29.8.06

 
La Repubblica 29.8.06 Prima pagina
La discussione
Il socialismo è morto la sinistra no
di ANTHONY GIDDENS


Il secolo post-socialista
Quell'idea è morta nell'89, ma i valori della sinistra sopravvivono

Oggi non ha senso definire antioperaia la politica di liberalizzazione del mercato del lavoro. E non è di destra tentare di dare risposte efficaci al terrorismo
Il filone rivoluzionario è scomparso senza lasciare traccia, quello riformista si rivela ormai inadeguato
Sono favorevole alla creazione di un partito unificato della sinistra in Italia. Non so se sarà possibile, ma credo che il post-socialismo debba essere più ecumenico

Il socialismo è morto. La data precisa del decesso è nota – il 1989 – ma già da tempo la sua salute era malferma. Per tutta la durata della sua storia il termine stesso di «socialismo» è stato conteso e rivendicato da gruppi politici d´ogni sorta, dai comunisti agli anticomunisti. La storia della sinistra è costellata di infinite dispute sul suo significato. In passato, la principale linea di demarcazione passava tra la sinistra rivoluzionaria e quella riformista.
La prima non credeva nella possibilità di una trasformazione della società attraverso i metodi parlamentari. In tempi relativamente recenti, il libro di Ralph Miliband Socialismo parlamentare è stato considerato un testo chiave, largamente adottato dalle università in molte parti del mondo. Secondo le tesi di Miliband, una società socialista non avrebbe potuto nascere attraverso una vittoria elettorale, ma solo per vie extraparlamentari, dato che i socialisti dovevano trasformare lo Stato in quanto tale. Altri esponenti della linea rivoluzionaria, di tradizione sia leninista che trotzkista, mantenevano però un atteggiamento meno categorico di quello di Ralph Miliband nei confronti della «democrazia borghese».
Per converso, e a partire dall´opera di Eduard Bernstein, il socialismo riformista si era proposto di conseguire il cambiamento sociale passando per il parlamento e per la democrazia elettorale. Quasi tutte le attuali formazioni di centro-sinistra hanno origine da figure fondatrici della stessa area. Una delle maggiori ironie della storia è il fatto che il socialismo rivoluzionario, determinato a trasformare profondamente il mondo e apparentemente impegnato in quest´opera per mezzo secolo, è scomparso quasi senza lasciare traccia.
Ormai continua ad esistere solo in regimi che hanno dimostrato di non avere un futuro, come quello cubano, o sopravvive come una flebile eco in paesi quali la Cina o il Vietnam.
La stessa idea di un superamento del capitalismo attraverso una rivoluzione politica laica è quasi del tutto scomparsa. La sinistra estrema di oggi si definisce solo in termini di contrapposizione - a volte «anti-capitalista», ma più spesso «no global». Se si eccettua l´Islam radicale, i rivoluzionari in politica ormai non esistono più. Perché l´idea centrale che ha fatto da propulsore al socialismo rivoluzionario, la nozione alla base della definizione stessa del socialismo - l´idea cioè che un´economia controllata e rispondente ai bisogni umani possa sostituirsi ai meccanismi dei prezzi e del profitto - una volta messa alla prova, è fallita dovunque. Era un´idea sbagliata.
Il socialismo riformista ha creduto in un´economia mista. Ha ritenuto possibile imbrigliare le irrazionalità del capitalismo riservando allo Stato un ruolo parziale nella vita economica. I «settori chiave» dell´economia - quali i trasporti, le comunicazioni, l´industria siderurgica, il carbone e l´energia elettrica - dovevano rimanere sotto il controllo dello Stato. Dopo la seconda guerra mondiale, per vari decenni in Occidente questo «compromesso» era sembrato in grado di funzionare: non però grazie ai meriti del socialismo di per sé, bensì per quelli della teoria economica formulata da un liberale, John Maynard Keynes. Lo Stato ha potuto così esercitare sull´economia un controllo generale regolando la domanda, mentre il welfare forniva una rete di sicurezza quando le cose non andavano per il verso giusto.
Oggi la domanda chiave è se anche questo tipo di socialismo sia morto. La mia risposta è un chiaro sì: non vi sono eccezioni alla netta, inequivoca constatazione con cui ho iniziato quest´articolo. Il più delle volte, lo stato ha dimostrato la sua inadeguatezza nella conduzione diretta delle imprese. D´altra parte, la gestione della domanda in senso keynesiano ormai non è più efficace, e può anzi diventare controproducente nel contesto di un mercato globale.
