono una legge irrinunciabile e immutabile. Il rischio è sempre che ci si trovi di fronte a due fondamentalismi culturali, che attribuiscono, con fini e motivazioni assolutamente diversi, alle culture un potere coercitivo sugli individui e finiscono per diventare marionette manovrate da una tradizione creata da chissà chi, chissà quando, spesso da un profeta.
Gli esseri umani però non sono monoliti inscalfibili, crescono, è vero, in un quadro culturale di riferimento, ma non in uno solo. Non c’è solo la religione, come non c’è solo la famiglia, la scuola, ma anche gli amici, le influenze esterne che mutano, i media. E poi gli individui si muovono, incontrano realtà nuove, creano nuovi panorami culturali, nei quali si mescolano orizzonti vecchi e nuovi, spesso senza molta coerenza, come accade in ogni sistema culturale.
Hina era giovane e come i giovani era stata più rapida ad assorbire gli stimoli della nuova realtà in cui si era trovata a vivere. Non quella del Pakistan musulmano, ma quella di un paese occidentale, laico, seppur impregnato di cattolicesimo. Un paese dove i rapporti, soprattutto quelli tra donna e uomo sono diversi e dove l’amore si può coltivare anche al di fuori delle scelte dei genitori. Come tutti i giovani, giustamente, Hina si scontrava con i genitori. Il conflitto generazionale è il motore dell’evoluzione e dei cambiamenti, ma la sua famiglia, o meglio, i maschi della sua famiglia non lo hanno accettato.
Giusta ogni condanna: l’alibi della cultura non può essere un’attenuante, anche se, non scordiamocelo, fino a non molti decenni fa la nostra legge prevedeva il delitto d’onore. Così come non possiamo scordare che pochi mesi fa una donna è stata colpita alla testa da un colpo di pistola sparatole dal fratello, partito da Reggio Calabria per raggiungerla a Messina, dove lei viveva con il suo nuovo compagno sgradito alla famiglia. Anche in questo caso, non c’è alibi culturale. Quante sono le donne siciliane che si sono ribellate a una tradizione che le voleva assoggettate all’autorità familiare? E quante le ragazze come Hina, nate in un paese straniero, venute in Occidente e adattatesi al nuovo contesto, che hanno mutato il loro stile di vita? Sicuramente anche loro avranno avuto contrasti più o meno forti con i genitori, litigi, prove di forza, ma quante sono riuscite a conquistarsi un loro spazio? Ovviamente non fanno notizia, non ne veniamo a conoscenza e pertanto non lo sappiamo.
E ancora, quanta “cultura” c’è davvero in certi gesti? Possiamo sempre attribuire alla società le colpe dei singoli? Avremmo il coraggio di dire che c’è una predisposizione culturale dei giovani tortonesi a tirare sassi dai cavalcavia? Oppure dei minorenni di Novi Ligure a uccidere i genitori? O forse dobbiamo ammettere che ci sono fatti, gesti, azioni che di cultura ne contengono proprio poca, che sono svuotati di significati condivisi e attengono alla sfera della devianza più che a quella della cultura in quanto tale, cioè in quanto eredità acquisita.
L’assassino di Hina non è un pakistano, è, prima di tutto un assassino e come tale va trattato. Il relativismo è una grande conquista del pensiero occidentale, e questi fatti portano acqua fresca e abbondante al mulino dei suoi denigratori, ma essere relativisti non significa cadere in un fondamentalismo opposto a quello etnocentrico. Il relativismo non è un dogma ed è qui la sua forza, nel concedere la possibilità di ammettere le eccezioni. Si possono accettare, non per forza condividere, aspetti di culture diverse dalla nostra, così come non per forza si devono accettare tutte le opzioni previste da quelle culture.
La troppa enfasi sulle culture porta a degli eccessi, ma adottare una prospettiva meno rigida e classificatoria, non significa abdicare da quella relativista, semmai affinarla e contestualizzarla. Ci sono argomenti che presentano gradi diversi di criticità. Un esempio: possiamo paragonare la questione del velo a quella delle mutilazioni genitali femminili? Si tratta in entrambi i casi di questioni culturali che ci riportano al dibattito tra relativismo e universalismo. Peraltro, anche nel caso del velo ci sono distinzioni. Se nel caso del velo può essere più semplice arrivare a una soluzione negoziale, rispetto alle mutilazioni, almeno personalmente, prevale il senso di tutela dell’integrità del corpo. Il diritto al non subire violenza può e deve senza alcun dubbio essere universalmente esteso. Questo non significa che tutto ciò che esula dalle nostre abitudini sia da condannare a priori: esistono gradi diversi di alterità. In alcuni casi è più semplice attenuare l’impatto con la differenza, in altri meno, in altri ancora per nulla. » impossibile tracciare una linea netta di confine tra ciò che riteniamo accettabile e cosa invece no, anche perché in molti casi la questione non attiene alla società intera e pertanto alla sua cultura, ma alla morale individuale. Nella stessa nostra società abbiamo antiabortisti e abortisti, divorzisti e antidivorzisti, individui favorevoli all’utilizzo delle cellule staminali e altri contrari. La differenza sta nel fatto che gli "anti" sono tendenzialmente proibizionisti, mentre gli altri concedono libertà di scelta. Per questo il relativismo non è una fede, perché non ha dogmi, perché non porta a escludere l’altro, non crea "infedeli".
Riportiamo, pertanto, la morte di Hina in un quadro molto più complesso di quello che rimanda a una semplice professione di fede religiosa, o a un quadro di valori dominante, che rischia di nascondere le molte scelte che ogni individuo, di qualunque cultura, può compiere e delle quali è il solo responsabile.

Liberazione Lettere 18.8.06
No alla prescrizione di psicofarmaci ai bambini

Egregio direttore, sono una mamma di due spendidi ragazzi, ma soprattutto nonna di una bellissima nipotina dell’età di tre anni e in queste due vesti volevo comunicare, attraverso questa mia lettera, la mia grande preoccupazione interiore e il mio disaccordo circa l’autorizzazione e l’approvazione alla somministrazione dell’antidepressivo Prozac anche ai minori ed ai bambini di almeno 8 anni di età. Quando facevo la mamma ricordo che anche i miei figli a volte, nella loro infanzia e durante l’adolescenza, hanno avuto momenti in cui erano tristi, depressi, come si usa dire adesso, ed i motivi scatenanti erano i più svariati: un voto brutto a scuola, un voltafaccia dell’amico del cuore, l’essere stati lasciati dalla ragazza, una perdita, che causava in loro un temporaneo calo d’interesse nella vita di tutti i giorni, pianti e insonnia; ma io e mio marito, armati di amore, comprensione e tanta pazienza e buona volontà, siamo sempre riusciti a calarci nella loro realtà ed ad aiutarli ad affrontare i problemi che di volta in volta si presentavano, per poi risolverli nel migliore dei modi. Ora sono adulti, lavorano, hanno una famiglia e vivono la vita! Con i loro alti e bassi, come tutte le persone del mondo! Gli stati d’animo non sono malattie! Ho già sentito parlare di questo antidepressivo nel passato e so che è stato al centro di pesanti polemiche in America per i suoi molteplici e pericolosissimi effetti collaterali, tra i quali agitazione, cambiamento nel comportamento, ideazione suicidiaria ed omicida… e per essere stato collegato ad episodi di cronaca, ricordo in particolare alcune stragi scolastiche commesse da adolescenti in cura da antidepressivi. Concludo la mia lettera gridando a gran voce: «No alla prescrizione degli psicofarmaci ai bambini!». Così facendo, uccideremo la loro naturale vitalità, la luce dei loro occhi, uccideremo il loro ed il nostro futuro! Continuerò a fare la nonna, amando la mia nipotina, non avvelenandola!
Agnese Ferri via e-mail

