13.8.06
Il Tempo.it 13.8.06
Il Festival di Venezia l’8 settembre renderà omaggio al regista
Premio Bianchi a Marco Bellocchio. Restaurato «Il diavolo in corpo»
VENEZIA — Andrà a a Marco Bellocchio il Premio «Pietro Bianchi» 2006. Lo ha deciso il direttivo nazionale del Sngci, il Sindacato nazionale giornalisti cinematografici italiani, che tradizionalmente assegna il Bianchi a Venezia, durante la Mostra del Cinema, in collaborazione con la Biennale e la direzione del festival. L'8 settembre prossimo al Lido la consegna del premio, con la proiezione alla Sala Pasinetti del Palazzo del Cinema di un film scelto dallo stesso Bellocchio: «Il diavolo in corpo» con Maruschka Detmers, accolto nel 1986 come un film-scandalo e tra i più sottovalutati nell'opera del regista, messo a disposizione per Venezia dall'Istituto Luce: un'occasione, per l'Sngci, anche per ricordare Leo Pescarolo che di quel film fu produttore. Il «Bianchi» è un premio al quale il sindacato è particolarmente affezionato perchè è intitolato alla memoria di un grande critico e giornalista. Il premio è stato negli anni assegnato ad attori come Alberto Sordi, Sophia Loren e Nino Manfredi, a produttori come Dino De Laurentiis e Goffredo Lombardo, ma soprattutto ad autori quali Mario Soldati, Cesare Zavattini, Alessandro Blasetti, Renato Castellani, Luigi Zampa, Alberto Lattuada, Mario Monicelli, Luigi Comencini, Giuseppe De Santis, Francesco Rosi, Dino Risi, Ettore Scola, Paolo e Vittorio Taviani, Luigi Magni, Carlo Lizzani, Bernardo Bertolucci. Tra grandi firme come Age e Scarpelli, Suso Cecchi D'Amico e Peppino Rotunno, lo ha ritirato anche Michelangelo Antonioni che, proprio nel 1946, quando ancora non era passato dietro la cinepresa, è stato tra l'altro tra i fondatori del Sngci.
Repubblica 13.8.06
Il giallo del poeta soldato che scoprì Heidegger
annotati a mano dell’autore di "Essere e tempo"
di Beppe Sebaste
Nel 1945 un francese di origine polacca, ebreo e antifascista, Frédéric de Towarnicki, di stanza nella Germania occupata, deviò con la sua jeep per far visita al filosofo compromesso col nazismo. E ne divenne il messaggero segreto presso la nuova cultura europea
Dalla casa della Foresta Nera il giovane militare contrabbandava nella sua bisaccia i preziosi dattiloscritti
Raccontava il poeta René Char, amico di Martin Heidegger dal 1955, che ai seminari di Thor negli anni Sessanta, nel sud della Francia, ogni volta che udiva il nome di Frédéric de Towarnicki, il volto del filosofo tedesco «si illuminava di un largo, lungo sorriso».
Fu quel giovane francese nato a Vienna nel 1920, origine polacca e madre ebrea viennese, Frédéric de Towarnicki, che con l’uniforme di soldato, di stanza nella Germania occupata insieme all’amico Alain Resnais, futuro cineasta, nel 1945 fece una deviazione con la jeep militare per far visita nella Foresta Nera al celebre filosofo di Friburgo, caduto in disgrazia per la sua compromissione col regime nazista. La visita ebbe conseguenze incalcolabili nella vita di entrambi: Towarnicki, discepolo del «pensiero che medita» agli antipodi del «pensiero che calcola», ne divenne il messaggero, rompendone dunque l’isolamento; fu «agente di collegamento filosofico» tra Heidegger e i filosofi europei (Sartre e Jean Beaufret soprattutto), portando nella sua bisaccia di soldato, tra un giallo e un romanzo di cappa e spada, i preziosi dattiloscritti annotati a mano dall’autore di Essere e tempo. Ma nel presentare Frédéric de Towarnicki al lettore italiano va premesso che già da prima la sua biografia è quella di un’erranza divenuta quête, e scandita da continui incontri con «persone straordinarie». Metafisica che lui trasformò in mestiere, avendo fatto il giornalista culturale e lavorato per anni al servizio di ricerca della televisione francese. Il suo rapporto con la parola scritta inizia però con la poesia, con quei versi, rigorosamente costruiti a coppie ritmate, con cui avrebbe divertito il più improbabile degli interlocutori, Heidegger appunto, sulla cui lunga frequentazione Towarnicki ha scritto il suo libro più bello, Ricordi di un messaggero della Foresta Nera, tradotto in italiano da Diabasis. Poche vicende reali si prestano come questa all’esclamazione: «Bisognerebbe farci un film».
«Poiché io cerco / Senza aver trovato / Oppure ho trovato / Quel che un altro cerca», è una delle quartine che fecero scoppiare a ridere il sussiegoso filosofo e la sua consorte nella veranda della casa di Todtnauberg. I suoi versi, scritti per gioco a partire dagli anni passati con un’eteroclita compagnia di rifugiati antifascisti tra Nizza e Saint Paul de Vence, tra Picasso e Braque, Jacques Prévert e Heinrich Mann, gli valsero nel 1952 la proposta del pittore Pablo Picasso, che in essi riconosceva il ritmo vitale del flamenco e del fado (il "blues" portoghese) di illustrarli con propri disegni. Troppo vagabondo per darle importanza, Towarnicki lasciò col tempo cadere la proposta, e soltanto tra breve le sue poesie (conservate da una delle sue fidanzate) saranno pubblicate in Francia. Tipica di lui fu anche la storia del film poliziesco, mai realizzato, che doveva fare con l’amico Alain Resnais a una certa epoca, Les aventures de Harry Dickson, di cui i media però parlarono come se fosse uscito. È un film che lui definisce «mitologico-amoroso», quasi un giallo dell’immaginazione, cui avevano aderito tra gli altri gli attori Lawrence Olivier e Vanessa Redgrave, e la cui sceneggiatura è ora in via di pubblicazione negli Usa presso l’Università della Pennsylvania, nel quadro di una serie di studi e celebrazioni di Towarnicki.
