19.8.06
La Stampa Tuttolibri 19.8.06
Con Edoardo Sanguineti alla riscoperta di un classico del ‘900 Il poeta crepuscolare moriva nell’agosto di novant’anni fa, una breve esistenza sospesa tra sogno e ironia
di Bruno Quaranta
NOVANT’ANNI fa, il 9 agosto, nella torinese via Cibrario, si spegneva la candela gozzaniana. A Torino («...mi sei cara come la fantesca / che m’ha veduto nascere») Gozzano era nato nel 1883. Riposa ad Agliè, dal 1951 nella Chiesa di San Gaudenzio. «Cronista» della traslazione fu Franco Antonicelli: «...il canto di elegia con il quale Gozzano chiuse le porte dell’Ottocento ci arriva ancora con la dolcezza con la quale si cullano i sogni». Sogno e ironia, gli emblemi di una vita breve, trentatré anni appena. La cuna di una testimonianza letteraria assurta via via a classico. Edoardo Sanguineti ha offerto in tal senso un contributo essenziale. Restituendo alla voce crepuscolare - lungamente stipata negli orizzonti angusti - l’autentico tono.
Gozzano scompare il giorno della presa di Gorizia. Lui che, in «Pioggia d’agosto», lamenta: «La Patria? Dio? L’Umanità? Parole / che i retori t’han fatto nauseose!...». Una coincidenza bizzarra... «Eppure l’ultimo Gozzano subisce una sorta di conversione sventurata, lui così consapevole dell’inautenticità dannunziana. Di fronte alla guerra di Libia e, in seguito, alla Grande Guerra, si delinea la resa. Già nel ‘13, su La Stampa, confessava: “Io ho trovato la Patria, una cosa come un’altra, alla quale voler bene”. No, non solo gli spiriti programmaticamente guerrieri come i futuristi indossano l’elmetto e scendono in trincea. L’unico a resistere sarà Palazzeschi. Si opporrà al nazionalismo interventista di Papini e Soffici su Lacerba, 1914: “Io oggi sono pacifista”».
Gozzano, dirà Montale, pregò Dio perché lo liberasse dalla «lue dannunziana». Salvando se stesso, salverà chi lo seguirà, Montale in primis... E’ questo il suo principale merito?
«Così Montale legge Gozzano. Dopo “quella cosa vivente” che ha sbrecciato con l’ironia la mitologia dannunziana è finalmente possibile abbassare i toni, voltare le spalle alla retorica. Ecco Eusebio canzonare, negli Ossi, nei “Limoni”, la poesia che li inaugura, i poeti laureati, cinti d’alloro, “l’alloro premio di colui / che tra clangor di buccine s’esalta” nella “Signorina Felicita”, memore di Alcyone ».
L’altro autore di Montale è, allora, Svevo...
«E non a caso. Gozzano e Svevo, lì a rappresentare la mitologia dell’inetto, dell’inettitudine. Fra “l’’imbecillità’ dei personaggi di Svevo” e lo sguardo impietoso verso se stesso che è Totò Merúmeni: “Gelido, consapevole di sé e dei suoi torti, / non è cattivo. E’ il buono che derideva il Nietzsche: ... in verità derido l’inetto che si dice / buono, perché non ha l’ugne abbastanza forti...”». La poesia, l’officina poetica, come sconfitta sul piano della vitalità e come privilegio, e orgoglio».
Montale che spugneggia Gozzano: la «muraglia che ha in cima cocci aguzzi di bottiglia» di «Meriggiare» evocante «i cocci innumeri di vetro sulla cima vetusta» della «Signorina Felicita»... C’è una linea gozzaniana nella poesia nostrana, fino ad oggi?
«Non mancano, oggi, tracce crepuscolari. Quel prosaismo corredato di ambizioni liriche e emotive... Lo si può riconoscere in un certo Erba, in un certo Giudici, in un certo Raboni».