Liberazione Lettere 18.08.06
Hina Saleem. Il problema sono le religioni

Caro direttore, in questa strana estate che, a differenza di altre volte, non ha il potere di mettere a tacere i grossi problemi in cui versa l’italia, il fatto di Hina Saleem, la ragazza pachistana uccisa dal padre e dai cognati, costituisce il compendio di molte questioni trattate da “Liberazione” su temi di primaria importanza quali la donna e le religioni. Ho letto gli articoli che parlano della vicenda sul “la Repubblica” e sul suo quotidiano e, tralasciando quello che a mio parere non è da prendere in considerazione (faccio riferimento all’articolo di Francesco Merlo che parla di “fragoline”da proteggere) ho invece apprezzato l’articolo di Monica Lanfranco. Ma la cosa che mi ha stupefatto di più sono i commenti televisivi: “voleva vivere alla maniera occidentale…” dicono di Hina, come se la maniera occidentale fosse meglio o peggio di quella orientale o di altre culture del mondo, oppure come se l’integralismo islamico, con quello che predica il corano, sia meglio o peggio di quello che predica la chiesa cattolica sulla sessualità, sulla famiglia, sulla procreazione e sul rapporto uomo donna. Il problema nonè trovare un meglio o un peggio tra oriente ed occidente o tra le varie fedi religiose che sono tutte, nessuna esclusa, da secoli causa principale di guerre e distruzioni. La speranza è pensare ad una ricerca sulla realtà umana, sulla realtà inconscia che porti ad una sessualità vera e pulita, estranea ad ogni religione, estranea a qualunque credo razionale ed ideologico. La passionalità è cosa preziosa risevata agli esseri umani più “belli”, è confronto fra due identità umane, ed è forse questa libertà che scatena la violenza più inaudita verso quelle donne che hanno il coraggio di viverla rischiando anche la propria vita.

Patrizia Cencetti via e-mail

Repubblica 18.8.06
Paolo Boringhieri impresario di Freud
Il ricordo affettuoso di Renata Colorni
di Luciana Sica

Pazienza e incoscienza, erano queste - per Paolo Boringhieri, scomparso a Torino all’età di 85 anni - le principali virtù di un editore. Dalla scena pubblica era già sparito da tempo, preso dalle sue tante passioni: dai viaggi alla musica, dalla montagna alla riscoperta delle sue radici familiari in Engadina.
Ma che importa? C’è gente - come lui - capace di grandi imprese che restano per sempre, è questo che conta, ed è quasi superfluo dire che il nome di Paolo Boringhieri rimarrà comunque legato all’avventura editoriale delle opere complete di Freud innanzitutto - sembrava una follia, fu una sfida vinta -, ma anche di Jung e poi di Abraham e Ferenczi, di Anna Freud e Melanie Klein, di Reik e Binswanger, di Kohut e Piaget. Ma anche di Einstein e dei maggiori fisici del Novecento.
Adorava la scienza Paolo Boringhieri, la precisione e la perentorietà del suo linguaggio che sopporta poche mediazioni, puntava con entusiasmo sui testi di ricerca. Detestava invece la divulgazione, quelli che definiva con disprezzo "bignamini pseudoscientifici". Il suo catalogo spaziava dall’antropologia all’elettronica, dalla biologia alla chimica, dall’economia all’informatica, dalla matematica alla geologia, dalla linguistica alla psichiatria. Una disciplina di cui invece il raffinato editore ha sempre apertamente diffidato è la sociologia: spesso banale, scontata, piena di luoghi comuni, influenzata e condizionata dalla politica con il gravame delle sue ideologie e le sue utopie.
Se Freud lo ha irresistibilmente attratto è perché la psicoanalisi nasceva come "scienza medica", perché parlava di psiche e non di anima. Questo non gli impedirà di affrontare anche un autore asistematico e disordinato come Jung, un appassionante rompicapo, un fascinoso riscopritore proprio dell’anima. Ma per Paolo Boringhieri sono comunque i dodici volumi del grande Sigmund - usciti tra il ‘66 e l’80 - le "tavole della Legge", quello che davvero conta in psicoanalisi. Senza alcun dubbio l’edizione italiana dell’opera di Freud - la prima integrale in tutta Europa - fu il frutto di un ampio rigore sistematico e filologico, di un lavoro che ha contato sulla direzione di Cesare Musatti ma soprattutto sulla traduzione e sulla cura puntualissima di Renata Colorni.
È lei, oggi alla testa dei Meridiani Mondadori, a ricordare l’editore scomparso, l’amico di sempre, quei lunghi anni che la videro accanto a lui, tutti i giorni fianco a fianco, per restituire in italiano la sofisticata prosa del maestro viennese, il senso autentico dei suoi scritti. «Sono molto rattristata», dice la Colorni. «L’avevo incontrato solo qualche settimana fa... Era stanco ma lucido, sereno, per quanto ancora sconcertato da certe recenti ritraduzioni di Freud assolutamente discutibili. Paolo è stato una persona di grande rigore, ostinazione e direi purezza nel perseguire i suoi obiettivi. Credeva moltissimo in quello che faceva, da vero editore di razza interessato innanzitutto agli aspetti ermeneutici e quindi filosofici della scienza. Mi sento molto debitrice nei suoi confronti, gli sarò sempre grata per avermi dato tanta fiducia».
Paolo Boringhieri le ha sempre riconosciuto il ruolo di "vestale" dell’impresa, l’ha più volte evocata con ammirazione, descritta come "bravissima" e "appassionata". Scherzava invece sul ruolo di Musatti, uno psicoanalista - a suo dire - molto sopravvalutato, inesistente sul piano internazionale, per quanto abbia avuto l’innegabile merito di introdurre la psicoanalisi nel nostro Paese in anni in cui veniva avversata dalla Chiesa e dalla cultura marxista, prima ancora derisa e messa all’indice dal fascismo. In ogni caso, «se c’era da sgobbare, Musatti si tirava indietro volentieri».
Era proprio così che andava, signora Colorni? Risposta un po’ diplomatica, ma sincera: «A Musatti piaceva soprattutto fare il suo mestiere di analista... Direi che è stato un direttore di massima, che ha dato senz’altro un’impronta generale al nostro lavoro, ma non c’è dubbio che si vedeva un paio di volte l’anno».
1957-1987: trent’anni esatti dura la vicenda editoriale di Paolo Boringhieri, che comincia come redattore all’Einaudi nel ‘49. Accolto nel Consiglio editoriale, partecipa per otto anni alle celebri riunioni del mercoledì con i pochi eletti del "principe" Giulio, che nel ‘57 gli venderà le Edizioni scientifiche. È la svolta, è l’anno di fondazione della nuova casa editrice torinese con il logo del cielo stellato. Paolo Boringhieri si mette in proprio e si dedica a promuovere la scienza, non in antitesi ma accanto alle discipline umanistiche. Nell’87 la decisione di vendere il 90 per cento delle azioni a Romilda Bollati, mantenendo una piccola quota che dovrebbe consentirgli di conservare una qualche voce in capitolo per la parte più strettamente scientifica e psicoanalitica.
La presidenza è affidata alla nuova proprietaria, un’amica cara di gioventù, l’amministratore delegato è suo fratello, il geniale Giulio Bollati, la vicepresidenza resta nelle mani di Paolo Boringhieri che crede ciecamente nell’alleanza ma ben presto ne uscirà ferito, e ostinatamente silenzioso.
È ancora la Colorni a rievocare quella vicenda: «Seppure con il dieci per cento delle azioni, Paolo era convinto che la "sua" linea editoriale sarebbe stata rispettata. Ma Giulio Bollati aveva il progetto di una casa editrice più "generalista", di una piccola Einaudi... La rottura fu inevitabile, e certamente molto dolorosa».
(I funerali di Paolo Boringhieri sono in programma per le 10.30 di questa mattina, nel Tempio Valdese di Torino).