Cosa rimane dopo la fine del socialismo? O in altri termini, cosa resta della sinistra? (NdT: in inglese la domanda è un bisticcio: what is left of the left?) Ricordo le interminabili discussioni su questi temi ai convegni degli anni ‘90. Le risposte (almeno a mio modo di vedere) sono oggi più chiare di allora. La sinistra è sopravvissuta alla fine del socialismo. Esiste una chiara linea di discendenza dal socialismo riformista agli attuali partiti di centro-sinistra, ma in termini di valori assai più che politici. La sinistra sostiene una serie di valori quali l´egualitarismo, la solidarietà, la tutela dei più vulnerabili, così come la convinzione che l´azione collettiva sia necessaria all´efficace perseguimento di questi obiettivi. Il concetto di «azione collettiva» è riferito non solo al ruolo dello Stato, ma anche a quello di altri organismi della società civile.
Tuttavia oggi la sinistra non può più definirsi semplicemente negli stessi termini del socialismo d´un tempo, come la via per limitare i danni inflitti dai mercati alla vita sociale. Se è vero che il capitalismo ha tuttora bisogno di regole, oggi il compito dei governi è quello di favorire un miglior funzionamento dei mercati, di espandere il loro ruolo, piuttosto che ridurlo. Non ha senso contestare come antioperaia la politica di liberalizzazione del mercato del lavoro, che con ogni ragione il nuovo governo italiano sta tentando di portare avanti. L´attuale compartimentazione del mercato del lavoro in Italia non contribuisce minimamente a promuovere la causa della giustizia sociale, ma rappresenta al contrario uno dei fattori di aumento della disoccupazione, oltre ad aggravare l´insicurezza di chi lavora nei settori informali e non protetti. Nei paesi scandinavi, che in Europa hanno raggiunto il grado più elevato di giustizia sociale, il mercato del lavoro è stato oggetto di riforme radicali.
La sinistra non può più definirsi in contrapposizione alle riforme del welfare. Come ho già ricordato, lo stato sociale è nato come rete di sicurezza, che subentra quando si perde il posto di lavoro, si divorzia, ci si ammala o si invecchia. Alcune di queste funzioni permangono, ma oggi il welfare deve assumere sempre più le caratteristiche di un meccanismo di investimento sociale. In un´era di libertà individuali e di aspirazioni sempre maggiori, dobbiamo investire nelle persone per aiutarle ad aiutarsi da sé. Il sistema scolastico dev´essere riqualificato in maniera radicale per consentirci di affrontare un mondo sempre più competitivo; e occorre inoltre facilitare l´accesso a un´istruzione superiore di alta qualità, e aprire percorsi formativi anche alle fasce di età più avanzata.
La sinistra non può più definirsi nei termini di una concezione classica delle libertà civili. Non è di destra ammettere che la criminalità e il disordine sociale rappresentano un grave problema per molti cittadini. Non è di destra sostenere che l´immigrazione dovrebbe essere controllata, o chiedere agli immigrati di farsi carico di una serie di responsabilità civili, ivi compreso l´obbligo di apprendere la lingua nazionale.
Non è di destra cercare di dare risposte efficaci al terrorismo. Le nuove minacce terroristiche cui le società occidentali devono far fronte non sono paragonabili a quelle dei tempi delle Brigate rosse, o al terrorismo «locale» dell´IRA o dell´ETA. Il terrorismo di tipo nuovo è più globale, e potenzialmente di gran lunga più letale. Il diritto di sentirsi al sicuro dalla violenza terroristica è di per sé una libertà importante, che va ponderata rispetto alle altre. Infine, la sinistra ovviamente non può più definirsi in contrapposizione alla democrazia parlamentare. Il multipartitismo ha i suoi difetti, ma l´alternativa non può essere il cosiddetto «Stato del popolo». La rappresentanza popolare di stampo sovietico si è dimostrata tutt´altro che democratica. Oggi la sinistra deve dare la sua piena adesione al pluralismo, sia in campo politico che nel più ampio contesto sociale.
Sono favorevole all´idea della creazione di un partito unificato della sinistra in Italia. Non se so in pratica ciò sarà possibile: dopo tutto, in passato la sinistra è stata ripetutamente affondata dalle scissioni e divisioni al suo interno. Ma credo che la sinistra post-socialista possa e debba essere più ecumenica di quanto tendesse a esserlo la sinistra radicale. E´ necessario continuare a innovare in politica, per poter essere in grado di portare avanti i valori della sinistra in un mondo di massicce trasformazioni sociali. Ma l´innovazione politica può nascere solo dal libero scambio delle idee, non certo da un chiuso dogmatismo.