C’è un nesso fra le formiche rosse e nere di Gozzano e i chierici rossi e neri di Montale? Un rifiuto di questi e di quelli, dalla parte di coloro che prezzolinianamente «non la bevono»?
«Siamo cauti. Vi sono connessioni verbali tanto seduttive quanto esposte al cortocircuito. Ma scorgere in Gozzano e in Montale la divisa dell’impartecipazione, la vocazione a far parte per se stessi, non è scorretto».
Una nota della poesia di Gozzano è la «perplessità». «Ma ti levasti quasi ribelle / alla perplessità crepuscolare»...Nella «perplessità» sta la sua modernità?
«Il crepuscolo è sia l’ora in cui scemano le luci, sia il momento in cui le luci sorgono, l’aurora, l’alba. Poeticamente, Gozzano è l’interprete di una forma tradizionale (è, cioè, ligio ai modi antiqui), ma non chiusa, anzi, permeata di una critica sottilmente, inesorabilmente eversiva».
Un’altra caratteristica: l’ansia di tutto preservare, il «ciarpame reietto, così caro alla mia Musa!». Che cosa sospinge Gozzano a farsi «rigattiere»?
«Gozzano fabbrica l’obsoleto, traveste di tempo - ha un sentimento forte del tempo, espressione peraltro non gozzaniana - le cose e le anime (Carlotta, il nome che «come l’essenze» risuscita le diligenze, lo scialle, la crinolina). Il tempo a cui tende è morto, è tappezzato di illusioni morte. “Ma lasciatemi sognare!” è il verso che suggella La via del rifugio. Il sogno che vince la volgare e scipita realtà. La vera vita è altrove, direbbe Rimbaud. Il viaggio in India, verso le città morte, non è un a sé».
Il classico Gozzano a colloquio con i classici. Dante, Petrarca, Leopardi, Tasso sono i suoi maggiori... Chi più maggiore di altri?
«Statisticamente, Dante e Petrarca. Ancorché non li conosca benissimo. Li approfondirà e li assoggetterà a non ortodosse operazioni di straniamento. Scrollatesi di dosso le liturgie dannunziane, si volgerà “liberamente” ai Padri. Prende Dante in contropiede, non lo cita per alzare lo stile, tende invece al ribasso. E così Petrarca, convocato in Totò Merúmeni: “... non ricco, giunta l’ora di ‘vender parolette’ / (il suo Petrarca!...) e farsi baratto o gazzettiere...”».
Lei, in Luigi Vigliani, professore al liceo D’Azeglio, è solito ricordare «il primo maestro nello studio della poesia di Gozzano». Che cosa l’ha condotta da Nonna Speranza?
«E’ una storia inedita. Anni Cinquanta. L’associazione ex allievi del D’Azeglio mi chiede di tenere una conferenza. Propongo, come tema, Montale. I più anziani, in testa Vigliani, figura estremamente intelligente, ironica, un conservatore illuminato, mi sospingono a variare. Montale, che è Montale, è vivo, gli difetterebbe dunque un’aura sacrale... Vigliani mi suggerisce Gozzano. E io lo accontento non rinunciando all’originale intenzione. “Da Gozzano a Montale” andrò. Giovanni Getto, di cui ero diventato allievo, accoglierà il testo in Letture italiane».
Gozzano e Torino: un rapporto - lei ha osservato - tra «consenso patetico e critico distacco». O forse qualcosa di più acre? Gozzano non è forse un «ordigno» borghese che mette a nudo l’anima borghese, beota, pettegola, bigotta?