Il Giornale 18.8.06
Paolo Boringhieri, l’ultimo pioniere delle scienze umane
di Stefania Vitulli

«Trent'anni fa l'editoria culturale consentiva a un uomo come Paolo Boringhieri, profondamente appassionato del suo lavoro e delle sue scelte, di destinare una persona interna alla casa editrice a coordinare, rivedere, tradurre, annotare, curare le opere di Freud. Ho lavorato per sei anni consecutivi a questa edizione, senza occuparmi di nient'altro. Oggi una casa editrice non potrebbe più permettersi una cosa del genere». Così in un'intervista di qualche anno fa Renata Colorni, oggi direttrice dei Meridiani, ricordava una delle pionieristiche imprese editoriali di Paolo Boringhieri: la traduzione delle opere complete di Sigmund Freud.
Quando la Colorni arrivò alla Boringhieri, nel 1973, ad ambizioso progetto iniziato dal 1966 con L'interpretazione dei sogni, la Boringhieri - fondata nell'aprile del 1957 - era già nota per offrire spesso la prima traduzione italiana di opere capitali. Formatosi all'Einaudi, dove entrò nel 1949 come redattore e uscì come direttore di collana, Boringhieri si mise in proprio rilevando da Einaudi le Edizioni scientifiche, la Biblioteca di cultura economica, la collezione di studi religiosi, etnologici e psicologici e i Manuali Einaudi.
Ingegnere appassionato di filosofia, nato nel 1921 a Torino, ma con passaporto svizzero perché figlio di un ex console della confederazione elvetica, scelse per l'editrice il simbolo del firmamento e la scritta «celum stellatum», con l'obiettivo di promuovere la scienza accanto alle scienze umane, in un tentativo d'integrazione tra culture tradizionalmente separate di cui in Italia sarebbe stato il principale, e forse unico, portavoce.
Uno dei monumentali progetti originali della casa editrice fu realizzato insieme all'amico filosofo Giorgio Colli: l'Enciclopedia di autori classici, pubblicata dal 1958 al 1965 per offrire al lettore «qualcosa di altrettanto vivo e individuale, che sia di prim'ordine, ossia un “classico”, presentato nelle sue parole autentiche, senza mediazioni». A Colli affidò direzione e stesura - in molti casi - delle introduzioni (uscite postume in raccolta per Adelphi nel 1983, rendono l'idea della singolarità dell'opera) insieme alla redazione di Firenze, che contava tra i collaboratori Mazzino Montinari, Gianfranco Cantelli, Piero Bertolucci. Il lavoro fu serrato: novanta titoli in otto anni, settantasei solo nei primi cinque, per «una strana collana in cui Colli si era proposto di ripubblicare tutti i libri letti da Nietzsche specialmente sotto la suggestione di Schopenhauer. Anche se fosse solo questo, essa ci restituirebbe una fetta rispettabile di cultura ottocentesca» racconta Giuliana Lanata nel testo che accompagna appunto la raccolta delle introduzioni: da Hölderlin a Taine, passando per Chamfort, Vauvenargues, Hume, Voltaire, le Upanishad e Burckhardt.
Le imprese titaniche di Boringhieri furono molte, dai Classici alla Storia della tecnologia, ma quella per cui viene ricordato è ancora la traduzione delle opere di Freud, per cui volle come direttore l'allora massimo esponente della psicoanalisi in Italia, Cesare Musatti, al fine di creare, come scrive in un articolo apparso in Psicoterapia e scienze umane nel 1989, «l'edizione che per decenni potesse costituire il punto di riferimento per gli studiosi italiani».
Fu grazie a quell'opera omnia che si creò nel nostro Paese una terminologia condivisa del linguaggio psicoanalitico freudiano, anche se il lavoro non fu esente da critiche: l'apparente lentezza nelle uscite, dovuta all'esigenza di dare vita ad una vera «traduzione globale», uniformando circa 6000 pagine di un classico della lingua tedesca, originarono scontento da parte dei difensori di «un'editoria più superficiale», scrisse lo stesso Boringhieri, tanto che la casa editrice «fu
addirittura accusata» aggiunse, «di ritardare ad arte, per suoi occulti fini, la conoscenza del pensiero di Freud».
A trent'anni dalla fondazione, con ottocento titoli in catalogo, Boringhieri cedette il 90% delle quote nelle mani dell'amica Romilda Bollati, che affidò il ruolo di amministratore delegato al fratello Giulio, anch'egli della scuola einaudiana. Rimase per poco vicepresidente e poi si dedicò alle sue passioni di sempre: viaggi, musica e montagna, in particolare quella della regione svizzera, l'Engadina, cui ha dedicato il suo ultimo scritto, Frammenti di un'ascendenza engadinese, terminato lo scorso giugno per l'Archivio cantonale di Coira

l’Unità 18.8.06
Sotto le stelle di Paolo Boringhieri
di Maria Serena Palieri

Si svolgeranno stamattina nel Tempio Valdese di Torino i funerali di Paolo Boringhieri, morto martedì all’età di 85 anni

