5.8.06
La Stampa Tuttolibri 5.8.06
La Storia è andata al mercato
Le case editrici sfornano di continuo titoli sul passato, in particolare sul ‘900, perché vendono bene anche quando sono scritti da autori dilettanti e poco documentati È il «j’accuse» di Romano, che condanna il primato dell’audience sui fatti, mentre Melograni mette in guardia dalle falsità che abbiamo imparato sui banchi di scuola
di Angelo d’Orsi
Sergio Romano, I giudizi della storia, Rizzoli, pp. 520, e19
Piero Melograni, Le bugie della storia, Mondadori, pp. 125, e15
LA storia tira. Ma quale storia? Quella opinionistica dell’intrattenimento televisivo; quella di certi gossip, specialmente estivi, dei quotidiani; quella dei grandi editori che sfornano volumi e intere collezioni di libri, facili quanto scientificamente periclitanti, sui momenti più drammatici della vicenda umana, specie del secolo di Auschwitz e Hiroshima; quella dei giornalisti che si improvvisano cultori di Clio, la musa della storia, una disciplina che, da Erodoto a noi, ha come compito non il «dibattito», ma la ricostruzione degli eventi. La storia, insomma, per quanto la si possa far rientrare nel dominio della narrazione, è, per dirla con Croce, racconto di fatti realmente accaduti. In proposito, è di grande interesse il j’accuse che un seguace pur dilettante della musa, e autorevole osservatore di fatti politici come Sergio Romano, ha premesso all’ultima sua raccolta di articoli che affrontano, in modo discorsivo (ben argomentato, anche quando in modo inevitabilmente semplificante e talora anche piuttosto discutibile) alcuni degli innumerevoli tasselli del grande mosaico del passato: quello remoto e quello prossimo, fino al presente che già si offre all’occhio dell’analista. Romano, con acutezza ma con garbo, tira in causa il «mercato della storia», che in nome dell’audience, o di interessi di parte, riduce a un sempre più banalizzante e spesso esiziale uso politico del passato le grandi questioni storiografiche. La cosa più bizzarra della interessante prefazione di Romano è che proprio il suo giornale, il Corriere della Sera, è il capofila di questo uso (talora abuso): meritoriamente il quotidiano di via Solferino si dedica a temi di storia, ma meno meritoriamente spesso essi sono affrontati nel modo a dir poco discutibile cui il suo collaboratore fa cenno. Il resto del libro è costituito da disparati interventi che spaziano dall’incontro-scontro tra Levante e Ponente alla «dittatura dell’inglese», dalla Russia prima e dopo le sue tante rivoluzioni, all’Europa che troppo difficoltosamente costruisce la sua unità non solo formale, dal fascismo alla Democrazia cristiana... Una lunga carrellata di brevi racconti, quasi un nonno davanti al camino che intrattiene simpaticamente i suoi nipoti. Tutt’altro andamento e spirito ha un libro apparentemente analogo di Piero Melograni: ma fin dal titolo si intuisce che la piacevole conversazione si rivela dogma assertorio, la bonomia comprensiva si rovescia in arcigna requisitoria e lo spirito di intrattenimento diviene missione ideologica. La tesi di Melograni, uno storico (ex comunista) prestato alla politica (fu tra i primi «professori» berlusconiani), per poi ripiegare su un generico ideologismo a fianco del centrodestra, è che la storia non insegna nulla e non si ripete mai (e fin qui siamo d’accordo); ma, per sovrammercato, egli sostiene che molte delle cose che abbiamo letto, ascoltato e imparato sono false; e insinua che dietro c’è una mano invisibile - sostanzialmente la mano mostruosa dell’«Egemonia» dei comunisti - che ha fabbricato le «bugie», di cui egli, ora, con questo centinaio di paginette, vorrebbe smascherare. E ne scopriamo delle belle: tra banalità e affermazioni indimostrate (perché indimostrabili: per tutte l’«ipotesi» che attribuisce in qualche modo a Lenin l’assassinio di Rosa Luxemburg...), il libro è davvero un eccezionale campionario: non delle pretese «bugie della storia», ma piuttosto delle idiosincrasie e delle umoralità dell’autore, al quale - ricordando che in anni ormai lontani ha dato contributi di rilievo alla ricerca autentica - sia permesso dire che non con il «rovescismo», ossia la pratica deliberata volta a rovesciare quanto la storiografia ha fin qui acquisito, non con le insinuazioni e i «probabilmente» (parola ricorrente nel libro, non a caso), si arriva alle «verità della storia». Bensì con il paziente lavoro di scavo, volto a portare alla luce i materiali su cui poi si possono costruire ipotesi di lavoro, da corroborare ed eventualmente correggere, e «revisionare», sulla base soltanto del perfezionamento delle tecniche di indagine e, soprattutto, di prove.
In ogni requisitoria, come in ogni arringa difensiva, ciò che conta sono innanzitutto le «prove». In storiografia, si chiamano «documenti». «Tutto il resto è noia», canta qualcuno; tutto il resto è chiacchiera, direi; e, come in questo caso, pure indigesta.