«Gozzano non è il celebratore di Torino. Non incensa né la città che sale di boccioniana memoria né la città del silenzio, una specie di reliquiario. Le riserva ora un’affettuosa ironia ora un robusto risentimento. Rivelandosi, infine per ragioni pubbliche, più distensivo, più affabile, nella prosa». Gozzano oppone alla città, che lo «nausea grandemente», come scrive a Ettore Colla, la «serenità canavesana»: Agliè, il Meleto, Villa Amarena... Che cosa c’è di nobilmente «provinciale» in lui? «Gozzano era naturalmente intonato al costume provinciale, sorretto anche da una vivida curiosità sociologica, si pensi ai tipi sbalzati nella “Signorina Felicita”: il farmacista, il regio notaio, il dottore, il sindaco... Dalla città non esita a distanziarsi. La proda canavesana è una stazione dell’esotismo che lo contraddistingue». Torino è la città che, attraverso Debenedetti, svelerà Proust all’Italia colta. Sotto la Mole, Gozzano non svetta forse come un proustiano ante litteram? «Il lato proustiano di Gozzano è l’esperienza infantile, dominante. Già accostando la Vita alfieriana, i primi passi, vien da domandarsi: siamo di fronte a Proust o a Freud?».
Egualmente proustiana l’esperienza della malattia. Gozzano è tisico come Gian Pietro Lucini, l’autore di «Revolverate e nuove revolverate», un’ulteriore sua passione. Che cosa li accomuna?
«Lucini non amava Gozzano. Lo leggeva alla maniera dei più, come il cantore delle buone cose di pessimo gusto. E poi: a differenza dell’ironico Gozzano, aveva un passo satirico».
Lo scritto di Debenedetti su Proust appare sul «Baretti». La Torino civile, da Gobetti a Bobbio, relegherà Gozzano in una dimensione gianduiesca («A l’è questiôn d’nen piessla..» come manifesto del disimpegno, dell’indifferenza).
«Gozzano, è innegabile, non “sente” la rivoluzione industriale, manco lo sfiorano le questioni ad essa legate. Si muove fuori del mondo. Chi è artefice o epigono della città laboratorio ovviamente lo avverte. Diverso, insulso, sarebbe ridurre Gozzano a una macchietta».
Chi lo capta è Leone Ginzburg. In una lettera a Carlo Muscetta esclamerà: «Ritengo “Lavorare stanca” il più bel libro di versi uscito in Italia a rivelare un poeta nuovo dopo “La via del rifugio”»...
«Ginzburg, nella Torino “civile”, risalta quale letterato totale. Credo che l’accostamento fra Lavorare stanca e La via del rifugio lo faccia in special modo per mettere in rilievo le poesie di Pavese, secondo me la sua opera più riuscita. Quindi per sottolineare la peculiarità e la robustezza della linea piemontese».
A proposito di Proust: dirà che «i versi sono la carne delle idee». Quali le «idee» del canzoniere gozzaniano?
«Il canzoniere. Gozzano ambiva scriverlo. E un libro compatto, unius libri, lo ha scritto. Voleva essere il riassunto di una vita. La vedeva piuttosto nel suo divenire, sfuggendogli la formula finale. L’”idea”? Approdare alla natura per paura della storia. Lui che sta supino nel trifoglio...».
La Stampa Tuttolibri 19.8.06
Richard Sennett: il bisogno di autorità è primario, dal potere ci si emancipa con un discorso sempre aperto sulla sua legittimità
di Ermanno Bencivenga
AUTORITÀ» di Richard Sennett ha il respiro e le suggestioni di un’altra èra: di quando la critica sociale faceva parte della sociologia e gli psicologi parlavano di esigenze e tattiche liberatorie. L’èra di Erving Goffman e R. D. Laing, e di quanti riuscivano a discutere con serenità dei gravi errori del comunismo invece di usarlo brutalmente come una parolaccia. Pubblicato nel 1980, doveva essere il primo di quattro saggi sui legami emotivi presenti nella società moderna; gli altri testi avrebbero dovuto occuparsi della solitudine, della fratellanza e del rituale. Il progetto non fu completato, per motivi che non conosco. Ma non posso non riflettere sul significato simbolico di quell’anno, in cui su tante speranze forse folli ma umane e appassionate sembrò calare per sempre la notte. Nel 1980 morirono Sartre, Hitchcock e John Lennon, e il fallimento spettacolare de I cancelli del cielo chiuse l’ultima grande stagione del cinema hollywoodiano; in novembre fu eletto Reagan. Il futuro possibile suggerito dall’utopia moderata di Sennett diventò a un tratto un patetico passato. L’idea centrale del libro è ambiziosa e controversa. Si tratta di studiare prima il ruolo ambiguo e ambivalente dell’autorità nella psiche individuale e poi di illuminare con i risultati così conseguiti un percorso politico. «Il bisogno di autorità è primario» afferma