«Il periodo tra le due guerre è stato il periodo della diffusione della psicoanalisi nel mondo, della traduzione delle opere di Freud in tutti i principali paesi: in America ed Inghilterra, in Francia, ma pure in Spagna e nei paesi ispano-americani, e anche - in un primo tempo - nell’Unione Sovietica. L’unico paese europeo in cui la diffusione della psicoanalisi trovò difficoltà fu proprio l’Italia». Così Cesare Musatti introduce il contesto in cui, tra il 1966 e il 1980, avrebbe visto la luce la prima edizione italiana dell’opera omnia di Sigmund Freud, in dodici volumi, da lui curata, in Mia sorella gemella la psicoanalisi (erano nati entrambi, celiava Musatti, il 21 settembre 1897, lui dalla pancia di una madre affetta da itterizia, la psicoanalisi da una storica e «biliosa» lettera di Freud al collega Fliess). Perchè l’Italia era rimasta un’enclave impermeabile alla scienza dell’inconscio? Secondo Freud, ricordava Musatti, perché noi italiani saremmo inclini «a risolvere i problemi pulsionali in modo aperto», ad essere dei simpatici estroversi, insomma, senza voglia di crearci complicazioni. Musatti attribuiva invece la responsabilità all’idealismo crociano «che escludeva la possibilità di una qualsiasi psicologia scientifica» e al fascismo che, come ogni dittatura, come poi lo stalinismo, non amava ciò si sottrae all’ordine pubblico: l’inconscio e il suo potenziale sovversivo.
La pubblicazione - tarda - di tutte le opere di Sigmund Freud, nella traduzione italiana curata da Renata Colorni, con la supervisione di Cesare Musatti, è stata il capolavoro editoriale di Paolo Boringhieri, l’editore scomparso l’altro ieri all’età di ottantacinque anni. Un’impresa nel segno della sua idea ispiratrice più profonda: il superamento del divorzio tra le «due culture», umanistica e scientifica. Fondatore della casa editrice del cielo stellato, Boringhieri ne aveva tenuto le redini fino al 1987, quando si era risoluto a cedere il 90% delle quote a Romilda Bollati che, sotto la direzione del fratello Giulio, l’avrebbe trasformata, da Editrice Boringhieri, in Bollati Boringhieri. Rimasto vice-presidente, non molto tempo dopo si era staccato del tutto.
Paolo Boringhieri era nato il 4 luglio 1921 a Torino, da una famiglia originaria dell’Engadina. Deteneva un passaporto svizzero. E una passione per la storia della sua terra d’origine e della sua famiglia che aveva riversato nella stesura di Frammenti di un’ascendenza engadinese, terminato in questo giugno. Dalle vicende della «sua» casa editrice negli ultimi anni si era tenuto lontano: certo non doveva avergli fatto piacere lo scandalo della nuova edizione delle opere del «suo» Freud, curata da Michele Ranchetti, filologicamente tanto disinvolta da suscitare una denuncia dell’antica curatrice, Colorni, ed essere ritirata dal commercio.
Il padre aveva creato a Torino una nota fabbrica di birra, in fondo al corso Vittorio Emanuele II, ed era stato console della Confederazione elvetica. Ultimo di quattro fratelli, Boringhieri iniziò la sua avventura editoriale nel 1949 nel luogo più naturale allora per un torinese, in casa Einaudi. Studente di Ingegneria e appassionato di filosofia, fu accolto come redattore scientifico, in stanze che ospitavano Luciano Foà, Cesare Cases, Franco Fortini, Italo Calvino, Renato Solmi, e dove l’anno successivo, dopo il suicidio di Cesare Pavese, sarebbero arrivati anche Daniele Ponchiroli e Giulio Bollati. Nel 1951 Giulio Einaudi varò le Edizioni scientifiche e gliele affidò. Trentenne, Boringhieri cominciò a frequentare le celebri riunioni del mercoledì, con Norberto Bobbio, Felce Balbo, lo stesso Bollati, accolto tra i «prescelti».
La casa editrice col marchio del firmamento - tratto da una stampa del Quattrocento - nacque da una delle periodiche crisi economiche di via Biancamano: nel 1957 Einaudi gli cedette infatti la Biblioteca di cultura scientifica, la Biblioteca di cultura economica, i Manuali e la «collana viola» di studi psicologici, etnologici e antropologici nata per ispirazione di Cesare Pavese. Così, nell’Italia del liceo classico e di Croce, si affacciò una casa editrice che aveva il proposito d’essere di sola scienza, ma non nemica delle scienze umane, anzi, interessata al dialogo con esse. Oggi gli epigoni non mancano, per esempio le sontuose pubblicazioni della Codice di un altro ex einaudiano, Vittorio Bo. Allora fu una sobria ed elegante rivoluzione. Nel catalogo della Boringhieri negli anni hanno trovato posto le opere di Einstein e degli altri grandi fisici del Novecento, ma anche l’Enciclopedia di classici del pensiero curata da Giorgio Colli (per redigere quest’ultima nacque una redazione apposita a Firenze, con quattro dipendenti). Chi s’interessa di psicoanalisi sa che in questo catalogo trova non solo Freud, ma anche le opere di Jung e storie poderose e preziose come La scoperta dell’inconscio di Ellenberger. Per chiarire il clima della casa editrice, vale il ricordo che Renata Colorni, in un’intervista, dava del lavoro sulla «summa» freudiana: «Ho lavorato per sei anni consecutivi a questa edizione, senza occuparmi di nient’altro. Oggi una casa editrice non potrebbe più permettersi una cosa del genere, forse una fondazione, un centro di studi, un Cnr». Lì ricorda anche l’atteggiamento di singolare disinteresse da parte della Società psicoanalitica italiana nei confronti dell’opera, così come il bizzarro distacco di Musatti nei confronti delle questioni lessicali-filologiche. Nei titoli Boringhieri si spazia da Spinoza alle Upanishad, da Cartesio a Eulero, da Goethe a Darwin.
Per far capire chi è l’editore che il 16 agosto di questo 2006 se n’è andato, le parole più giuste sono quelle con cui Gian Arturo Ferrari, suo allievo, ora boss della Mondadori, qualche anno fa liquidò con un nostalgico ma sostanziale addio la genìa degli editori puri: «Tutto quello che so l’ho imparato da Boringhieri, un personaggio straordinario, dominato da una specie di ossessione, dopo il suo incontro con Freud. Conosco molto bene dunque l’editoria di cultura, il suo fascino, l’eleganza di quell’ ambiente, i suoi valori alti, le sue passioni. Ma quel mondo è finito. Il mito dell’editore/proprietario è un mito del Novecento, un secolo che ci lasciamo alle spalle».

l’Unità 18.8.06
Muore a 85 anni l’editore che portò la psicoanalisi in Italia pubblicando l’opera omnia di Sigmund Freud. Un’impresa realizzata nel segno della sua idea ispiratrice: superare il divorzio tra la cultura umanistica e quella scientifica
LA STORIA
Einstein, Eliade e Jung nel suo firmamento
di Gian Carlo Ferretti