Frédéric de Towarnicki è stato intimo di pittori, poeti, scrittori, uomini e donne di teatro, filosofi e altri maestri: di tutti o quasi ha scritto e conserva una miniera di materiali vivi, archivio di conversazioni e testimonianze, da Brecht a Ernst Jü nger, da Mircea Eliade a Max Ernst, da Chagall al maestro Satprem (né va dimenticato l’impegno politico per i dissidenti sovietici e il suo rapporto con Sacharov). Che Towarnicki stesso sia un personaggio epico lo dice il recente romanzo di Georges Walter, Sous le règne de Magog, 1939-1945 (Denoel), dove il giovane poeta Towarnicki, innamorato e temerario, è raccontato negli anni cupi in cui la Gestapo imperversava anche sulla Riviera francese (Magog, nome biblico, è parola in codice per dire Hitler).
Anche l’Italia ha significato molto per Towarnicki. Come mi ricorda lui stesso, «l’Italia è sempre stata presente nella mia vita, fin da quando vivevo a Mentone e a Nizza prima di venire a Parigi. E poi la prima donna che ho avuto era piemontese, e la mia attuale compagna è originaria di Parma. Ho vagabondato a lungo sotto il ponte dei Sospiri a Venezia e ho girato varie trasmissioni televisive a Roma, per esempio documentari sul mio amico Jiri Pelikan, eroe della Primavera di Praga in esilio. Ho diretto in Francia un’ampia Enciclopedia del Teatro, e sarebbe troppo lungo dire tutto quello che devo ad autori come Goldoni o Pirandello…». Tra i suoi ricordi italiani figurano le conversazioni con Federico Fellini, gli incontri col famoso Club di Roma e la frequentazione di Giorgio De Chirico all’epoca in cui faceva per il settimanale Le Point un’inchiesta sulla mafia dei falsari di quadri: «L’Italia per me significa anche il legame con De Chirico e sua moglie. Ricordo come se fosse ieri le visite al suo appartamento in piazza di Spagna, le conversazioni in cui De Chirico mi spiegava il ruolo giocato dalla sua lettura di Nietzsche nella composizione delle "piazze d’Italia", la cui atmosfera nostalgica, accentuata dal vuoto e dalle ombre, suggeriva il declino di un mondo che finisce, o che è già alle spalle. De Chirico mi mostrò anche tutti i trucchi diabolici inventati dai falsari per imitare i suoi quadri».
Frédéric de Towarnicki abita da qualche anno con la sua compagna Nora Sagnes in un piccolo comune a sud di Parigi che si chiama Vanves. È collegato dalla metropolitana al centro della capitale, ma è anche un villaggio appartato e autonomo, con un suo centro storico e un suo parco, un ristorante cinese e una pizzeria italiana, e contrasti architettonici che miniaturizzano il conflitto-conciliazione tra vecchie forme abitative e nuovi palazzi, dando alle case di una volta un’aura di archeologia o modernariato non priva di tenerezza. L’abitazione di Towarnicki è al secondo piano di una palazzina moderna di cinque piani, di fronte a una piazzetta con un vecchio bistrot e un garage, e in mezzo alcuni alberi. Già al nostro primo appuntamento, anni fa, nella pizzeria italiana di Vanves, sentii con lui una forte connivenza morale e affettiva, «in questo terribile mondo della tecnica», come vezzosamente ama ripetere.
Appassionato e istrionico, umoristico e sincero, il vagabondo-narratore Frédéric de Towarnicki ha ancora i tratti di spirito con cui dovette sedurre e divertire il compunto filosofo della Foresta Nera. Per quanto sia un’illazione trasferire i caratteri di un autore alla sua opera, quando penso a Towarnicki e alla sua amicizia con Heidegger mi viene in mente non tanto la foto di lui, giovane soldato francese, a lato del «ridicolo filosofo con i calzoni alla zuava» (come direbbe Thomas Bernhard); ma, per proprietà transitiva, un’altra fotografia in cui si vede Heidegger, con Beaufret e René Char, tra i giocatori di pétanque nel Sud della Francia, totalmente assimilato a essi anche nel modo di vestire e nella gestualità. È in questo sfondo ideale che le parole di Towarnicki trovano lo spazio più luminoso. Secondo Towarnicki, rispetto ai suoi amici heideggeriani di Francia duri e puri, rigorosi «come benedettini», la sua relazione con Heidegger fu piuttosto una «commedia», un «teatro all’italiana». Ma forse proprio questo ha fatto dire con formula felice a un noto commentatore parigino che «Heidegger ebbe molta fortuna a incontrare Towarnicki». La fecondità e bellezza del loro incontro consisté anche nell’improbabilità, nell’apparente non-corrispondenza e discontinuità dei linguaggi e dei modi.
Il suo libro racconta l’avvicinamento a un «maestro», e alcuni degli effetti che un allievo può sperimentare. Per esempio la magia della trasformazione delle contraddizioni in evidenze, che per Towarnicki fu la dimensione filosofica dell’essere, parola che riassume un’opera considerata tra le più difficili, e di cui Towarnicki colse la «sorprendente semplicità». Accanto alle altezze del pensiero, in felice contrasto con la quotidianità del filosofo, Towarnicki descrive la relazione maestro-discepolo e il suo spaesamento, il perdersi, lo scarto a volte drammatico che l’apprendistato alla comprensione richiede, la sensazione di dover ritornare alle origini, alla semplicità di un procedere che scaturisce dalla sorgente stessa del nostro essere al mondo, e del dire. Cambiando modo e idea del comprendere, il maestro scompone per ricomporre, disgrega per riaggregare, e così facendo «illumina». Ma ciò che vale, più dei concetti e dei «dati», è il cammino, il corso del pensiero che inaugura in noi. Così è stato per Towarnicki. Ha raccontato con onestà un’esperienza terribilmente difficile da ri-trasmettere a terzi, e lo ha fatto con fedeltà a se stesso, ma anche «senza commettere un solo errore» (di filosofia) - come mi ha detto una volta con un candore che mi ha fatto sorridere. Se il suo è un romanzo «di iniziazione», come lo definì Julien Gracq, cioè di formazione al cospetto di un maestro, il suo autore si merita pienamente quella poesia di Bertolt Brecht con cui lo stesso Heidegger lo omaggiò, leggendogli un giorno a sorpresa la storia di Lao Tze e del traghettatore-gabelliere (Leggenda sull’origine del libro Tao Te King): «… Ma non solo al saggio si dia lode / che sul libro col suo nome splende! / Che strappargliela si deve, prima, al Saggio la saggezza. / Anche sia grazie dunque al gabelliere / che la seppe volere». Ecco, Towarnicki fu quel gabelliere.