Sennett, e limitarsi alla ribellione, al rifiuto o a una «fantasia di scomparsa» ha l’effetto di vincolare ancora più strettamente chi ne è soggetto. «Il solo atto di disobbedire unisce le persone». Una perversa mescolanza di astio e complicità fra dominante e dominato copre l’intero spettro delle manifestazioni del potere nel mondo contemporaneo: da un paternalismo in cui il leader dichiara di prendersi cura dei suoi sudditi o dipendenti, negandone la dignità di esseri umani adulti e causando spesso in loro un’«ingiustificata» aggressività, all’indifferenza burocratica di chi scarica ogni responsabilità su regole e strutture impersonali e si fa velo dell’astratto riferimento a tali regole e strutture mentre manipola con sublime efficacia la vita di chiunque cada sotto il suo controllo. Come uscire da questo circolo vizioso e incestuoso? «La crisi che spinge a rinunciare all’onnipotenza dell’autorità ha una struttura definita. Innanzitutto c’è il distacco dall’influenza dell’autorità. Quindi segue una domanda riflessiva: che cos’ero sotto l’influenza dell’autorità?». Infine, «quando abbiamo imparato a sottrarci alla sfera dell’autorità possiamo rientrarci, con il senso dei suoi limiti e la consapevolezza del modo in cui i comandi e l’obbedienza potrebbero essere trasformati conformemente ai nostri bisogni reali di protezione e di rassicurazione». Senza l’iniziale «sganciamento» non si uscirà dall’ambito del pio desiderio e senza l’esplorazione cosciente del nostro e dell’altrui ruolo non si farà che dare strattoni a una corda i cui nodi stringono sempre più forte; compiute queste due fasi, si comprenderà che dal potere non ci si libera con un singolo atto radicale ma con un’interminabile contestazione, un discorso sempre aperto sulla sua legittimità, sul suo significato e sui suoi confini. I principali strumenti di cui Sennett si serve per arrivare a tali conclusioni sono la coscienza infelice di Hegel e la lettera al padre di Kafka; né l’una né l’altra, però, danno indicazioni su come andare al di là di «uno scenario intimo». Per estendere a una dimensione pubblica le strategie con cui si esorcizzano i fantasmi personali e familiari, Sennett deve esporsi in proprio; e lo fa, con modesto coraggio, nel penultimo capitolo, dove propone cinque modi non tanto di spezzare la «catena del comando» quanto piuttosto di sottoporla a una costante analisi critica. Il primo e più radicale consiste nell’esigere l’uso della forma attiva, nel richiedere che si dica «Il tale ha deciso» invece di «È stato deciso»; seguono l’uso di categorie non rigide, la disponibilità a delegare il potere finalizzandolo al conseguimento di obiettivi specifici, lo scambio di ruolo e il negoziato diretto sulla cura di cui gli individui hanno bisogno. Per queste (e, certo, altre) vie l’autorità può essere resa visibile e leggibile, e non provocare più quella paura che associamo al mistero e all’ignoto. È infantile pensare che il processo sia realizzabile una volta per tutte, con risultati definitivi. «Il dominio è una malattia necessaria di cui soffre l’organismo sociale. Non c’è modo di guarire la malattia; possiamo soltanto combatterla. L’anarchismo moderno dovrebbe essere concepito come un disordine intenzionale introdotto dentro l’edificio del potere; è questo il difficile, scomodo e spesso amaro compito della democrazia». Un compito del quale, nell’ultimo quarto di secolo, sembriamo esserci dimenticati. Richard Sennett
Autorità, prefaz. di Ota de Leonardis trad. di S. d’Alessandro Bruno Mondadori pp. XXII-181, e18
Con Edoardo Sanguineti alla riscoperta di un classico del ‘900 Il poeta crepuscolare moriva nell’agosto di novant’anni fa, una breve esistenza sospesa tra sogno e ironia
di Bruno Quaranta
NOVANT’ANNI fa, il 9 agosto, nella torinese via Cibrario, si spegneva la candela gozzaniana. A Torino («...mi sei cara come la fantesca / che m’ha veduto nascere») Gozzano era nato nel 1883. Riposa ad Agliè, dal 1951 nella Chiesa di San Gaudenzio. «Cronista» della traslazione fu Franco Antonicelli: «...il canto di elegia con il quale Gozzano chiuse le porte dell’Ottocento ci arriva ancora con la dolcezza con la quale si cullano i sogni». Sogno e ironia, gli emblemi di una vita breve, trentatré anni appena. La cuna di una testimonianza letteraria assurta via via a classico. Edoardo Sanguineti ha offerto in tal senso un contributo essenziale. Restituendo alla voce crepuscolare - lungamente stipata negli orizzonti angusti - l’autentico tono.