La casa editrice Boringhieri nacque da una costola di Giulio Einaudi in senso quasi letterale. Paolo Boringhieri infatti era diventato redattore Einaudi in occasione di una riorganizzazione editoriale, che iniziata nel 1949 era proseguita fino al 1952. In mezzo c’era stato il suicidio di Cesare Pavese nel 1950, che aveva aperto un grande vuoto nell’assetto direttivo e redazionale della casa editrice. In quegli anni, a figure già consolidate come il segretario generale Luciano Foà, si erano aggiunti due giovani appena usciti dalla Normale di Pisa come Daniele Ponchiroli e Giulio Bollati, destinati a diventare l’uno redattore capo e l’altro prima condirettore generale e poi direttore generale, e inoltre Renato Solmi e Paolo Boringhieri redattori rispettivamente per i testi di economia e politica e per i testi scientifici (Boringhieri in particolare, a partire dal 1951), e Cesare Cases e Franco Fortini consulenti; mentre veniva crescendo il peso di un redattore-consulente-autore come Italo Calvino. Un contesto davvero formidabile.
Nel 1957 per far fronte a una delle sue periodiche crisi finanziarie, Giulio Einaudi cedeva al suo redattore Paolo Boringhieri le edizioni scientifiche, e perciò anche quella «collana viola» che era stata fondata e diretta proprio da Pavese e da Ernesto De Martino a partire dal 1948. Giulio Einaudi avrebbe ricordato più tardi quel «doloroso scorporo» («un po’ come amputarsi una gamba»), per la perdita della Biblioteca di cultura economica, della Biblioteca di cultura scientifica, dei Manuali di agraria, biologia, chimica, fisica, ingegneria, matematica, medicina, psicologia, eccetera, oltre che della «collana viola», più precisamente detta Collezione di studi religiosi, etnologici e psicologici. Paolo Boringhieri ereditava così un prezioso patrimonio di autori e di titoli. La «collana viola» in particolare, con opere di Jung, Lévy-Bruhl, Frazer, Kerényi, Eliade, si presentava come un’iniziativa tanto rigorosa quanto controcorrente e anticipatrice per quegli anni. In contrasto cioè con lo «storicismo imperversante» (come scriveva Pavese), e con i pregiudizi ideologici della stessa area politica comunista di cui Casa Einaudi faceva parte.
Ma Boringhieri partendo da questa solida base e da questa vasta gamma disciplinare, impostava e sviluppava una produzione di eccezionale rilievo, aprendo anche alla linguistica, alla filosofia (con Chomsky e Nietzsche), ai testi classici delle religioni orientali, e conquistando un ruolo specifico nel panorama dell’editoria italiana soprattutto con le sezioni di psichiatria, psicologia e psicoanalisi. Una produzione ricchissima, articolata in tre blocchi strettamente collegati tra loro, come si poteva leggere per esempio nel Catalogo generale 1974: «l’Universale scientifica Boringhieri, collana di grande diffusione a prezzo basso; opere di informazione e discussione nell’ambito delle scienze e, in genere, del pensiero teoretico; testi e manuali di più diretta destinazione accademica e didattica». Al centro di questo catalogo si collocava la pubblicazione integrale degli scritti di Freud e Jung.
La casa editrice Boringhieri sarebbe stata rifondata da Giulio Bollati nel 1987. Della Casa da lui rilevata non sarebbero passate alla nuova Casa soltanto una temporanea vicepresidenza del Paolo Boringhieri editore, e il suo patrimonio di testi scientifici classici e moderni, molti dei quali riproposti da Bollati in varie edizioni e collane. Sarebbe passata e avrebbe trovato nuovo sviluppo anche la tensione di ricerca che aveva accomunato in passato Casa Einaudi e Casa Boringhieri all’interno di una visione non specialistica e non separata della cultura scientifica e della cultura umanistica. Una tensione di ricerca del resto sottesa anche al piccolo firmamento con la scritta celum stellatum del logo, tratto da un testo della fine del Quattrocento, già adottato da Boringhieri e ripreso da Bollati. Il quale avrebbe aperto appunto il catalogo Boringhieri ad altri filoni della tradizione einaudiana, dalla letteratura alla storia alla saggistica sociopolitica. Una evoluzione innovativa dunque, e al tempo stesso una feconda continuità con le esperienze precedenti che (nonostante certe divergenze tra vecchio e nuovo editore) avrebbe recuperato anche l’identità da Paolo Boringhieri costruita e affermata per alcuni decenni, in un contesto culturale spesso refrattario o addirittura ostile. Una evoluzione inoltre coerente con la progettualità e storicità del disegno e catalogo einaudiano, e in contrasto invece con l’antiprogettualità e astoricità del disegno adelphiano, nonostante apparenti analogie.
Gian Arturo Ferrari lo definì «un personaggio straordinario, dominato da una specie di ossessione dopo il suo incontro con Freud»

Liberazione 18.8.06
Boringhieri, addio all’editore di Freud
di Monia Cappuccini

Occorre affrontare i tempi nuovi con strumenti nuovi. Potrebbe essere riassunto così lo spirito che ha animato per quasi sessant’anni l’attività di Paolo Boringhieri, fondatore della casa editrice omonima, morto martedì scorso a Torino, sua città natale, all’età di 85 anni. Per ironia della sorte, il lutto avviene nell’anno del centocinquantesimo anniversario della nascita di Sigmund Freud, il padre della psicanalisi di cui Paolo Boringhieri vanta il merito di aver fatto conoscere il pensiero al pubblico italiano, pubblicando l’opera omnia in 12 volumi, a partire dal 1966 e fino al 1980.
Nato il 4 luglio 1921 da famiglia originaria dell’Engadina (Svizzera), Paolo Boringhieri aveva cominciato la sua carriera nel 1949 presso Einaudi, apprendendo il mestiere, insieme a Italo Calvino, direttamente da Cesare Pavese. Fu prima membro del consiglio editoriale e poi responsabile delle edizioni scientifiche. Divorziò dalla casa madre otto anni dopo, portandosi appresso quattro collane (la Biblioteca di cultura scientifica, la Biblioteca di cultura economica, la collezione di studi religiosi, etnologici e psicologici - la famosa “collana viola” - e i Manuali Einaudi), che costituirono il patrimonio con cui avviare il progetto autonomo che porta il suo nome. Nel 1957 cominciarono così ad uscire le pubblicazioni di libri contrassegnati dal logo del “cielum stellatum”, simbolo suggerito dallo stesso Giulio Bollati (suo ex collega alla Einaudi e futuro socio). Erano gli anni in cui nella Birreria Boringhieri (di proprietà del padre) si ritrovava la società intellettuale torinese per parlare e discutere di cultura, perché si lavorava sempre anche quando si era in trattoria o nelle osterie fuori porta.
La novità del programma editoriale di Paolo Boringhieri consisteva nella piena integrazione di cultura scientifica, letteraria e filosofica. Programma che seppe arricchire con la pubblicazione delle opere di Freud, Jung, Einstein e dei maggiori fisici del Novecento. Agì da precursore e fece breccia. Nel 1966 cominciò il suo progetto più ambizioso, la pubblicazione dell’opera omnia di Sigmund Freud in dodici volumi, un impegno concluso nel 1980 avvalendosi della collaborazione di Cesare Musatti, il padre della psicoanalisi italiana. Un’operazione di portata enorme e dal significato oggi incomprensibile, se non si tiene conto di quale fosse la condizione dell’editoria di cultura di allora. «Ho lavorato per sei anni consecutivi a coordinare, rivedere, tradurre, curare e annotare tutte le opere di Freud - ha ricordato in una recente intervista Renata Colorni, la traduttrice scelta da Paolo Boringhieri -. Quando sono arrivata alla casa editrice erano già usciti alcuni volumi ma non esisteva ancora una terminologia condivisa, un glossario coerente e compatto del linguaggio psicoanalitico freudiano. E’ stato un lavoro assai complesso». L’impresa contribuì non solo alla diffusione del pensiero freudiano ma fece scuola nel modo di fare i libri, definendo la possibilità di un progetto culturale che fosse condiviso dagli autori e inserito all’interno di un quadro di contributi che tutti insieme dovevano dare alla società e alla politica.
A 30 anni dalla fondazione della sua creatura, Paolo Boringhieri si era ritirato dal mondo editoriale. Nel 1987 maturò la decisione di trovare un socio forte per potenziare l’azienda. La Boringhieri passa così al 90% nelle mani di Romilda Bollati, che ne diviene presidente e che affida il ruolo di amministratore delegato al fratello Giulio. Paolo Boringhieri rimane, ma non per molto tempo, vicepresidente, prima di lasciare l’editrice e dedicarsi alle sue passioni: i viaggi, la musica la montagna e la riscoperta delle sue radici familiari, in quell’Engadina cui ha dedicato anche un libro (Frammenti di un’ascendenza engadinese) terminato nel giugno scorso.
Oggi la Bollati Boringhieri è diversa da quella che fu nel corso degli anni Sessanta e Settanta, ma ha mantenuto la peculiarità di accendere i riflettori sulla scienza, rimasta centrale nel catalogo. Francesco Cataluccio, attuale direttore editoriale della Bollati Boringhieri ricorda: «L’ultima volta che incontrai Paolo fu la primavera scorsa. Mi disse che gli sarebbe piaciuto veder pubblicato finalmente l’ultimo volume delle opere di Jung (19/2) atteso da dieci anni. Un progetto che realizzeremo il prossimo anno in occasione del 50entario della casa editrice». I funerali di Paolo Boringhieri avranno luogo nella mattinata di oggi nel Tempio Valdese di Torino.