(Traduzione di Elisabetta Horvat)

l'Unità 29.8.06 Prima pagina
UNGHERIA
Napolitano: nel '56 sull’invasione aveva ragione Nenni
di Roberto Roscani

«La mia riflessione autocritica sulle posizioni prese dal Pci, e da me condivise, nel 1956 e il suo pubblico riconoscimento da parte mia ad Antonio Giolitti “di aver avuto ragione” valgono anche come pieno e doloroso riconoscimento della validità dei giudizi e delle scelte di Pietro Nenni e di gran parte del Psi in quel cruciale momento». Firmato: Giorgio Napolitano.
Cinque righe secche. Parole come pietre in un messaggio che il capo dello Stato ha inviato a Giuseppe Tamburrano, presidente della Fondazione Nenni. Verranno pubblicate, insieme al capitolo sul ‘56 del libro «Dal Pci al socialismo europeo. Un’autobiografia politica» di Napolitano (edito lo scorso anno da Laterza) in un libro riflessione che la Fondazione farà uscire a fine ottobre.
Perché pesano davvero quelle parole che arrivano mezzo secolo dopo i «fatti d’Ungheria»? Perché dentro c’è una combinazione di consapevolezza politica e di partecipazione umana che non ammette scorciatoie, che impedisce infingimenti, che non chiede scuse ma scusa. Napolitano non ha aspettato certo il 2006 per dire che «Giolitti aveva ragione».
Vent’anni fa aveva già apertamente riconosciuto le ragioni di quel suo amico e compagno che nell’VIII congresso del Pci aveva condannato con grande nettezza l’intervento militare sovietico in Ungheria contro una rivolta popolare definita dall’Urss «controrivoluzione». Eppure nel ‘56 fu proprio Napolitano tra i primi ad attaccare Giolitti al congresso, con parole dure e con una giustificazione dell’intervento militare sovietico come di un elemento di “stabilizzazione internazionale” e addirittura come un contributo alla pace nel mondo. E di questo c’è un aperto riconoscimento accompagnato da una profonda riflessione autocritica nelle pagine della sua autobiografia.
«Mi mosse allora, ritengo, anche un certo zelo conformistico»; ma c’è qualcosa di più, quel terribile errore nasceva dal «concepire il ruolo del Pci come inseparabile dalle sorti del “campo socialista” guidato dall’Urss». Ma in queste righe c’è anche politicamente un passo in più: dare ragione a Giolitti chiudeva infatti una ferita interna al Pci (e d’altra parte la strada di Napolitano e Giolitti si era ricongiunta in mille occasioni sulla scena politica italiana ed europea). Dare ragione a Pietro Nenni e al Psi per le posizioni che avevano assunto nel 1956 significa riconoscere ad un partito della sinistra (i compagni con cui si era costituito il Fronte Popolare) la capacità di aver visto giusto. Per il Psi nenniano quel giudizio fu il primo strappo dall’Urss, fu un passo fondamentale per la costruzione di una «autonomia» dal «campo socialista» e anche dall’ingombrante alleato comunista.
«Per me - spiega Giuseppe Tamburrano - quelle parole hanno un enorme valore. So bene che il Pci del 1956 non avrebbe potuto rompere con Mosca: non ce ne erano le condizioni, il partito si sarebbe lacerato. Ma certo guardando indietro con gli occhi di oggi mi viene da dire: se allora il Pci avesse assunto una posizione meno netta (penso soprattutto alle parole di Togliatti, sprezzanti contro quella che anche nel Pci tutti chiamavano una tragedia), se avesse prevalso Di Vittorio, che ha sempre criticato l’intervento sovietico a reprimere la rivolta popolare ungherese, forse avremmo scritto una storia diversa dell’Italia e della sinistra italiana».
Se... se... Quello del 1956 e dell’Ungheria è uno dei capitoli su cui il Pci e tutti i gruppi dirigenti che lo hanno attraversato, ha più riflettuto. È certamente impossibile ripercorrere quell’anno (dal XX congresso del Pcus con la denuncia chruscioviana dei mali e degli orrori staliniani alla rivolta ungherese sostenuta dal partito comunista di quel paese e soffocata nel sangue degli studenti e degli operai ma anche dei dirigenti comunisti come Imre Nagy e Pál Maléter) senza leggerlo come uno di quegli snodi, di quelle biforcazioni della storia. Quel bivio fu colto da Nenni che riuscì a portare il Psi (dove pure le componenti filosovietiche erano forti, dove nella base era stato salutato con orgoglio il premio Lenin che Stalin consegnò a Nenni) sulla strada che il Pci avrebbe preso compiutamente solo molti anni dopo. «La verità è che vedevamo poco, sentivamo poco le grandi questioni di principio - libertà e democrazia - che erano in gioco nel giudizio sui “fatti d’Ungheria”. O meglio restavamo nel chiuso nelle certezze ideologiche... Molti anni sarebbero dovuti passare perché ci identificassimo pienamente con l’eredità più alta del liberalismo e della democrazia anziché considerare sacrificabili, dove si pretendesse di edificare il socialismo, o meramente formale regole, le garanzie, le procedure della democrazia politica. Lo disse Enrico Berlinguer, ma solo nel 1977»: parole di Giorgio Napolitano.
Ora quello che allora era un giovane dirigente del Pci non si nasconde gli errori e rivendica semmai la strada (la fatica, il dolore, l’impegno) percorsa insieme a tanti altri è presidente della Repubblica. La sua riflessione nelle poche righe inviate alla Fondazione Pietro Nenni (dopo le molte scritte e argomentate da decenni) farà riflettere e discutere, anche perché siamo alla vigilia delle celebrazioni ungheresi a cinquant’anni dalla rivoluzione del ‘56. Il Quirinale sta preparando il viaggio del presidente a Budapest dove è stato invitato per l’occasione.
In Italia, dove spesso le polemiche storiche sono pretesto per risse e linciaggi da parte della destra, qualcuno ha fatto finta che questa strada non fosse stata compiuta. Già vent’anni fa - come rivendica nei suoi scritti - Napolitano riconobbe che «Giolitti aveva ragione»; oggi allarga il discorso alla sinistra italiana e ai meriti di Nenni.
Per i critici più “sottili” che sfidano il presidente della Repubblica e chi viene dal vecchio Pci a chiamare col nome di rivoluzione gli eventi d’Ungheria non resta che rimandare all’incipit del capitolo che Giorgio Napolitano dedica nella sua autobiografia proprio a quelle vicende: «...ci fu prima il trauma del 1956: dei “fatti d’Ungheria”, della rivoluzione ungherese e della sua repressione».

Liberazione 29.8.06
Ci ha lasciati la paziente simbolo (suo malgrado) del Santa Maria della Pietà di Roma. Vittima per trenta e più anni della segragazione manicomiale: protagonista di un riscatto sociale formidabile grazie anche al progetto di riabilitazione che porta il suo nome
Il testamento di Giuseppina F., morta libera dal manicomio


Ventisei anni fa moriva a Venezia Franco Basaglia, lo psichiatra cui si deve l’introduzione in Italia della legge 180 e la chiusura dei manicomi. Quattro giorni fa è morta Giuseppina F., paziente storica dell’ospedale psichiatrico Santa Maria della Pietà di Roma. Vittima per trenta e più anni dei soprusi manicomiali, Giuseppina è poi diventata protagonista di un riscatto sociale formidabile grazie anche al progetto di riabilitazione che porta il suo nome. Uno psichiatra e uno psicoterapeuta, Luigi Attenasio e Angelo Di Gennaro, la ricordano attraverso una “finzione” - dedicata anche a Basaglia il cui pensiero e la cui pratica sono ancora attuali - in cui raccontano le sue ultime volontà.