Gozzano scompare il giorno della presa di Gorizia. Lui che, in «Pioggia d’agosto», lamenta: «La Patria? Dio? L’Umanità? Parole / che i retori t’han fatto nauseose!...». Una coincidenza bizzarra... «Eppure l’ultimo Gozzano subisce una sorta di conversione sventurata, lui così consapevole dell’inautenticità dannunziana. Di fronte alla guerra di Libia e, in seguito, alla Grande Guerra, si delinea la resa. Già nel ‘13, su La Stampa, confessava: “Io ho trovato la Patria, una cosa come un’altra, alla quale voler bene”. No, non solo gli spiriti programmaticamente guerrieri come i futuristi indossano l’elmetto e scendono in trincea. L’unico a resistere sarà Palazzeschi. Si opporrà al nazionalismo interventista di Papini e Soffici su Lacerba, 1914: “Io oggi sono pacifista”».
Gozzano, dirà Montale, pregò Dio perché lo liberasse dalla «lue dannunziana». Salvando se stesso, salverà chi lo seguirà, Montale in primis... E’ questo il suo principale merito?
«Così Montale legge Gozzano. Dopo “quella cosa vivente” che ha sbrecciato con l’ironia la mitologia dannunziana è finalmente possibile abbassare i toni, voltare le spalle alla retorica. Ecco Eusebio canzonare, negli Ossi, nei “Limoni”, la poesia che li inaugura, i poeti laureati, cinti d’alloro, “l’alloro premio di colui / che tra clangor di buccine s’esalta” nella “Signorina Felicita”, memore di Alcyone ».
L’altro autore di Montale è, allora, Svevo...
«E non a caso. Gozzano e Svevo, lì a rappresentare la mitologia dell’inetto, dell’inettitudine. Fra “l’’imbecillità’ dei personaggi di Svevo” e lo sguardo impietoso verso se stesso che è Totò Merúmeni: “Gelido, consapevole di sé e dei suoi torti, / non è cattivo. E’ il buono che derideva il Nietzsche: ... in verità derido l’inetto che si dice / buono, perché non ha l’ugne abbastanza forti...”». La poesia, l’officina poetica, come sconfitta sul piano della vitalità e come privilegio, e orgoglio».
Montale che spugneggia Gozzano: la «muraglia che ha in cima cocci aguzzi di bottiglia» di «Meriggiare» evocante «i cocci innumeri di vetro sulla cima vetusta» della «Signorina Felicita»... C’è una linea gozzaniana nella poesia nostrana, fino ad oggi?
«Non mancano, oggi, tracce crepuscolari. Quel prosaismo corredato di ambizioni liriche e emotive... Lo si può riconoscere in un certo Erba, in un certo Giudici, in un certo Raboni».
C’è un nesso fra le formiche rosse e nere di Gozzano e i chierici rossi e neri di Montale? Un rifiuto di questi e di quelli, dalla parte di coloro che prezzolinianamente «non la bevono»?