La prima volta che ho parlato con Frédéric de Towarnicki fu al telefono una sera d’inverno. Il contatto stabilito per ragioni editoriali venne da lui trasformato quasi subito in un dialogo sulla vita. Mi disse, come se fosse la cosa più naturale al mondo e la vera ragione della mia telefonata, che verso i quarant’anni si incontra una nuova adolescenza, una «semplificazione di quel magma incomprensibile che è la vita». E ci siamo messi a parlare della Via, proprio così, che per lui fu l’incontro con Heidegger e «la filosofia», per me qualcosa di un po’ diverso, e per altri può essere di tutto. Poiché il maestro, qualunque cosa sia, lo si riconosce alla fine del cammino, o nell’approssimarsi a esso, Frédéric de Towarnicki, che non ha mai smesso di sentirsi in cammino, mi disse pressappoco questo: di sentirsi come un esploratore che sia arrivato nei pressi della sua destinazione ma non se ne sia reso conto, o abbia capito tardi di esserci passato di fianco, di esservi forse già stato da sempre e di averci girato intorno. La meraviglia lo sprona a continuare il cammino, e più passano gli anni più chiaramente intravede la «radura», quella semplicità che solo un Dire anteriore a ogni Detto può forse rivelare. «Non ci sono scorciatoie».
Ci siamo rivisti per cenare insieme questa primavera, e nel candore dei suoi ottantasei anni mi ha detto: «Sono felice di studiare un pensiero che non è una dottrina e non poteva diventarla, che non permetteva dunque nessuna ricetta, nessun programma definitivo, nessuna spiegazione decisiva; solo la percezione di un cammino in cui quello che non si può dire, che non è mai stato detto, non sarà mai detto, diventa un richiamo, anzi, il punto di partenza di un’altra percezione che raggiunge quella dei poeti e degli artisti». Poi abbiamo mangiato le bouchées de la reine, involtini di pasta al forno farcita di cui è ghiotto, abbiamo riguardato la sua collezione di Budda, mi ha recitato alcuni dei suoi fado in rima - versi sull’amore, la guerra, le donne, le città - mentre fumavo un paio di quelle sigarette di cui pure è ghiotto, ma che ahimè non può più fumare.
Liberazione 13.8.06
Legge 180. Nessuna proposta“catto-comunista”
Carlo Sansonetti, così con il servizio dell’8 agosto sulla 180 (Titolo: “Binetti e Valpiana, diritto a cura e più strutture”) la nota legge ispirata da Franco Basaglia, avrei “traviato” “Liberazione” che il 9 agosto, riprendendo alcune parti del mio servizio, titolava un suo pezzo “Riformare la 180? proposta catto-comunista”. Il 10 agosto leggo su “Liberazione” che avrei incluso tra “i revisionisti” della 180 la senatrice di Rifondazione Comunista, Tiziana Valpiana: e che poi avrei costruito una “inverosimile opera” di restyling. A mia difesa porto quel che ho scritto: non c’è traccia alcuna nel mio pezzo di “proposta catto-comunista” così come non ho annoverato tra i“revisionisti” la senatrice Valpiana, per il semplice fatto che non mai usato la parola “revisionisti”. Tutto è partito da una interessante conversazione avuta con il poeta Edoardo Sanguineti che segnalava la necessità di «assicurare a tutti il diritto alla cura, ad esser curati per star bene, per non esser di peso a se stessi, alla famiglia, alla società» e quindi «se trent’anni fa è stato giusto chiudere i manicomi, oggi è giusto fare strutture sanitarie adeguate di trattamento e cura: chi ha disagi psichici, se non vere e proprie patologie mentali deve aver il luogo deputato al trattamento e alla cura». E su queste interessanti affermazioni di Sanguineti ho sentito la Binetti e la Valpiana: ognuna ha detto quel che pensava e a questo mi sono attenuto. Non ho attribuito cose non dette, né manipolato le cose dette. Ma poi, ho pensato, è giusto il titolo di “Liberazione” perché la legge 180 è nata da una proposta e - aggiungo io - da un’intesa catto-comunista nel 1978: il governo era presieduto da Giulio Andreotti, il ministro della Sanità era Tina Anselmi e il vecchio Pci, tutto proteso al compromesso storico, stava nell’area di governo. E un pensiero ne tira un altro e spunta il ricordo di «un tal ingegnere Riccardo, uomo di statura gigantesca» (è scritto nella nota datata Genova 25 agosto 1943 fascicolo “Riccardo Lombardi” della divisione Affari Riservati della Direzione di Ps del Ministero degli Interni e conservata nell’Archivio di Stato) che, allergico alla “doppiezza togliattiana” (svolta di Salerno prima, poi il voto favorevole sull’art. 7 della Costituzione, quindi il provvedimento di amnistia del ’48), in quei tempi andati aveva dubbi sulla bontà della legge: «se gli Ospedali Psichiatrici sono dei lager non è un valido motivo per chiuderli, semmai può essere l’occasione per ristrutturali e riformarli interamente, così da assicurare con altre strutture sul territorio (si riferiva ai Centri di salute mentale introdotti con la riforma sanitaria di Mariotti del 1968) un luogo di trattamento e cura a chi ne ha bisogno». Applicava l’ingegnere («uno degli elementi più attivi - dice la nota della polizia fascista - infaticabile nella sua opera di persuasione», antifascista) quel “riformismo rivoluzionario” per costruire con una prassi “non-violenta”, quella «democrazia socialista che non c’è mai stata, dove a ciascuno sia data la possibilità di realizzare a pieno la propria personalità e identità».