La Stampa 18.8.06
La morte dell'editore Paolo Boringhieri. Il capolavoro: l'opera integrale di Freud
di Alberto Sinigaglia

E’ morto la mattina del 16 agosto Paolo Boringhieri, l’editore italiano di Freud, di Jung, di Einstein: schivo e caparbio fecondatore della nostra cultura nel secondo Novecento, è spirato nella casa di via Po; nato il 4 luglio 1921 a Torino, ultimo di quattro figli, aveva passaporto svizzero, perché dell’Engadina erano le sue radici, che fino all’ultimo ha investigato.
Il padre Giacomo per vent’anni fu console della Confederazione Elvetica, dalla quale provenivano confettieri, cioccolatai e birrai come lui. Dalla «fabbrica di birra» nell’attuale piazza Adriano il quartiere veniva chiamato «zona Boringhieri».
Finito il biennio d’Ingegneria, apprendista in un’industria metalmeccanica, ma appassionato di filosofia, Paolo seppe che Giulio Einaudi cercava un redattore.
Il fratello Gustavo aveva studiato con Einaudi, Massimo Mila e Felice Balbo, figure centrali dell’editrice. Vi entrò nel 1949.
Gli diedero da rivedere le bozze di Menzogna e sortilegio della Morante.
Passato alle pubblicazioni scientifiche, curò la «collana azzurra» di storia della scienza, parallela alla «collana viola» di Pavese e De Martino, e alla «collana marrone» riservata all’economia.
Accolto nel Consiglio editoriale, partecipò per otto anni alle famose riunioni del mercoledì con Bobbio, Balbo, Bollati e altri eletti del «principe».
Il quale nel 1951 creò le Edizioni scientifiche Einaudi e gliele affidò fino al ‘57, quando difficoltà economiche l’indussero a vendergliele.
Boringhieri scelse l’emblema del firmamento con la scritta «Celum stellatum» e un programma ardito: essere il primo editore italiano totalmente dedito alla scienza e promuoverla non in antitesi ma accanto alle scienze umane. Sarebbe rimasto l’unico.
Varò i Classici con due successi: Galileo ed Eulero, geniale matematico tedesco del Settecento, che s’occupò di meccanica, ottica, balistica, idrodinamica.
Avviò una Storia della tecnologia: «Su scienza e tecnologia - diceva - la civiltà è destinata a poggiare». Affiancato dal fisico Luigi Radicati di Brozzolo e dallo psicoanalista Pierfrancesco Galli, consulenti prestigiosi, sfornò saggi di matematica, biologia, elettronica, informatica, fisica, scienze umane e sociali, psicologia e psicoanalisi.
Lo spirito cartesiano spinse Boringhieri a intrecciare sempre più scienza e filosofia, tecnica e pensiero.
Con il filosofo Giorgio Colli allestì l’Enciclopedia degli Autori classici.
Spaziava dalla storia scientifica alle religioni orientali: Boyle, Spinoza, Schopenhauer, Darwin, Burckhardt, Nietzsche, il sanscrito Upanishad.
Poi Descartes, Diderot, persino un poco noto Goethe.
Perché Boringhieri scandagliava pure i rapporti tra letteratura e scienza, avvalorava le qualità letterarie e filosofiche di Einstein e di Freud, collocandoli tra i giganti della vita culturale del nostro tempo.
Dunque l’editore doveva osare la grande avventura: tutte le Opere di Sigmund Freud in dodici volumi. «È uno scienziato - precisava -, ma anche un classico della letteratura tedesca».
A dargli forza e sostegno era frattanto arrivata Oretta di Suni, moglie bellissima, dolce, piena di fascino. Cominciò nel 1966, con L’interpretazione dei sogni, un’impresa editoriale complessa, appassionata, rigorosa.
«E una follia, dal lato economico». Aveva accanto Cesare Musatti, il massimo esponente italiano della psicoanalisi.
A metà strada assunse Renata Colorni, magnifica traduttrice, che alla produzione diede ritmo, ne diventò l’anima, la vestale.
Nel 1980 portarono a termine un’opera definitiva, ammirata, benedetta dai figli di Freud.
Sfida vinta. La Boringhieri era ormai la casa editrice sognata dal suo creatore e a lui simile, rispecchiandone esperienze, gusti, intuizioni.
Certo con il coraggio, la liberalità di pubblicare opere di cui non condivideva le idee, ma che fiutava importanti. A trent’anni dalla fondazione, all’apice del prestigio con ottocento titoli in catalogo, al profilarsi d’una generale crisi del libro, Paolo Boringhieri pensò che si dovesse potenziare l’azienda.
Accettò la proposta di un’amica della giovinezza, Romilda Bollati: al fondatore il 10 per cento, la vicepresidenza, il rispetto del marchio e della linea; a lei il 90 per cento e la presidenza; al fratello Giulio, pure lui allievo geniale e ribelle di Einaudi, il ruolo di amministratore delegato. «Davvero pensi che Giulio verrà? Sarebbe bellissimo».
Venne. Scherzò Einaudi, «principe» malizioso, chiamando «Bobo» l’alleanza dei due transfughi, che aveva assunti lo stesso giorno del 1949. Scherzarono anche loro, in pubblico, sul nome: «”Boringhieri Bollati” sposta gli accenti, eufonicamente non va. “Bollati Boringhieri” è un bel settenario».
S’è visto, non era solo questione di metrica. Paolo Boringhieri tanto riponeva fiducia nell’alleanza, quanto ne fu ferito. Uscì dal mondo editoriale, per sempre. Silenzio. Nessuna dichiarazione. Né accettò di farne recentemente, nei centocinquant’anni dalla nascita di Freud, quando dalla Bollati Boringhieri uscirono discusse ritraduzioni delle sue opere.
In disparte, tornava ai filosofi, ascoltava Beethoven o Stockhausen. Viaggiava.
In Turchia si portava Erodoto con il testo a fronte. Montanaro, sciatore, escursionista, baita a Cesana, frequentando l’Engadina si gettò a capofitto nello studio della genealogia famigliare e della storia locale, risalendo fino al Duecento.
Ne è appena nato un volume corposo, Frammenti di un’ascendenza engadinese, che Paolo Boringhieri è riuscito a consegnare in giugno all’Archivio cantonale di Coira, capitale dei Grigioni.
Dettagliato, approfondito, puntuale. Come fermamente pensava debbano essere la conoscenza e il sapere.