All’alba del 25 Agosto me ne sono andata così senza clamore, in modo civile e dignitoso per quanto possa esserlo quando si muore. Ero ricoverata al Policlinico Gemelli per, come si dice, un brutto male. Lì ho sofferto ma anche non ho sofferto. Gli psichiatri stiano tranquilli, non è un delirio, come lo chiamano loro, il mio. Soffrivo, questo sì, ma la mia sofferenza era ridiventata una sofferenza, per così dire normale, in un luogo riconosciuto da tutti come un luogo di cura. Nonostante la malattia avanzasse velocemente come un carro armato (dico così perché anche io sono rimasta colpita da tutto quello che ormai troppo facilmente avviene in questo mondo dove si va a fare la guerra per imporre la pace), con i medici a fare di tutto per fermarla, ho avuto la possibilità di riflettere sulla mia vita (sono/ero del 1949). Ah, ho dimenticato di dire che a 16 anni sono entrata nel manicomio di Roma e vi sono rimasta più di trent’anni. Anni bui, di silenzio sociale, di privazione e negazione dei diritti, dai più elementari, mangiare, dormire sereni, lavarsi…, a quelli più ”sofisticati”, vestirsi decentemente, leggere, studiare, avere relazioni, insomma scegliere di fare ciò che più ti piace. La mia presunta malattia d’origine, chi se ne ricorda più, la cui definizione lascia il tempo che trova, non può essere una giustificazione a tutto quello che ho passato lì dentro. Poi, finalmente, grazie alla 180, le dimissioni dal S. Maria della Pietà e l’inserimento in una grande casa con una “impresa” riabilitativa, il Progetto Giuseppina, chiamato proprio come me, perché nel frattempo ero diventata, non mi date della presuntuosa, abbastanza “famosa”. Purtroppo come lo si può essere in manicomio. Avevo proprio un bel caratterino ma mi sembrava giusto non venire sconfitta, lottare con tutte le forze, anche se impari, contro le violenze e i soprusi che mi facevano, che sentivo ingiusti gratuiti e immeritati. Una volta fuori, da vittima sono diventata protagonista, se così si può dire, perchè ho contribuito a trasformare le teste di tanti che mi sono stati vicino, in fondo tutta la grande famiglia del Progetto Giuseppina. In primis, e me ne sono accorta dall’atmosfera di grande rispetto e commozione che aleggiava durante il mio funerale, tutti i miei compagni di decennali sventure manicomiali con cui avevo condiviso i tanti passi avanti fatti. Con loro vivevamo anche affettuosamente: Eugenio, per esempio, mi trattava come una figlia mentre Anna, un’altra veterana del Progetto, mi ha salutato con grande dolcezza: ” Ciao Giuseppina, dormi, dormi! ”. Non li avevo mai visto così seri, così “sani e normali”. Di quella normalità che in questo caso non è concetto banale ma è “fotografia” e senso di una raggiunta conquista di civiltà e democrazia. Sono stata importante anche per gli operatori, che mi hanno voluto bene e a cui ho voluto bene: ora sanno che ci si può riscattare umanamente e socialmente se si riprende a vivere da persone e non da bestie. Per non dire dei miei familiari, con cui si era ricostruito un rapporto umano, di cui avevo perso il gusto e il sapore. Mia sorella Maria, poi, una vera combattente, ha giurato sulla mia bara che continuerà a lottare perchè non tornino più i lager manicomiali.
A questi due dottori, Luigi Attenasio e Angelo Di Gennaro, del Dipartimento di Salute Mentale della ASL Roma C, lascio queste mie ultime volontà. Mi sembrano bravi come gli altri di Psichiatria Democratica che ho conosciuto e che sono andati anche a Strasburgo a dire che i manicomi non devono esistere più non solo in Italia ma anche in Europa. E voglio ricordare, chissà se è una coincidenza, che Franco Basaglia moriva, come oggi, ventisei anni fa. In una calda giornata di Agosto, proprio come me. E’ lui che chiamo a garanzia contro ogni tentativo di ripensamento sulla 180. Da qualunque parte esso venga, anche in modo subdolo e mascherato, come quando si rivendicano sottili distinzioni tra cura e assistenza e si dice che prendersi cura anziché curare significa non prendersi la responsabilità della cura e della guarigione, generando nuova cronicità. Bene ha fatto la dottoressa Gabriele che si chiama Giuseppina come me, quella che è diventata un importante direttore ma che io ricordo perché è andata a lavorare con Basaglia, a cantargliene quattro a quelli che dicono che fare psichiatria in senso trasformativo significa fare soprattutto psicoterapia. Come se solo parlare con qualche specialista può cambiare la mente. E stare in una casa invece che in un manicomio, lavorare, amare, essere amati, fare delle cose, non è anche questo terapia? Che valore avrebbe allora il lavoro altamente qualificato degli operatori dei dipartimenti (ce ne sono tanti di seri e bravi) o di Antonella, Giuseppe, Pietro, Maria Grazia della cooperativa Aelleilpunto tra le cui braccia negli ultimi anni sono vissuta e anche morta? Se non si può parlare di certe cose (che non si conoscono), è meglio tacere. Fidatevi, ve lo dice una che la psichiatria l’ha conosciuto e subìto, non teorizzata e se mi si domanda se sono guarita dalla malattia mentale, da quassù lo posso dire: sì!. Voglio salutarvi tutti con un messaggio: guardare avanti è bene ma guardare avanti e indietro é ancora meglio.
Giuseppina F.