Liberazione 13.8.06
Caro don Marco, fratello suicida e, forse, pedofilo, se puoi, perdonami!
di Don Vitaliano della Sala
«Ai bambini appartiene il Regno dei cieli» è la parola di Gesù che propone proprio i bambini come modelli di vita per ogni cristiano: “se non diventerete come loro, non entrerete nel Regno dei cieli”. Quanto siamo lontani da queste parole e dal rispetto verso i bambini che queste parole presuppongono: bambini resi schiavi, sfruttati, non rispettati nei loro diritti, bambini fatti oggetto di attenzioni e di violenze sessuali da parte di adulti. E’ la cronaca di questi giorni e, purtroppo, di sempre, con una vittima in più: don Marco, prete di Pomezia, sospettato di pedofilia, suicidatosi mentre era agli arresti domiciliari.
Una parola, quella di Gesù, tradita doppiamente da chi quella Parola deve annunziare e testimoniare; tradita dai pedofili in abito talare che, approfittando del proprio ruolo all’interno delle parrocchie, dei seminari, delle scuole, usano violenza proprio contro i bambini “legittimi proprietari” del Regno di Dio.
Nonostante tante chiacchiere, dibattiti, incontri al vertice, sembra che, all’interno della Chiesa e della società, non ci siano soluzioni, o non se ne vogliono trovare, al problema della pedofilia. E, da prete, provo sconcerto di fronte agli atteggiamenti che, come ci viene suggerito dalle gerarchie cattoliche, dovremmo cominciare ad assumere nei confronti dei confratelli accusati di pedofilia, atteggiamenti che si riassumono in affermazioni, cristianamente e umanamente infelici, tipo: “tolleranza zero contro i preti pedofili” e “uno sbaglio e sei fuori”.
I cristiani non possono ragionare così nei confronti di chi ha sbagliato, nemmeno quando si tratta di pedofili.
A chi nelle comunità cristiane è mai passato per la mente che i confratelli preti pedofili sono anche e comunque vittime - e dico questo non per giustificarli - vittime di violenze fisiche, psicologiche e “formative”?
Non sono un esperto, ma penso che il problema pedofilia si deve cominciare a risolvere anche a partire dalla formazione nei seminari e dall’organizzazione dei seminari stessi, strutture spesso tristi e per soli uomini dove, forse senza malafede, la sessualità ti viene “bloccata” alla pre-adolescenza; seminari che dovrebbero invece essere luoghi dove un ragazzo cresce armonicamente e serenamente in un contesto e in un ambiente “normale”.
Sono d’accordo con don Enzo Mazzi, animatore della comunità cristiana di base dell’Isolotto a Firenze, quando afferma che bisognerebbe intervenire sul “disprezzo” per la sessualità che spesso è diffuso tra il clero, e dunque sul seminario, luogo nel quale questo “disprezzo” nasce e si sviluppa. Tutto il cammino formativo dei seminari tende a “congelare” la sessualità, e di fatto è come se bloccasse il naturale sviluppo sessuale dei ragazzi-seminaristi; se non si recupera in seguito, a fatica e da soli, si rischia di diventare adulti con una sessualità ferma al periodo puberale o adolescenziale. E, come potete ben immaginare, parlo non per sentito dire.
Ma questo argomento è tabù e non lo si affronta mai se non di sfuggita, per dovere d’ufficio e comunque, ipocritamente, senza centrare il problema. Come non si affronta mai con serenità l’argomento, tabù dei tabù, del celibato del clero, anzi è espressamente vietato parlarne.
Purtroppo temo che non cambierà granché nel panorama ecclesiale: i preti pedofili continueranno indisturbati ad essere vittime e a fare vittime tra i bambini, casomai cercando di farlo con molta più attenzione; ad uso dei media, sicuramente alcuni tra questi preti pagheranno ma, sono pronto a scommetterci, pagheranno i preti pedofili più sfigati, mai i “potenti”.
Temo ancora di più, che l’adagio “uno sbaglio e sei fuori”, verrà usato contro i preti rompiscatole o critici verso le gerarchie, per screditarli e toglierli di mezzo. Non sarebbe la prima volta che accade: viene creata ad arte la falsa notizia per gettare discredito sul prete che da fastidio, e quale fango peggiore di quello gettato sul prete anche dal solo sospetto che questi sia pedofilo!
Resta il problema, e con esso le persone in carne ed ossa: i bambini vittime e i preti pedofili vittime a loro volta, ma non per questo giustificati; e restiamo noi, i cosiddetti “normali”, coloro che per risolvere il problema sanno proporre solo disumanità: il carcere duro, l’isolamento, la castrazione chimica o fisica, la pena di morte. Noi, i cosiddetti “normali”, che facciamo di tutto per convincerci che per fare pulizia basta nascondere l’immondizia sotto il tappeto della storia; noi, che facciamo finta di dimenticare che i pedofili fanno parte del nostro stesso genere umano, sono un po’ noi e c’è forse un po’ di noi in loro: dobbiamo occuparci di loro perché ci sta a cuore l’umanità e perché non basta nasconderli per risolvere il problema. E restano le parole da pronunciare, insufficienti per dire lo sdegno di fronte a tanta bruttura commessa da confratelli sacerdoti.
Infine resta la domanda che sempre dovremmo porci, soprattutto di fronte a qualcosa di umanamente assurdo come la pedofilia: perché? Perché esseri umani arrivano a tanto? Perché scatta in loro tanta perversione? Perché non si riesce a trovare un rimedio?
In questi giorni don Marco, un uomo come me, un prete come me, un mio confratello, accusato di pedofilia, si è tolto la vita impiccandosi mentre era agli arresti domiciliari. Sicuramente era giusta la pena che stava pagando, meno giusta era la moderna gogna mediatica alla quale era stato sottoposto. Non so se fosse colpevole o meno, e ammettiamo che lo fosse, mi resta comunque l’amaro in bocca e un senso di sconfitta e di fallimento per non aver aiutato un mio fratello. E non basta convincermi che io non c’entro nulla con i suoi problemi: mi sento ugualmente sconfitto, perché l’umanità deturpata dalle sue perversioni è la stessa a cui io, noi, apparteniamo.
Ti chiedo perdono don Marco, fratello mio pedofilo e suicida, perché non ho saputo esserti vicino, non ti ho usato misericordia, non ho raccolto il tuo grido di dolore e la tua supplica di aiuto, ti ho ignorato. Ho fatto finta che ignorandoti avrei messo a tacere la mia coscienza. Ti chiedo perdono perché ho evitato di spendere una parola per te, temendo il giudizio della maggioranza. Ti chiedo perdono perché ti ho considerato indifendibile.