Liberazione 18.8.06
Ezra Pound, il “miglior fabbro” tra oriente e occidente
di Alberto Bertoni

Figura di spicco della poesia del ’900 e forza trainante di movimenti modernisti quali l’immaginismo e il voriticismo, nel 1945 pagò con l’internamento in un manicomio criminale le sue posizioni anti-americane e filomussoliniane. Oggi è un’icona per la cultura di destra

Chi avesse avuto l’intenzione e la necessità, l’estate scorsa in Inghilterra, di acquistare ABC of Reading, (L’Abc della lettura), un saggio del poeta americano Ezra Pound (nato nell’Idaho nel 1885, ma trasferito in Europa a partire già dal 1908, tra Londra, Parigi, Rapallo e Venezia, dov’è morto nel 1972 e dov’è tuttora sepolto, nel settore protestante del cimitero di San Michele), si sarebbe imbattuto in un’amara sorpresa: quasi niente, infatti, nelle imponenti catene librarie di città quali Liverpool e Manchester, era disponibile della sua vasta opera, non fosse che per una sola copia in edizione economica del testo più famoso, i Cantos. Una mancanza tanto vistosa e ingiustificata non poteva non sorprendere l’appassionato italiano di poesia, pur abituato a fare i conti con l’irreperibilità di opere in versi o saggistiche anche fondamentali sugli scaffali delle “sue” librerie e delle “sue” biblioteche pubbliche. Si trattava di un vero e proprio esempio contemporaneo di condanna e di dannazione della memoria, quasi che anche la civilissima, libertaria (?) Inghilterra non fosse consapevole - a terzo millennio abbondantemente cominciato - che vige, almeno a partire dal ’900, un principio di scissione quasi sempre radicale tra i libri prodotti e le personalità biografiche dei loro autori.
E’ un dato di fatto che da vite grigie, antieroiche, piccolo-borghesi e da psicologie abiette, malate, contraddittorie scaturiscono tranquillamente capolavori decisivi, durevoli, brillantemente inventivi e a ogni riga sorprendenti. Al contrario, scrittori (o registi) che si stagliano come autentici eroi civili, incarnando un sentire diffuso, non producono che opere noiose, scontate, piatte. La constatazione vede amplificato il suo valore se - in aggiunta - gli autori si abbandonano a pensieri e atteggiamenti politici apertamente conservatori o - peggio - reazionari. Certo, per la salute del nostro sguardo di lettori impazienti e distratti, importa che sia rivoluzionaria l’opera, non il suo creatore.
Il caso di Ezra Pound, da questo punto di vista, è addirittura eclatante. Egli incarna infatti una delle più alte e ancora vive, attuali esperienze poetiche del Novecento, nonostante che - sul piano ideologico - sia stato ammiratore di Mussolini e sostenitore delle forze dell’Asse, contro gli Stati Uniti e i loro alleati, durante la Seconda Guerra Mondiale. Pound pagò un prezzo altissimo per questa ossessione manifestata con articoli e trasmissioni radiofoniche. Prima, infatti, venne esposto al ludibrio, sospeso in gabbia come un animale, in un campo di prigionia americano nei pressi di Pisa. E qui compose la mirabile sequenza degli undici Cantos detti pisani, con versi tanto belli: «Odore di menta sotto i lembi della tenda/ specie dopo la pioggia/ e un bue bianco sulla strada per Pisa/ come volto alla torre, / pecore nere sul campo d’esercitazione e nei giorni di pioggia le nuvole/ sui monti più basse delle torri di guardia».
In seguito, venne riportato negli Stati Uniti per essere processato e incarcerato per dodici lunghissimi anni nel manicomio criminale di Saint Elizabeth. Il suo antisemitismo, in realtà, non aveva mai assunto accenti razziali e razzistici, ma meramente economici: ed era coinciso con un orrore assoluto per il capitalismo americano, nella credenza che il denaro coincide con l’usura (quasi un’anticipazione del pensiero no global, nei termini di oggi) e ogni guerra è motivata da fattori economici.
Naturalmente non è come economista o sgangherato, aberrante ideologo, bensì come poeta, talent scout (per esempio di Joyce), critico e saggista culturale che Pound riveste un ruolo di protagonista primario, nella poesia contemporanea. Trasferitosi, sulla scia di Henry James e in sintonia con Eliot e con Hemingway, dagli Stati Uniti in Europa, egli contribuì in primo luogo a ricostruire e a rendere di nuovo problematico e attivo un concetto rischioso come quello di tradizione, non più fondato su un’idea di museo in cui si raccolgono manufatti artistici destinati a una contemplazione passiva, ma su un principio di energia, che si trasmette dall’opera d’arte alla coscienza che la interpreta, interagendo con un’esperienza in atto. A dire di Pound, una lingua poetica è sempre uno strumento d’indagine, che si carica di significato al massimo grado possibile: e ciò che ne sprigiona è simile all’elettricità o alla radioattività, una forza che trasfonde, salva e unifica.
Questa funzione di coscienza dinamica della poesia contemporanea e di legislazione del nuovo incarnata da Ezra Pound (nel passaggio dall’eredità simbolista al tumulto delle avanguardie) non deve tuttavia far passare in secondo piano il suo lavoro poetico, già perfettamente delineato fin dagli anni ’10. Al 1916 appartiene per esempio questo distico, In una stazione del metro, considerato un esempio sommo della poetica dell’Imagismo, che poi autori quali Eliot e Montale avrebbero ampliato nell’istituto del “correlativo oggettivo”, in nome di una poesia visiva, allegorica e concreta: «Questi volti apparsi tra la folla: / Petali su un ramo umido e nero».
Fautore convinto del verso libero, poiché il poeta deve sempre comporre secondo il ritmo della frase musicale e non secondo quello del metronomo, Pound mette mano in quegli stessi anni ’10 al grande poema dei Cantos, un esempio mirabile di polifonia strutturale (probabile alter ego in versi dell’Ulisse di Joyce), nel quale entrano materiali diversi (riflessivi, prosastici, economici, storici, mitologici, cronistici), intonazioni diverse e soprattutto lingue diverse. Pound, infatti, è stato anche un filologo di straordinaria levatura, un lettore attentissimo dei poeti provenzali e di Guido Cavalcanti, oltre che un interprete acuto e curioso della poesia antica cinese, dalla quale trae una funzione dell’ideogramma in chiave di figurazione pre-cinematografica e non più astrattiva; e della tradizione del Nô giapponese. Tutti questi elementi all’apparenza spuri concorrono a formare la tessitura profonda dell’unico campione di epica contemporanea, i Cantos, capace di rimanere estraneo alla sceneggiatura - spesso artefatta in quanto fondata sul rispetto dei nessi causali - del genere romanzesco.
Consigliere e sodale di un altro protagonista della poesia europea come l’irlandese William Butler Yeats, redattore e collaboratore di riviste di punta quali “Poetry”, “Dial”, “Criterion”, alfiere dell’idea che la traduzione sia estensione interpretativa, inventiva e rischiosa del lavoro poetico, Ezra Pound ha ricombinato e riattualizzato la tradizione artistica del mondo occidentale e di quello orientale, del Medioevo e della modernità tumultuosa e meccanica: e dal cozzo della lirica con la storia e l’economia è uscita l’opera tutta da riassaporare di colui che Eliot - riprendendo Dante - ha opportunamente definito il “miglior fabbro”.