«Siamo cauti. Vi sono connessioni verbali tanto seduttive quanto esposte al cortocircuito. Ma scorgere in Gozzano e in Montale la divisa dell’impartecipazione, la vocazione a far parte per se stessi, non è scorretto».
Una nota della poesia di Gozzano è la «perplessità». «Ma ti levasti quasi ribelle / alla perplessità crepuscolare»...Nella «perplessità» sta la sua modernità?
«Il crepuscolo è sia l’ora in cui scemano le luci, sia il momento in cui le luci sorgono, l’aurora, l’alba. Poeticamente, Gozzano è l’interprete di una forma tradizionale (è, cioè, ligio ai modi antiqui), ma non chiusa, anzi, permeata di una critica sottilmente, inesorabilmente eversiva».
Un’altra caratteristica: l’ansia di tutto preservare, il «ciarpame reietto, così caro alla mia Musa!». Che cosa sospinge Gozzano a farsi «rigattiere»?
«Gozzano fabbrica l’obsoleto, traveste di tempo - ha un sentimento forte del tempo, espressione peraltro non gozzaniana - le cose e le anime (Carlotta, il nome che «come l’essenze» risuscita le diligenze, lo scialle, la crinolina). Il tempo a cui tende è morto, è tappezzato di illusioni morte. “Ma lasciatemi sognare!” è il verso che suggella La via del rifugio. Il sogno che vince la volgare e scipita realtà. La vera vita è altrove, direbbe Rimbaud. Il viaggio in India, verso le città morte, non è un a sé».
Il classico Gozzano a colloquio con i classici. Dante, Petrarca, Leopardi, Tasso sono i suoi maggiori... Chi più maggiore di altri?
«Statisticamente, Dante e Petrarca. Ancorché non li conosca benissimo. Li approfondirà e li assoggetterà a non ortodosse operazioni di straniamento. Scrollatesi di dosso le liturgie dannunziane, si volgerà “liberamente” ai Padri. Prende Dante in contropiede, non lo cita per alzare lo stile, tende invece al ribasso. E così Petrarca, convocato in Totò Merúmeni: “... non ricco, giunta l’ora di ‘vender parolette’ / (il suo Petrarca!...) e farsi baratto o gazzettiere...”».
Lei, in Luigi Vigliani, professore al liceo D’Azeglio, è solito ricordare «il primo maestro nello studio della poesia di Gozzano». Che cosa l’ha condotta da Nonna Speranza?
«E’ una storia inedita. Anni Cinquanta. L’associazione ex allievi del D’Azeglio mi chiede di tenere una conferenza. Propongo, come tema, Montale. I più anziani, in testa Vigliani, figura estremamente intelligente, ironica, un conservatore illuminato, mi sospingono a variare. Montale, che è Montale, è vivo, gli difetterebbe dunque un’aura sacrale... Vigliani mi suggerisce Gozzano. E io lo accontento non rinunciando all’originale intenzione. “Da Gozzano a Montale” andrò. Giovanni Getto, di cui ero diventato allievo, accoglierà il testo in Letture italiane».
Gozzano e Torino: un rapporto - lei ha osservato - tra «consenso patetico e critico distacco». O forse qualcosa di più acre? Gozzano non è forse un «ordigno» borghese che mette a nudo l’anima borghese, beota, pettegola, bigotta?