Perdonami perché di fronte a te, “uomo lasciato mezzo morto dai briganti”, dalle accuse, dal senso di colpa, dalla condanna mediatica, per paura di contaminarmi, di sporcarmi le mani, di essere coinvolto, ho fatto come il sacerdote e il levita della parabola evangelica del Buon Samaritano (Luca 10, 30-37): “ti ho visto e sono passato oltre dall’altra parte della strada”. Non ho affatto rispettato il Vangelo, imitando il Samaritano che, “invece, passandogli accanto lo vide e n'ebbe compassione. Gli si fece vicino, gli fasciò le ferite, versandovi olio e vino; poi, caricatolo sopra il suo giumento, lo portò a una locanda e si prese cura di lui. Il giorno seguente, estrasse due denari e li diede all'albergatore, dicendo: Abbi cura di lui e ciò che spenderai in più, te lo rifonderò al mio ritorno”.
Perdonami perché, nonostante il brano del Vangelo si concluda con un secco monito di Gesù: “và e anche tu fa lo stesso”, io non ho avuto compassione di te, ho evitato di passarti accanto, di fasciarti le ferite, e ti ho lasciato suicidare.
Caro don Marco, fratello suicida e, forse, pedofilo, se puoi, perdonami!
Il Giornale 13.8.06
Pdci e Prc, ora è guerra aperta tra gli ex compagni di lotta
Roma. Tra i comunisti del Pdci e quelli di Rifondazione si passa dalle accuse agli insulti. Liberazione scrive in prima pagina che la manifestazione antifascista promossa da Marco Rizzo contro Fausto Bertinotti fa «girare i c...» ai suoi compagni di partito.
L'eurodeputato Rizzo si era scagliato contro Bertinotti reo di aver accettato l'invito di Gianfranco Fini alla Festa nazionale di An per il 16 settembre. Un invito che Bertinotti aveva ritenuto di non poter rifiutare proprio perché ricopre la carica, in teoria super partes, di presidente della Camera. Ma dato che a sinistra c'è sempre qualcuno più uguale degli altri, la scelta di Bertinotti ha scatenato il solito dibattito interno tra i presunti alleati. Ognuno a sinistra ha la sua particolare opinione sulla partecipazione di Bertinotti alla Festa di An e la rende nota al mondo.
E così Gennaro Migliore scrive su Liberazione di avere tentennato un po' prima di infilarsi in questo scontro perché, «le polemiche a sinistra sembrano piccole e strumentali». Poi però attacca a testa bassa il Pdci e Rizzo in particolare del quale si chiede se non sia lo stesso «superpresenzialista che frequenta ogni tipo di trasmissione televisiva con i La Russa e i Gasparri e fa sempre a gara con loro a chi la spara più grossa». E non solo. Liberazione si chiede «quale purezza si intestino quelli del Pdci? Quella del simbolo elettorale sbiancato il giusto per confondersi con Rifondazione?» Migliore ci va giù pesante definendo Rizzo e i suoi «comunisti da buco della serratura, guardoni della nostra iniziativa politica». In sostanza accusa il Pdci di non avere alcuna politica se non quella di criticare le scelte di Rifondazione. Si ha gioco facile, prosegue Migliore «a svelare quella che gli astuti “piddiccini” hanno eletto a vera e propria linea politica. Appostare Rifondazione Comunista, come farebbe l'ispettore Derrick, in attesa dell'inevitabile passo falso. Oppure interpretare le intenzioni dei dirigenti di Rifondazione e agire secondo l'adagio “calunniate, calunniate, qualcosa resterà”».
Curioso che nello stesso giorno (ieri) in cui Liberazione pubblica questo durissimo attacco a Rizzo, il Corriere della Sera pubblichi una lettera proprio di Rizzo che suona quasi come una risposta alle critiche di Migliore. Telepatia comunista?
Nella lettera al Corriere, Rizzo riconosce che «chi fa politica a sinistra come a destra», si deve inevitabilmente confrontare pure davanti alle telecamere «con gli avversari, anche con quelli più lontani». E dunque, prosegue, «non si capirebbe perché il leader di Rifondazione nonché presidente della Camera» non possa andare all'appuntamento con Fini. Ma confrontarsi con l'avversario in tv e andare alla Festa di An non è la stessa cosa, aggiunge Rizzo. Se si va al dibattito invitati da An, scrive, «si azzera il valore fondante della nostra identità: l'antifascismo». Insomma Rizzo non cambia idea.
Liberazione 13.8.06
Marco Rizzo ha indetto cortei antifascisti contro Bertinotti: un po’ ti viene da ridere un po' provi pena
L’unica politica che il Pdci conosce: spiare Rifondazione comunista e sperare che sbagli
di Gennaro Migliore
Scopro ieri, sul Corriere della Sera, da un articolo di Pierluigi Battista, che il Pdci avrebbe indetto una “giornata europea antifascista” il prossimo 16 settembre, per protestare contro il presidente della Camera Fausto Bertinotti, reo di aver accettato un invito alla festa dei giovani di An. Leggo, inoltre, che un autorevole membro dell’accademia, come Alberto Asor Rosa, pur dichiarandosi infastidito dal paragone con i diarchi pidiccini, Diliberto/Rizzo, ne condivide l’accusa, a Bertinotti, di aver “legittimato una cultura politica” con un gesto simbolico “inaccettabile”.
Ora, io sono sempre stato contrario alle polemiche a sinistra, che sembrano in genere piccole e strumentali. Però voi capite che quando indicono contro di te una manifestazione antifascista, certo, ti viene da ridere, ma poi ti girano anche un poi’ i coglioni...
Passi per Asor Rosa, che mi è antipatico perché è saccente (e non dimentico la sgradevolezza con la quale trattò una compagna bravissima come Ritanna Armeni, per le sue presenze in Tv, per altro molto apprezzate da milioni di telespettatori e da tutti i compagni che conosco). Passi per Asor, dicevo, ma le parole di Rizzo non posso far finta di non averle lette. E dopo averle lette ho provato un senso di tristezza e di pena. E poi mi son chiesto: ma questo Rizzo Marco non sarà mica lo stesso Rizzo, superpresenzialista, che frequenta ogni tipo di trasmissione televisiva con i La Russa, i Gasparri, e fa sempre a gara con loro a chi la spara più grossa? Ma no, sarà un caso di omonimia...