Liberazione 18.8.06
Sorella di Pietro Ingrao e madre di Maria Luisa Boccia, è scomparsa ieri
Ciao Anna, “ospite messaggera” della politica e del vivere
di Rina Gagliardi

Anna Ingrao, sorella di Pietro e madre di Maria Luisa Boccia, era nata a Lenola 86 anni fa. Nel 1941 aveva sposato Ubaldo Boccia, magistrato, con cui ha condiviso quasi 40 anni della sua vita. Ha avuto quattro figlie, Vincenza, Maria Luisa, Valeria e Marcella, e due nipoti, Valdo e Ruggero. Appassionata di politica, si è iscritta al Pci subito dopo la guerra, vivendo gli anni ’50 nella sezione di S. Giovanni e i ’70-’80 in quella della Balduina. Gli anni ’80 sono stati per lei anche quelli del femminismo, al centro Virginia Woolf di Roma. Negli anni ’90, Anna ha pubblicato due volumi di poesie: “Ospite messaggera” e “Fiamma e accostamento”. Stava lavorando ad una terza raccolta, ancora inedita, di cui vi proponiamo un frammento: “l’essere è più del dire / eppure quello strano vaneggiare / fa sentire essere nel dire”

Manni fa, Maria Luisa Boccia mi chiese di recensire un libro alquanto singolare: era il primo volume delle poesie di sua madre. Un titolo lirico e accattivante, “Ospite messaggera”. L’edizione sobria, come una plaquette aristocratica e, insieme, clandestina. Lo lessi - e lo rilessi - con curiosità: erano belle poesie, ispirate da un continuum lirico-esistenziale molto coinvolgente. L’autrice era una donna che si scopriva poetessa in età matura, non per ghiribizzo, non per ricerca di una qualche gloria mondana, ma per un bisogno profondo di comunicazione con “le altre”. Anche questo mi piacque. E mi apparve una sfida in qualche modo “vincente”. Ora che Anna Ingrao è scomparsa così improvvisamente, mi pare di averla conosciuta davvero. E mi pare di avvertire tutta la durezza della prova a cui in questo momento sono sottoposti Luisa, le sue sorelle, le sue cugine. E Pietro.
Anna e Pietro erano molto legati, avevano un rapporto speciale di intimità. Parlavano molto, alla sera, specie nelle lunghe sere d’estate. Si scambiavano idee, e forse anche ricordi, giudizi e sensazioni. Lei, che per quasi tutta la sua vita si era dedicata alla famiglia - un marito e quattro figlie da accudire, una militanza politica, nel Pci, che non era mai venuta meno - con il passar degli anni era stata “conquistata” dal femmininismo, quello più sofisticato, colto e radicale del “Centro Viriginia Woolf “: Non deve esser stato così facile, per lei, condividere quell’esperienza con ragazze tanto più giovani, e tanto diverse - ma lo ha fatto, e certo ne dev’esser uscita trasformata, in un punto della vita nel quale la gran parte delle persone tende a riprodurre il se stesso, la se stessa di sempre, e comunque non osa avventurarsi su sentieri nuovi. E si può immaginare che anche per Pietro, così capace di declinare la sua straordinaria umanità nella forma della ricerca e della curiosità, questa sia stata un’occasione ulteriore per “conoscere” e “riconoscere” sua sorella. Del resto, nella famiglia Ingrao, nelle sue diverse generazioni, nelle differenze politiche, intellettuali, professionali, che caratterizzano ciascuno, c’è una speciale capacità non solo di vivere gli affetti, ma di essere, ciascuna e ciascuno a suo modo, un individuo singolare, ricco di autonomia. Penso a Giulia, così diversa da Anna, così immersa nella comunità di “Amore e Psiche”, ma così tanto, anche, sorella di Pietro. E di Anna. E, fino a qualche anno fa, di Ciccio, un uomo e un medico meraviglioso, anch’egli scomparso in un triste giorno d’agosto.
Penso, più di tutte, a Maria Luisa, con la quale da tre mesi, in Senato, è cominciato un duro lavoro comune, un’impresa politica appassionante - e appassionata. Tra un’aula e una commissione, o nelle lunghe pause di attesa di una votazione, Luisa parlava quotidianamente con sua madre - e l’ho spesso vista preoccupata perché Anna non stava bene, non poteva uscire molto, si sentiva tagliata fuori dal “centro delle cose”. Si intuiva un rapporto complesso ma intenso e maturo, tra due donne che non erano unite soltanto dall’affetto, o da quello speciale cordone ombelicale che prima unisce una madre alle sue creature, e poi i figli ai genitori diventati anziani, e fragili. Ora, mi sento ancora più vicina a Luisa, e alla forza d’intelligenza e di politica che sa esprimere.
Altre cose si vorrebbero dire, ma le parole rischiano di diventare ridondanti. A Pietro, a Luisa, a Giulia e a tutta la famiglia un abbraccio filiale. Ad Anna vorrei dire soltanto: “Che la terra ti sia lieve”.

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