«Gozzano non è il celebratore di Torino. Non incensa né la città che sale di boccioniana memoria né la città del silenzio, una specie di reliquiario. Le riserva ora un’affettuosa ironia ora un robusto risentimento. Rivelandosi, infine per ragioni pubbliche, più distensivo, più affabile, nella prosa». Gozzano oppone alla città, che lo «nausea grandemente», come scrive a Ettore Colla, la «serenità canavesana»: Agliè, il Meleto, Villa Amarena... Che cosa c’è di nobilmente «provinciale» in lui? «Gozzano era naturalmente intonato al costume provinciale, sorretto anche da una vivida curiosità sociologica, si pensi ai tipi sbalzati nella “Signorina Felicita”: il farmacista, il regio notaio, il dottore, il sindaco... Dalla città non esita a distanziarsi. La proda canavesana è una stazione dell’esotismo che lo contraddistingue». Torino è la città che, attraverso Debenedetti, svelerà Proust all’Italia colta. Sotto la Mole, Gozzano non svetta forse come un proustiano ante litteram? «Il lato proustiano di Gozzano è l’esperienza infantile, dominante. Già accostando la Vita alfieriana, i primi passi, vien da domandarsi: siamo di fronte a Proust o a Freud?».
Egualmente proustiana l’esperienza della malattia. Gozzano è tisico come Gian Pietro Lucini, l’autore di «Revolverate e nuove revolverate», un’ulteriore sua passione. Che cosa li accomuna?
«Lucini non amava Gozzano. Lo leggeva alla maniera dei più, come il cantore delle buone cose di pessimo gusto. E poi: a differenza dell’ironico Gozzano, aveva un passo satirico».
Lo scritto di Debenedetti su Proust appare sul «Baretti». La Torino civile, da Gobetti a Bobbio, relegherà Gozzano in una dimensione gianduiesca («A l’è questiôn d’nen piessla..» come manifesto del disimpegno, dell’indifferenza).
«Gozzano, è innegabile, non “sente” la rivoluzione industriale, manco lo sfiorano le questioni ad essa legate. Si muove fuori del mondo. Chi è artefice o epigono della città laboratorio ovviamente lo avverte. Diverso, insulso, sarebbe ridurre Gozzano a una macchietta».
Chi lo capta è Leone Ginzburg. In una lettera a Carlo Muscetta esclamerà: «Ritengo “Lavorare stanca” il più bel libro di versi uscito in Italia a rivelare un poeta nuovo dopo “La via del rifugio”»...
«Ginzburg, nella Torino “civile”, risalta quale letterato totale. Credo che l’accostamento fra Lavorare stanca e La via del rifugio lo faccia in special modo per mettere in rilievo le poesie di Pavese, secondo me la sua opera più riuscita. Quindi per sottolineare la peculiarità e la robustezza della linea piemontese».
A proposito di Proust: dirà che «i versi sono la carne delle idee». Quali le «idee» del canzoniere gozzaniano?
«Il canzoniere. Gozzano ambiva scriverlo. E un libro compatto, unius libri, lo ha scritto. Voleva essere il riassunto di una vita. La vedeva piuttosto nel suo divenire, sfuggendogli la formula finale. L’”idea”? Approdare alla natura per paura della storia. Lui che sta supino nel trifoglio...».
La Stampa Tuttolibri 19.8.06
Richard Sennett: il bisogno di autorità è primario, dal potere ci si emancipa con un discorso sempre aperto sulla sua legittimità
di Ermanno Bencivenga
AUTORITÀ» di Richard Sennett ha il respiro e le suggestioni di un’altra èra: di quando la critica sociale faceva parte della sociologia e gli psicologi parlavano di esigenze e tattiche liberatorie. L’èra di Erving Goffman e R. D. Laing, e di quanti riuscivano a discutere con serenità dei gravi errori del comunismo invece di usarlo brutalmente come una parolaccia. Pubblicato nel 1980, doveva essere il primo di quattro saggi sui legami emotivi presenti nella società moderna; gli altri testi avrebbero dovuto occuparsi della solitudine, della fratellanza e del rituale. Il progetto non fu completato, per motivi che non conosco. Ma non posso non riflettere sul significato simbolico di quell’anno, in cui su tante speranze forse folli ma umane e appassionate sembrò calare per sempre la notte. Nel 1980 morirono Sartre, Hitchcock e John Lennon, e il fallimento spettacolare de I