Torniamo seri, se si può. Quale purezza si intestano questi del Pdci? Quella del simbolo elettorale, sbiancato il giusto per “confondersi” con quello di Rifondazione? Voi dite: beh, ma sei troppo cattivo! Avete ragione, ma io non posso farci niente: oggi non mi trattengo...
Credo che si abbia fin troppo gioco facile per svelare quella che gli astuti “piddiccini” hanno eletto a vera e propria linea politica. Appostare Rifondazione comunista, come farebbe l’ispettore Derrik, in attesa dell’inevitabile passo falso! Oppure interpretare le intenzioni dei dirigenti di Rifondazione e agire secondo l’adagio “calunniate, calunniate, qualcosa resterà”.
Liquidato Armando Cossutta, con un sobrio stile da ruggenti anni ‘50, oggi si passa agli spiccioli di ortodossia per accomodarsi nei salotti virtuali della politica. Anche perché, è davvero difficile dire dove fossero questi custodi dell’unica religione civile del nostro Paese quando Bertinotti fece irrompere, dopo lunghissimi anni di silenzio, nell’aula della Camera le parole di Piero Calamandrei.
E poi, in quali lotte, in quali vertenze, in quali movimenti li avete mai visti? Quali masse europee convocheranno? Siamo sicuri solo di alcune sigle: Ansa, Agi, Ap, Dire, Reuters, Velino, Velina rossa, ecc.
Sono comunisti dal buco della serratura. Guardoni della nostra iniziativa politica. Volete qualche esempio? Fondiamo la Sinistra europea... il Pdci dice che è deviazione dalla storia dei comunisti. Rifondazione si schiera contro il Trattato europeo e contro l’esercito europeo…Il Pdci, viceversa, se ne fa alfiere e, quando i francesi lo bocciano per referendum, si affanna a dire che si è fatto un favore agli Usa (con enorme irritazione del Pc francese, protagonista di quella vittoria). O, più recentemente, le sceneggiate dentrofuori le riunioni per poter dichiarare, dall’Afghanistan all’indulto, solo che Rifondazione si era svenduta (agli americani, ai mafiosi, ai fascisti su marte… ma non si possono davvero ricordare tutte!).
Mi sa che il 16 settembre molti saranno i presenti al dibattito di Bertinotti alla festa dei giovani di An, sicuramente anche tanti compagni. E che non ci sarà, azzardo, una roboante “giornata antifascista” promossa da Rizzo.
Probabilmente alcuni di noi, proprio il 16 settembre, saranno a Catania. Lì ci sarà una manifestazione promossa dai Giovani comunisti, da organizzazioni gay, omosessuali, lesbiche, transgender, cui hanno aderito tante altre organizzazioni, protestando per un episodio in cui alcuni neofascisti, il 28 giugno scorso, hanno attaccato il corteo del Gay Pride. I fascisti, si sa, sono omofobi. Chissà se vedremo, almeno in quell’occasione, qualche rappresentante del Pdci insieme a noi. Non è detto: Rizzo, quando Rifondazione presentò Vladimir Luxuria candidato alla Camera, fu molto critico. Disse che i problemi degli omosessuali riguardano solo le libertà borghesi...
Il Festival di Venezia l’8 settembre renderà omaggio al regista
Premio Bianchi a Marco Bellocchio. Restaurato «Il diavolo in corpo»
VENEZIA — Andrà a a Marco Bellocchio il Premio «Pietro Bianchi» 2006. Lo ha deciso il direttivo nazionale del Sngci, il Sindacato nazionale giornalisti cinematografici italiani, che tradizionalmente assegna il Bianchi a Venezia, durante la Mostra del Cinema, in collaborazione con la Biennale e la direzione del festival. L'8 settembre prossimo al Lido la consegna del premio, con la proiezione alla Sala Pasinetti del Palazzo del Cinema di un film scelto dallo stesso Bellocchio: «Il diavolo in corpo» con Maruschka Detmers, accolto nel 1986 come un film-scandalo e tra i più sottovalutati nell'opera del regista, messo a disposizione per Venezia dall'Istituto Luce: un'occasione, per l'Sngci, anche per ricordare Leo Pescarolo che di quel film fu produttore. Il «Bianchi» è un premio al quale il sindacato è particolarmente affezionato perchè è intitolato alla memoria di un grande critico e giornalista. Il premio è stato negli anni assegnato ad attori come Alberto Sordi, Sophia Loren e Nino Manfredi, a produttori come Dino De Laurentiis e Goffredo Lombardo, ma soprattutto ad autori quali Mario Soldati, Cesare Zavattini, Alessandro Blasetti, Renato Castellani, Luigi Zampa, Alberto Lattuada, Mario Monicelli, Luigi Comencini, Giuseppe De Santis, Francesco Rosi, Dino Risi, Ettore Scola, Paolo e Vittorio Taviani, Luigi Magni, Carlo Lizzani, Bernardo Bertolucci. Tra grandi firme come Age e Scarpelli, Suso Cecchi D'Amico e Peppino Rotunno, lo ha ritirato anche Michelangelo Antonioni che, proprio nel 1946, quando ancora non era passato dietro la cinepresa, è stato tra l'altro tra i fondatori del Sngci.
Notizia riportata anche da: Il Giornale, Libertà, GR TV Agenzia Stampa Internazionale, TRovaCinema, Il Resto del Carlino e altri
Repubblica 13.8.06
Il giallo del poeta soldato che scoprì Heidegger
annotati a mano dell’autore di "Essere e tempo"
di Beppe Sebaste
Nel 1945 un francese di origine polacca, ebreo e antifascista, Frédéric de Towarnicki, di stanza nella Germania occupata, deviò con la sua jeep per far visita al filosofo compromesso col nazismo. E ne divenne il messaggero segreto presso la nuova cultura europea
Dalla casa della Foresta Nera il giovane militare contrabbandava nella sua bisaccia i preziosi dattiloscritti
Raccontava il poeta René Char, amico di Martin Heidegger dal 1955, che ai seminari di Thor negli anni Sessanta, nel sud della Francia, ogni volta che udiva il nome di Frédéric de Towarnicki, il volto del filosofo tedesco «si illuminava di un largo, lungo sorriso».