L’anniversario - 26 anni fa moriva Basaglia
«La follia è una condizione umana. In noi la follia esiste ed è presente come lo è la ragione. Il problema è che la società, per dirsi civile, dovrebbe accettare tanto la ragione quanto la follia, invece incarica una scienza, la psichiatria, di tradurre la follia in malattia allo scopo di eliminarla», sono parole di Franco Basaglia, padre della legge 180 e fondatore di Psichiatria Democratica, morto ventisei anni fa a Venezia.
Il primo impatto con la terribile realtà dei manicomi - cancelli, finestre chiuse, persone legate, camice di forza, catene- Basaglia lo ha nel 1961 quando diventa direttore dell'Ospedale psichiatrico di Gorizia. E’ la che inizia a metter in pratica le sue idee: niente più contenzione fisica, elettroshock o lobotomie. Niente più cancelli chiusi, Niente più pazienti trattati come cose, ma come persone.
Nel 1971 Basaglia è all’ospedale psichiatrico San Giovanni di Trieste. Nascono le cooperative di pazienti che lavorano e guadagnano, ma anche laboratori di pittura e di teatro, esperienze che continuano ancora oggi. Nel 1977 Il San Giovanni è il primo manicomio a chiudere in Italia. Un anno dopo, il 13 maggio 1978, il Parlamento approva la legge 180 di riforma psichiatrica. Finalmente tutti i ”malati mentali“ escono dai manicomi. E’ la fine delle violenze gratuite, delle umiliazioni, dell’assenza di diritti. Niente più elettroshock forzato, lobotomia, confisca dei beni. L’indesiderato, non si può più cancellare o nascondere rinchiudendolo in una struttura dalla quale uscirà solo da morto. Da quel momento in poi la follia va riconosciuta ed accettatta.
Basaglia muore nel 1980 a causa di un tumore al cervello fulminante, ma ancora oggi, a ventisei anni dalla morte e a ventotto dalla 180, le sue idee sono ancora ancora vive e attuali. Purtroppo non mancano i continui attacchi alla legge 180, attacchi da chi il diagio altrui vorrebbe fosse nascosto.

Corriere della Sera 29.6.06
Quelle oscure vie della complicità
di Edoardo Boncinelli

Natascha è stata sequestrata quando aveva dieci anni e per otto anni è stata in balia del suo sequestratore. Si è liberata e sembra felice di essere libera, ma non mostra verso quello che a conti fatti si è comportato con lei come un aguzzino quel risentimento che ci si potrebbe aspettare. Una storia con qualche tratto gentile, in mezzo a tante altre solamente trucide e violente. Un’anomalia nell’anomalia. Ci sono stati infatti casi di vero e proprio rapimento amoroso per il sequestratore da parte della ragazza sequestrata, casi che vanno certamente spiegati. Ma qui non c’è nemmeno questo incapricciamento.
C’è una presa di distanza, una strana aria di maturità, un’assenza, almeno apparente, di odio verso chi le ha fatto subire un rapporto estorto e distorto, negli anni dello sbocciare della sua femminilità. Come spiegarlo? Nel rapporto sentimentale umano concorrono due componenti essenziali: la sessualità finalizzata alla riproduzione e un lento processo di attaccamento reciproco che trova il suo modello nel rapporto fra genitore e figlio, soprattutto fra madre e figlio. L’atteggiamento materno verso i figli e quello filiale verso i genitori è presente in molte specie animali più o meno vicine a noi. Costituisce il centro nodale delle cosiddette «cure parentali», quei comportamenti dei genitori verso i figli che comprendono il nutrimento, la protezione, l’istruzione e anche il conferimento di un senso di sicurezza, fondamentale per poter crescere bene. Questo clima privilegiato di solito si allenta e dilegua dopo che la prole comincia a «camminare con le sue gambe».
I nostri «cuccioli» però restano tali per un periodo molto più lungo di tutti gli altri e conservano per lungo tempo, somaticamente e psicologicamente, molti dei caratteri tipici degli esemplari giovanissimi delle altre specie. E’ per questo che si sviluppa quella particolarissima forma di attaccamento reciproco fra uomo e donna, e talvolta anche fra individui dello stesso sesso, che noi chiamiamo amore romantico. In questo rapporto ciascuno tende a comportarsi come un figlio rispetto al partner. Ma poiché i due non possono comportarsi entrambi come figli, succede che in qualche circostanza l’uomo fa il figlio e la donna la madre e in altre le parti si invertono.
Questo gioco dura normalmente per tutta la vita, ma è negli anni dell’adolescenza o in quelli immediatamente successivi che viene messo a punto. Che è poi l’età nella quale secondo i greci della classicità i giovani migliori si andavano formando «all’ombra» di una guida più sicura e più esperta. Natascha si è trovata a vivere quegli anni in uno stato di reclusione e di soggezione, ma evidentemente Wolfgang la trattava in una maniera particolare, una maniera che l’ha offesa e vilipesa, ma non lacerata. Lei ha così avuto una sorta di «educazione sentimentale», abnorme e riprovevole quanto si vuole, ma che non ha impedito lo sviluppo di una sorta di complicità e quasi di comprensione anche da parte sua. Nei recessi del «guazzabuglio del cuore umano» di manzoniana memoria in Natascha libera è affiorato poi un barlume di istinto materno verso il figlio discolo, ma in fondo bisognoso di protezione.