cancelli del cielo chiuse l’ultima grande stagione del cinema hollywoodiano; in novembre fu eletto Reagan. Il futuro possibile suggerito dall’utopia moderata di Sennett diventò a un tratto un patetico passato. L’idea centrale del libro è ambiziosa e controversa. Si tratta di studiare prima il ruolo ambiguo e ambivalente dell’autorità nella psiche individuale e poi di illuminare con i risultati così conseguiti un percorso politico. «Il bisogno di autorità è primario» afferma Sennett, e limitarsi alla ribellione, al rifiuto o a una «fantasia di scomparsa» ha l’effetto di vincolare ancora più strettamente chi ne è soggetto. «Il solo atto di disobbedire unisce le persone». Una perversa mescolanza di astio e complicità fra dominante e dominato copre l’intero spettro delle manifestazioni del potere nel mondo contemporaneo: da un paternalismo in cui il leader dichiara di prendersi cura dei suoi sudditi o dipendenti, negandone la dignità di esseri umani adulti e causando spesso in loro un’«ingiustificata» aggressività, all’indifferenza burocratica di chi scarica ogni responsabilità su regole e strutture impersonali e si fa velo dell’astratto riferimento a tali regole e strutture mentre manipola con sublime efficacia la vita di chiunque cada sotto il suo controllo. Come uscire da questo circolo vizioso e incestuoso? «La crisi che spinge a rinunciare all’onnipotenza dell’autorità ha una struttura definita. Innanzitutto c’è il distacco dall’influenza dell’autorità. Quindi segue una domanda riflessiva: che cos’ero sotto l’influenza dell’autorità?». Infine, «quando abbiamo imparato a sottrarci alla sfera dell’autorità possiamo rientrarci, con il senso dei suoi limiti e la consapevolezza del modo in cui i comandi e l’obbedienza potrebbero essere trasformati conformemente ai nostri bisogni reali di protezione e di rassicurazione». Senza l’iniziale «sganciamento» non si uscirà dall’ambito del pio desiderio e senza l’esplorazione cosciente del nostro e dell’altrui ruolo non si farà che dare strattoni a una corda i cui nodi stringono sempre più forte; compiute queste due fasi, si comprenderà che dal potere non ci si libera con un singolo atto radicale ma con un’interminabile contestazione, un discorso sempre aperto sulla sua legittimità, sul suo significato e sui suoi confini. I principali strumenti di cui Sennett si serve per arrivare a tali conclusioni sono la coscienza infelice di Hegel e la lettera al padre di Kafka; né l’una né l’altra, però, danno indicazioni su come andare al di là di «uno scenario intimo». Per estendere a una dimensione pubblica le strategie con cui si esorcizzano i fantasmi personali e familiari, Sennett deve esporsi in proprio; e lo fa, con modesto coraggio, nel penultimo capitolo, dove propone cinque modi non tanto di spezzare la «catena del comando» quanto piuttosto di sottoporla a una costante analisi critica. Il primo e più radicale consiste nell’esigere l’uso della forma attiva, nel richiedere che si dica «Il tale ha deciso» invece di «È stato deciso»; seguono l’uso di categorie non rigide, la disponibilità a delegare il potere finalizzandolo al conseguimento di obiettivi specifici, lo scambio di ruolo e il negoziato diretto sulla cura di cui gli individui hanno bisogno. Per queste (e, certo, altre) vie l’autorità può essere resa visibile e leggibile, e non provocare più quella paura che associamo al mistero e all’ignoto. È infantile pensare che il processo sia realizzabile una volta per tutte, con risultati definitivi. «Il dominio è una malattia necessaria di cui soffre l’organismo sociale. Non c’è modo di guarire la malattia; possiamo soltanto combatterla. L’anarchismo moderno dovrebbe essere concepito come un disordine intenzionale introdotto dentro l’edificio del potere; è questo il difficile, scomodo e spesso amaro compito della democrazia». Un compito del quale, nell’ultimo quarto di secolo, sembriamo esserci dimenticati. Richard Sennett
Autorità, prefaz. di Ota de Leonardis trad. di S. d’Alessandro Bruno Mondadori pp. XXII-181, e18