Fu quel giovane francese nato a Vienna nel 1920, origine polacca e madre ebrea viennese, Frédéric de Towarnicki, che con l’uniforme di soldato, di stanza nella Germania occupata insieme all’amico Alain Resnais, futuro cineasta, nel 1945 fece una deviazione con la jeep militare per far visita nella Foresta Nera al celebre filosofo di Friburgo, caduto in disgrazia per la sua compromissione col regime nazista. La visita ebbe conseguenze incalcolabili nella vita di entrambi: Towarnicki, discepolo del «pensiero che medita» agli antipodi del «pensiero che calcola», ne divenne il messaggero, rompendone dunque l’isolamento; fu «agente di collegamento filosofico» tra Heidegger e i filosofi europei (Sartre e Jean Beaufret soprattutto), portando nella sua bisaccia di soldato, tra un giallo e un romanzo di cappa e spada, i preziosi dattiloscritti annotati a mano dall’autore di Essere e tempo. Ma nel presentare Frédéric de Towarnicki al lettore italiano va premesso che già da prima la sua biografia è quella di un’erranza divenuta quête, e scandita da continui incontri con «persone straordinarie». Metafisica che lui trasformò in mestiere, avendo fatto il giornalista culturale e lavorato per anni al servizio di ricerca della televisione francese. Il suo rapporto con la parola scritta inizia però con la poesia, con quei versi, rigorosamente costruiti a coppie ritmate, con cui avrebbe divertito il più improbabile degli interlocutori, Heidegger appunto, sulla cui lunga frequentazione Towarnicki ha scritto il suo libro più bello, Ricordi di un messaggero della Foresta Nera, tradotto in italiano da Diabasis. Poche vicende reali si prestano come questa all’esclamazione: «Bisognerebbe farci un film».
«Poiché io cerco / Senza aver trovato / Oppure ho trovato / Quel che un altro cerca», è una delle quartine che fecero scoppiare a ridere il sussiegoso filosofo e la sua consorte nella veranda della casa di Todtnauberg. I suoi versi, scritti per gioco a partire dagli anni passati con un’eteroclita compagnia di rifugiati antifascisti tra Nizza e Saint Paul de Vence, tra Picasso e Braque, Jacques Prévert e Heinrich Mann, gli valsero nel 1952 la proposta del pittore Pablo Picasso, che in essi riconosceva il ritmo vitale del flamenco e del fado (il "blues" portoghese) di illustrarli con propri disegni. Troppo vagabondo per darle importanza, Towarnicki lasciò col tempo cadere la proposta, e soltanto tra breve le sue poesie (conservate da una delle sue fidanzate) saranno pubblicate in Francia. Tipica di lui fu anche la storia del film poliziesco, mai realizzato, che doveva fare con l’amico Alain Resnais a una certa epoca, Les aventures de Harry Dickson, di cui i media però parlarono come se fosse uscito. È un film che lui definisce «mitologico-amoroso», quasi un giallo dell’immaginazione, cui avevano aderito tra gli altri gli attori Lawrence Olivier e Vanessa Redgrave, e la cui sceneggiatura è ora in via di pubblicazione negli Usa presso l’Università della Pennsylvania, nel quadro di una serie di studi e celebrazioni di Towarnicki.
Frédéric de Towarnicki è stato intimo di pittori, poeti, scrittori, uomini e donne di teatro, filosofi e altri maestri: di tutti o quasi ha scritto e conserva una miniera di materiali vivi, archivio di conversazioni e testimonianze, da Brecht a Ernst Jü nger, da Mircea Eliade a Max Ernst, da Chagall al maestro Satprem (né va dimenticato l’impegno politico per i dissidenti sovietici e il suo rapporto con Sacharov). Che Towarnicki stesso sia un personaggio epico lo dice il recente romanzo di Georges Walter, Sous le règne de Magog, 1939-1945 (Denoel), dove il giovane poeta Towarnicki, innamorato e temerario, è raccontato negli anni cupi in cui la Gestapo imperversava anche sulla Riviera francese (Magog, nome biblico, è parola in codice per dire Hitler).
Anche l’Italia ha significato molto per Towarnicki. Come mi ricorda lui stesso, «l’Italia è sempre stata presente nella mia vita, fin da quando vivevo a Mentone e a Nizza prima di venire a Parigi. E poi la prima donna che ho avuto era piemontese, e la mia attuale compagna è originaria di Parma. Ho vagabondato a lungo sotto il ponte dei Sospiri a Venezia e ho girato varie trasmissioni televisive a Roma, per esempio documentari sul mio amico Jiri Pelikan, eroe della Primavera di Praga in esilio. Ho diretto in Francia un’ampia Enciclopedia del Teatro, e sarebbe troppo lungo dire tutto quello che devo ad autori come Goldoni o Pirandello…». Tra i suoi ricordi italiani figurano le conversazioni con Federico Fellini, gli incontri col famoso Club di Roma e la frequentazione di Giorgio De Chirico all’epoca in cui faceva per il settimanale Le Point un’inchiesta sulla mafia dei falsari di quadri: «L’Italia per me significa anche il legame con De Chirico e sua moglie. Ricordo come se fosse ieri le visite al suo appartamento in piazza di Spagna, le conversazioni in cui De Chirico mi spiegava il ruolo giocato dalla sua lettura di Nietzsche nella composizione delle "piazze d’Italia", la cui atmosfera nostalgica, accentuata dal vuoto e dalle ombre, suggeriva il declino di un mondo che finisce, o che è già alle spalle. De Chirico mi mostrò anche tutti i trucchi diabolici inventati dai falsari per imitare i suoi quadri».