Corriere della Sera 29.6.06
Gli scritti pessimistici di Schopenhauer
OLTRE IL GIOCO DELLE OMBRE
di Paola Capriolo

Curioso destino, quello di Schopenhauer: lui che fu e si volle filosofo sistematico, tanto da prescrivere al lettore l'ordine esatto in cui affrontare i suoi scritti, già in vita dovette gran parte del proprio tardivo successo non tanto all'architettura possente del Mondo come volontà e rappresentazione,
quanto allo scintillante stile aforistico dei Parerga e paralipomena, dove il rigore della speculazione metafisica cede così spesso il campo a quell'argomentare fulmineo, come a colpi di fioretto, che gli procura un posto d'onore nella tradizione dei grandi moralisti.
Di questo secondo filone, apparentemente più eccentrico e divagante, fanno parte anche le piccole gemme che da anni Franco Volpi va estraendo dalla miniera delle carte postume e l'ultima delle quali è appunto la breve raccolta di Senilia ora pubblicata nella traduzione di Giovanni Giurisatti (Arthur Schopenhauer, L'arte di invecchiare, edito da Adelphi, pp.112, € 8).
Il tema di fondo, come risulta dal titolo, è la vecchiaia, o più esattamente la vecchiaia quale si presenta a un maestro del pessimismo, nonché incallito misantropo sin dalla più tenera età, che giunge a varcare serenamente la soglia dei settant'anni rifiutando con sdegnosa impavidità qualunque conforto di tipo religioso. C'è poco da illudersi: l'uomo non è altro che un "nulla vivente", condannato ad abitare per una manciata d'anni questo inferno che è il mondo svolgendovi il duplice ruolo di anima dannata e di diavolo torturatore; così stando le cose, è vano presumere di poter trasferire armi e bagagli in una qualche vita ultraterrena ciò che siamo soliti definire la nostra individualità, anche se senza dubbio sarebbe carino «portare intatto nell'altro mondo il greco che abbiamo imparato in questo».
Eppure, proprio mentre ci mostra la vanità delle più diffuse speranze umane, Schopenhauer ce ne addita un'altra, attinta dal cuore stesso del suo sistema: la speranza, anzi, la ferma convinzione che «tutto ciò che trapassa non è mai veramente esistito» e che la nostra essenza più profonda non si identifica con quanto in noi è soggetto al tempo. Ora la comprendiamo meglio, la serenità di questo vecchio: è quella di chi non cerca l'immortalità altrove, in una chimerica vita futura, ma sa di portarla in sé, nel centro del proprio essere.
In fondo è semplicissimo: basta distogliere lo sguardo dal gioco di specchi che tempo e spazio proiettano intorno a noi, per cogliere dietro l'effimera fantasmagoria dei fenomeni l'eterna, unica realtà della "cosa in sé"; allora scopriamo che quella "pretesa ridicola" dell'immortalità viene davvero esaudita, ma «solo grazie al fatto che l'individualità è una mera apparenza»; mentre «ciò che rimane immutato e sempre identico, e non invecchia col passare degli anni, è appunto il nucleo della nostra essenza, che non sta nel tempo e proprio per questo è indistruttibile».
Secondo il pensatore l'individuo è pura apparenza

Corriere della Sera 29.6.06
Nel «Muro di pietra» il filosofo analizza la contraddizione fra dolore e speranza di salvezza
Severino e il paradosso di Dostoevskij
La scelta fra Cristo e la verità: una lettura controcorrente
di Armando Torno

B isogna ammettere che in Italia oggi scarseggiano i filosofi. La maggioranza dei personaggi che viene identificata con la nobile qualifica è composta da gioviali commercianti di idee che scribacchiano, a volte insegnano e se la cavano più o meno dignitosamente; una piccola quota è inoltre quella dei cicisbei televisivi, che si trascinano da una rete all'altra per non far dimenticare la loro faccia. Tra le altre medie e infime categorie non mancano nemmeno coloro che cercano di vestirsi da filosofi e di essere pronti ad aggiungere un'opinione a tutto quel che capita: sono gli eredi degli «intellettuali impegnati» del '68, che diventavano autorevoli con barba e propositi di lotta. Ci sono poi i patetici, gli scopritori di acqua calda, i chierichetti del pensiero che conformano le proprie genuflessioni al problema. E così di seguito, fra intrattenitori proni e supini di ogni genere.
Tutta gente che non fa del male ma, come dire?, è sovente ignorante, fastidiosa e pochi, se non pochissimi, sanno leggere i veri maestri sui testi originali. Il guaio è che circolano traduzioni traballanti e improvvisate: in altri tempi avrebbero causato duelli all'ultimo sangue. Pazienza. Usando un'espressione popolare diremo che «la va così».
Non chiedeteci di fornirvi, cari lettori, un elenco di eccezioni. Chi scrive mai ha fatto il pagellatore in vita sua e non desidera cominciare ora. È però certo che uno dei pochissimi filosofi italiani sia Emanuele Severino, che da oltre un cinquantennio scrive pagine di riferimento, è tradotto in diverse lingue e non è sceso a compromessi con l'aria che tira (o che tirava).
Le sue opere ormai si dividono in due categorie: quelle teoretiche, che escono nella collana filosofica di Adelphi (dove sono state ristampate anche le giovanili), e quelle divulgative (nate da articoli, brevi saggi, conferenze o prefazioni) che sono quasi tutte edite da Rizzoli. In questi giorni vede la luce, appunto da Rizzoli, Il muro di pietra, l'ultima raccolta che reca come sottotitolo «sul tramonto della tradizione filosofica» (pp. 206, e 19). Il libro chiude una trilogia, cominciata con Dall'Islam a Prometeo
(2003) e proseguita con Nascere (2005). Tra i dieci saggi che contiene — vere palestre per pensare — ci sembra che due offrano spunti inediti nel percorso di ricerca di Severino. Si tratta de Il muro di pietra e de La differenza ontologica.
Partiamo da quest'ultimo. Sono pagine dove Severino scende nel sottosuolo, o meglio nell'inconscio, della filosofia di Heidegger, passando attraverso gli atomisti, vale a dire quei pensatori che sono tra i fondatori del materialismo. Egli nota — lo riferisce anche Aristotele — che per Leucippo e Democrito, i primi maestri di questa scuola, «il vuoto è», affermazione che equivale a «il nulla è». Da un lato il vuoto separa l'essere da se stesso, proiettandolo nel molteplice; dall'altro è la condizione della possibilità del divenire. Scrive Severino: «Per la prima volta in modo esplicito, per rendere possibile l'affermazione dell'esistenza del divenire, l'atomismo afferma, dunque, che il nulla è».
Nella fascinosa analisi che segue, si evidenzia il tentativo, da parte di Platone e Aristotele, di evitare le conseguenze di questa affermazione; quindi si ricorda che Nietzsche fu il primo a sostenere che se c'è un divenire non può esserci un Dio pieno; infine che in Heidegger si legge un'apertura — dopo aver identificato l'essere con il vuoto e il nulla — che lascia intravedere nel suo discorso la possibilità di Dio. Ma non è qualcosa di tenue o di velato. Per farsene un'idea, basterà notare che Severino crede che Heidegger sia più vicino a Dio rispetto a Kant.
Ma la novità del libro è l'analisi filosofica di Dostoevskij, attuata attraverso la lettera del 1854 a Natalia Dimìtrievna Fonvìzina (dove lo scrittore afferma che se dovesse scegliere tra la verità e Cristo, preferirebbe quest'ultimo), quindi con alcune pagine delle Memorie del sottosuolo, infine e soprattutto con il capolavoro ultimo del sommo russo, I fratelli Karamazov.
Dostoevskij è considerato — come Eschilo e Leopardi — un filosofo e la sua analisi del dolore è letta nella prospettiva del divenire. Proviamo a tradurre il tutto in parole semplici: se l'evidenza del mondo è il dolore, allora non si può parlare di redenzione futura in una composizione operata da Dio nel Regno dei Cieli, perché questo dolore presente che colpisce anche un bimbo nessuno potrà cancellarlo in un tempo che verrà. La sofferenza è una delle forme emergenti del divenire e se ci fosse redenzione futura, essa sarebbe una burla nei confronti del dolore reale che l'uomo continua a provare.
Per completezza va aggiunto che «muro di pietra» è un'espressione che compare nelle Memorie del sottosuolo e rappresenta la Teoria incontrovertibile e assoluta, o meglio il «due più due fa quattro». Sestov — del quale Bompiani ha appena pubblicato il fondamentale Atene e Gerusalemme — riteneva che il «muro di pietra» sia il «principio di non contraddizione» che è stato formulato nel IV libro della Metafisica di Aristotele, Severino aggiunge che nella ricordata lettera alla Fonvìzina il «muro di pietra» andrebbe tradotto con «verità». Ma sappiamo che Dostoevskij sceglie Cristo rispetto alla verità. O lo preferisce alle teorie che la filosofia ha elaborato, e continua a elaborare, su di essa?