La Storia è andata al mercato
Le case editrici sfornano di continuo titoli sul passato, in particolare sul ‘900, perché vendono bene anche quando sono scritti da autori dilettanti e poco documentati È il «j’accuse» di Romano, che condanna il primato dell’audience sui fatti, mentre Melograni mette in guardia dalle falsità che abbiamo imparato sui banchi di scuola
di Angelo d’Orsi
Sergio Romano, I giudizi della storia, Rizzoli, pp. 520, e19
Piero Melograni, Le bugie della storia, Mondadori, pp. 125, e15
LA storia tira. Ma quale storia? Quella opinionistica dell’intrattenimento televisivo; quella di certi gossip, specialmente estivi, dei quotidiani; quella dei grandi editori che sfornano volumi e intere collezioni di libri, facili quanto scientificamente periclitanti, sui momenti più drammatici della vicenda umana, specie del secolo di Auschwitz e Hiroshima; quella dei giornalisti che si improvvisano cultori di Clio, la musa della storia, una disciplina che, da Erodoto a noi, ha come compito non il «dibattito», ma la ricostruzione degli eventi. La storia, insomma, per quanto la si possa far rientrare nel dominio della narrazione, è, per dirla con Croce, racconto di fatti realmente accaduti. In proposito, è di grande interesse il j’accuse che un seguace pur dilettante della musa, e autorevole osservatore di fatti politici come Sergio Romano, ha premesso all’ultima sua raccolta di articoli che affrontano, in modo discorsivo (ben argomentato, anche quando in modo inevitabilmente semplificante e talora anche piuttosto discutibile) alcuni degli innumerevoli tasselli del grande mosaico del passato: quello remoto e quello prossimo, fino al presente che già si offre all’occhio dell’analista. Romano, con acutezza ma con garbo, tira in causa il «mercato della storia», che in nome dell’audience, o di interessi di parte, riduce a un sempre più banalizzante e spesso esiziale uso politico del passato le grandi questioni storiografiche. La cosa più bizzarra della interessante prefazione di Romano è che proprio il suo giornale, il Corriere della Sera, è il capofila di questo uso (talora abuso): meritoriamente il quotidiano di via Solferino si dedica a temi di storia, ma meno meritoriamente spesso essi sono affrontati nel modo a dir poco discutibile cui il suo collaboratore fa cenno. Il resto del libro è costituito da disparati interventi che spaziano dall’incontro-scontro tra Levante e Ponente alla «dittatura dell’inglese», dalla Russia prima e dopo le sue tante rivoluzioni, all’Europa che troppo difficoltosamente costruisce la sua unità non solo formale, dal fascismo alla Democrazia cristiana... Una lunga carrellata di brevi racconti, quasi un nonno davanti al camino che intrattiene simpaticamente i suoi nipoti. Tutt’altro andamento e spirito ha un libro apparentemente analogo di Piero Melograni: ma fin dal titolo si intuisce che la piacevole conversazione si rivela dogma assertorio, la bonomia comprensiva si rovescia in arcigna requisitoria e lo spirito di intrattenimento diviene missione ideologica. La tesi di Melograni, uno storico (ex comunista) prestato alla politica (fu tra i primi «professori» berlusconiani), per poi ripiegare su un generico ideologismo a fianco del centrodestra, è che la storia non insegna nulla e non si ripete mai (e fin qui siamo d’accordo); ma, per sovrammercato, egli sostiene che molte delle cose che abbiamo letto, ascoltato e imparato sono false; e insinua che dietro c’è una mano invisibile - sostanzialmente la mano mostruosa dell’«Egemonia» dei comunisti - che ha fabbricato le «bugie», di cui egli, ora, con questo centinaio di paginette, vorrebbe smascherare. E ne scopriamo delle belle: tra banalità e affermazioni indimostrate (perché indimostrabili: per tutte l’«ipotesi» che attribuisce in qualche modo a Lenin l’assassinio di Rosa Luxemburg...), il libro è davvero un eccezionale campionario: non delle pretese «bugie della storia», ma piuttosto delle idiosincrasie e delle umoralità dell’autore, al quale - ricordando che in anni ormai lontani ha dato contributi di rilievo alla ricerca autentica - sia permesso dire che non con il «rovescismo», ossia la pratica deliberata volta a rovesciare quanto la storiografia ha fin qui acquisito, non con le insinuazioni e i «probabilmente» (parola ricorrente nel libro, non a caso), si arriva alle «verità della storia». Bensì con il paziente lavoro di scavo, volto a portare alla luce i materiali su cui poi si possono costruire ipotesi di lavoro, da corroborare ed eventualmente correggere, e «revisionare», sulla base soltanto del perfezionamento delle tecniche di indagine e, soprattutto, di prove.
In ogni requisitoria, come in ogni arringa difensiva, ciò che conta sono innanzitutto le «prove». In storiografia, si chiamano «documenti». «Tutto il resto è noia», canta qualcuno; tutto il resto è chiacchiera, direi; e, come in questo caso, pure indigesta.