Corriere della Sera 29.8.06
Il blitz del 10 agosto
«Gli arrestati di Londra non erano pronti a colpire» Il New York Times attacca la tesi del complotto
di Alessandra Farkas

NEW YORK — Le autorità inglesi e americane avevano parlato di una «strage di massa su scala inimmaginabile», «ben più catastrofica dell'11 di settembre», «vicinissima alla fase di esecuzione». Ma a smontare la «montagna di indizi» raccolti lo scorso 10 agosto dalla polizia britannica sul presunto complotto terroristico per far saltar in aria, con esplosivi liquidi, dieci aerei in volo, potenzialmente su città americane, è il New York Times.
In un articolo firmato da Don Van Natta, Elaine Sciolino e Stephen Grey, il quotidiano americano, da mesi impegnato in un braccio di ferro con l'Amministrazione Bush, suggerisce che, «se mai davvero esistito, il piano degli aspiranti attentatori non era affatto vicino all'esecuzione».
«I sospetti non erano pronti a colpire immediatamente» hanno rivelato al giornale cinque alti funzionari britannici.
«Nonostante le incriminazioni — scrive il New York Times —le autorità inglesi non sono ancora sicure che tra i sospetti ci fosse qualcuno tecnicamente capace di mettere assieme e far esplodere liquidi in un aereo in volo».
Il New York Times aveva sollevato simili dubbi già lo scorso 14 agosto in un editoriale, dove Paul Krugman sosteneva che «gli inglesi volevano aspettare, ma gli americani hanno spinto perché si andasse avanti». Una tesi ben più articolata nel reportage di ieri, pubblicato in un primo momento solo sulla versione cartacea distribuita in Usa. «La diffusione sul web è stata rinviata temporaneamente su suggerimento dell'ufficio legale — spiega una nota della direzione —. La legge britannica proibisce la pubblicazione di informazioni che possano pregiudicare un'azione legale in corso».

Liberazione 29.8.06
Modigliani, l’arte a scapito della vita
di Paolo Nelli

Una mostra fa emergere il contrasto tra la serenità dei suoi quadri e l’impulso autodistruttivo della sua esistenza. Con le compagne aveva rapporti conflittuali ma nulla traspare nell’equilibrio delle figure umane dipinte. Alla Royal academy of arts di Londra fino al 15 ottobre

Londra. Una vita destinata a leggenda bohémien. Povertà, malattia, relazioni disperate, droga, alcol. Perché la vita non vale la propria arte e perseguire l’arte vale la perdita della propria vita. Eppure il contrasto è forte tra la serenità dei quadri di Modigliani e la sua esistenza votata all’autodistruzione. Thora Klinchowström, modella per una delle ultime tele, testimonia che Modigliani non smise un attimo di bere, di tossire, di sputare sangue, mentre la dipingeva. Ma la pacatezza della figura dipinta è solenne. Tutto è bilanciato. Pastosità dei colori nel richiamo tra sfondo e figura e quel carnato che assorbe la luce e risplende nella semplicità, che è forse la dote più grande di Modigliani. Rendere tutto semplice.
In un periodo dove l’anelito modernista portava alla distorsione, la sua distorsione è minima, al confronto, mirata a un’estetica dove l’equilibrio è tutto. Nell’arte, non nella vita. Nella ripetizione delle pose, l’inclinazione maggiore del viso o un braccio alzato, creano una dinamica nuova. Il sublime va cercato nel perfezionamento dei dettagli. Equilibrio tra classico e nuovo. Nessuna rivoluzione. Solo un affinamento delle nuove stimolazioni, cubiste, neoafricane, attinte nel fermento di una Parigi vulcanica, dove, a dispetto della prima guerra mondiale in corso, il mondo dell’arte si sedeva nei caffè, si stordiva di hashish, si annegava nell’alcol per creare l’arte moderna. L’arte moderna come frutto di una sbornia collettiva o, come dirà Duchamp, del «primo gruppo artistico veramente internazionale».
Modigliani è un pittore di esseri umani. Come ogni artista si è nutrito di ciò che lo circondava. Ma la sua fame era di persone, da fagocitare al servizio dell’arte. Messe a sedere o tenute in piedi su uno sfondo minimo. Mai in un contesto. Al limite la porta del suo studio, nell’ultimo periodo, funzionale a un bilanciamento di geometrie, a un taglio di colori. Eppure Modigliani non è ritrattista. Almeno non nel senso di scendere a compromessi con la commerciabilità, al servizio di committenti. Di modelli, però, aveva bisogno. Ha dipinto amici artisti, galleristi e loro parenti e conoscenti. E il loro nome lo scriveva sulle tele.
Per i suoi nudi era il mercante d’arte Zborowski a procurargli modelle. E a stipendiarlo. Si dice che lo chiudesse a chiave nello studio, e aspettava il quadro. Ma i nudi sono senza nome. Sono pure forme femminili al servizio della sua classicità. Si scorgono i corpi del Tiziano in quelle carni piene dai colori così vivi. Modigliani è un pittore della carne. Non c’è personalità in quelle donne, nessun riferimento biografico, solo forma, stilizzata eppure morbida. Nessuna delle sue compagne è stata dipinta nuda.
Beatrice Hastings era una poetessa che a Parigi scriveva per una rivista inglese. Una personalità scontrosa. Una relazione con Modigliani, tra il ‘14 e il ‘16 dove l’alcol e le liti abbondarono. Si narra di una lite terminata con la poetessa buttata fuori dalla finestra. Non c’è traccia di questo sulle tele. I suoi tratti fisici riconoscibili, inseriti nei tratti estetici che il pittore va inseguendo. Non c’è interesse psicologico di verità, in Modigliani. La vita, non solo la sua, ma quella di chi ritrae, è una cosa. Altra cosa è l’arte.
Nel 1918 Zborowski organizza un soggiorno di Modigliani, con la compagna Jeanne Hébuterne, in Costa Azzurra. La salute peggiora. Non ci sono amici, artisti o modelle. La mancanza di soggetti lo spinge verso la gente del posto, i contadini, i ragazzi. Senza intento sociale. C’è solo il bisogno di forme. Bisogno di persone per continuare a nutrire la sua arte che deve raggiungere una sua perfezione. Ovvero, si legge nel catalogo: «Colli lunghi e inclinati, visi ovali, allungati e piatti, occhi a forma di mandorla, labbra piccole e ben definite. Figure impostate su una ideale S. Le linee lunghe. I colori dello sfondo hanno un profondo legame coi colori dei personaggi». Con questi pattern astratti vengono dipinte le sue ultime principali modelle, Hanka Zborowska, moglie del gallerista, Lunia Czechowska, ospite della famiglia Zborowoski, e ancora la Hébuterne, con la quale Modigliani aveva già avuto una figlia. Hébuterne aveva 19 anni quando incontrò Modigliani. Era bella, giovane, un po’ timida, delicata e docile, così viene descritta. Di buona famiglia cattolica. E’ un amore totale, e malato. Modigliani è uomo affascinante, bello, quando non ubriaco anche gentile. Di lui accetta tutto. Sembra incarnare la figura dell’agnello predestinato al sacrificio per Modigliani. Nei quadri c’è solo la dolcezza. Nessuna traccia della vita vera, dei cambi d’umore dell’artista, dove all’affetto si alterna l’irritazione per la sottomissione incondizionata di quella ragazza. Lei esiste per lui. Per la sua arte e ha già capito tutto persa in un mondo adolescente. Non chiama neppure un dottore quando Modigliani da due giorni è incosciente. Non ci sono alternative. Non c’è lieto fine, neppure redenzione. La storia è nota. Due giorni dopo la morte di Modigliani, incinta di otto mesi, a 22 anni, si uccide.
L’ultimo modello di Modigliani è proprio se stesso. Lui, così restio a farsi ritrarre, sceglie la propria persona per l’ultimo dei suoi dipinti. Il più simbolico. Un autoritratto. Sullo sfondo, ancora, si direbbe una porta, ma l’equilibrio della composizione, stavolta, è sbilanciato verso sinistra, verso l’uscita. Le gambe del pittore sono già oltre. La tavolozza è al limite. Il resto del busto sta seguendo. La morte è già lì e lui, consapevole, gli va incontro. Da artista. Ho dato, me ne vado.
Le sue opere sembrano parlarci di un uomo che ha amato la gente. Mentendo. Della gente Modigliani aveva bisogno per pagare il suo personale tributo all’arte e 35 anni di vita gli sono bastati. In questo le opere non mentono. Sobrie e sature insieme, in perfetto equilibrio nei disequilibri di spalle troppo piegate, colli troppo lunghi, visi troppo ovali, emanano una sensazione di solennità semplice. E bellezza.

This page is powered by Blogger. Isn't yours?