Frédéric de Towarnicki abita da qualche anno con la sua compagna Nora Sagnes in un piccolo comune a sud di Parigi che si chiama Vanves. È collegato dalla metropolitana al centro della capitale, ma è anche un villaggio appartato e autonomo, con un suo centro storico e un suo parco, un ristorante cinese e una pizzeria italiana, e contrasti architettonici che miniaturizzano il conflitto-conciliazione tra vecchie forme abitative e nuovi palazzi, dando alle case di una volta un’aura di archeologia o modernariato non priva di tenerezza. L’abitazione di Towarnicki è al secondo piano di una palazzina moderna di cinque piani, di fronte a una piazzetta con un vecchio bistrot e un garage, e in mezzo alcuni alberi. Già al nostro primo appuntamento, anni fa, nella pizzeria italiana di Vanves, sentii con lui una forte connivenza morale e affettiva, «in questo terribile mondo della tecnica», come vezzosamente ama ripetere.
Appassionato e istrionico, umoristico e sincero, il vagabondo-narratore Frédéric de Towarnicki ha ancora i tratti di spirito con cui dovette sedurre e divertire il compunto filosofo della Foresta Nera. Per quanto sia un’illazione trasferire i caratteri di un autore alla sua opera, quando penso a Towarnicki e alla sua amicizia con Heidegger mi viene in mente non tanto la foto di lui, giovane soldato francese, a lato del «ridicolo filosofo con i calzoni alla zuava» (come direbbe Thomas Bernhard); ma, per proprietà transitiva, un’altra fotografia in cui si vede Heidegger, con Beaufret e René Char, tra i giocatori di pétanque nel Sud della Francia, totalmente assimilato a essi anche nel modo di vestire e nella gestualità. È in questo sfondo ideale che le parole di Towarnicki trovano lo spazio più luminoso. Secondo Towarnicki, rispetto ai suoi amici heideggeriani di Francia duri e puri, rigorosi «come benedettini», la sua relazione con Heidegger fu piuttosto una «commedia», un «teatro all’italiana». Ma forse proprio questo ha fatto dire con formula felice a un noto commentatore parigino che «Heidegger ebbe molta fortuna a incontrare Towarnicki». La fecondità e bellezza del loro incontro consisté anche nell’improbabilità, nell’apparente non-corrispondenza e discontinuità dei linguaggi e dei modi.
Il suo libro racconta l’avvicinamento a un «maestro», e alcuni degli effetti che un allievo può sperimentare. Per esempio la magia della trasformazione delle contraddizioni in evidenze, che per Towarnicki fu la dimensione filosofica dell’essere, parola che riassume un’opera considerata tra le più difficili, e di cui Towarnicki colse la «sorprendente semplicità». Accanto alle altezze del pensiero, in felice contrasto con la quotidianità del filosofo, Towarnicki descrive la relazione maestro-discepolo e il suo spaesamento, il perdersi, lo scarto a volte drammatico che l’apprendistato alla comprensione richiede, la sensazione di dover ritornare alle origini, alla semplicità di un procedere che scaturisce dalla sorgente stessa del nostro essere al mondo, e del dire. Cambiando modo e idea del comprendere, il maestro scompone per ricomporre, disgrega per riaggregare, e così facendo «illumina». Ma ciò che vale, più dei concetti e dei «dati», è il cammino, il corso del pensiero che inaugura in noi. Così è stato per Towarnicki. Ha raccontato con onestà un’esperienza terribilmente difficile da ri-trasmettere a terzi, e lo ha fatto con fedeltà a se stesso, ma anche «senza commettere un solo errore» (di filosofia) - come mi ha detto una volta con un candore che mi ha fatto sorridere. Se il suo è un romanzo «di iniziazione», come lo definì Julien Gracq, cioè di formazione al cospetto di un maestro, il suo autore si merita pienamente quella poesia di Bertolt Brecht con cui lo stesso Heidegger lo omaggiò, leggendogli un giorno a sorpresa la storia di Lao Tze e del traghettatore-gabelliere (Leggenda sull’origine del libro Tao Te King): «… Ma non solo al saggio si dia lode / che sul libro col suo nome splende! / Che strappargliela si deve, prima, al Saggio la saggezza. / Anche sia grazie dunque al gabelliere / che la seppe volere». Ecco, Towarnicki fu quel gabelliere.
La prima volta che ho parlato con Frédéric de Towarnicki fu al telefono una sera d’inverno. Il contatto stabilito per ragioni editoriali venne da lui trasformato quasi subito in un dialogo sulla vita. Mi disse, come se fosse la cosa più naturale al mondo e la vera ragione della mia telefonata, che verso i quarant’anni si incontra una nuova adolescenza, una «semplificazione di quel magma incomprensibile che è la vita». E ci siamo messi a parlare della Via, proprio così, che per lui fu l’incontro con Heidegger e «la filosofia», per me qualcosa di un po’ diverso, e per altri può essere di tutto. Poiché il maestro, qualunque cosa sia, lo si riconosce alla fine del cammino, o nell’approssimarsi a esso, Frédéric de Towarnicki, che non ha mai smesso di sentirsi in cammino, mi disse pressappoco questo: di sentirsi come un esploratore che sia arrivato nei pressi della sua destinazione ma non se ne sia reso conto, o abbia capito tardi di esserci passato di fianco, di esservi forse già stato da sempre e di averci girato intorno. La meraviglia lo sprona a continuare il cammino, e più passano gli anni più chiaramente intravede la «radura», quella semplicità che solo un Dire anteriore a ogni Detto può forse rivelare. «Non ci sono scorciatoie».
Ci siamo rivisti per cenare insieme questa primavera, e nel candore dei suoi ottantasei anni mi ha detto: «Sono felice di studiare un pensiero che non è una dottrina e non poteva diventarla, che non permetteva dunque nessuna ricetta, nessun programma definitivo, nessuna spiegazione decisiva; solo la percezione di un cammino in cui quello che non si può dire, che non è mai stato detto, non sarà mai detto, diventa un richiamo, anzi, il punto di partenza di un’altra percezione che raggiunge quella dei poeti e degli artisti». Poi abbiamo mangiato le bouchées de la reine, involtini di pasta al forno farcita di cui è ghiotto, abbiamo riguardato la sua collezione di Budda, mi ha recitato alcuni dei suoi fado in rima - versi sull’amore, la guerra, le donne, le città - mentre fumavo un paio di quelle sigarette di cui pure è ghiotto, ma che ahimè non può più fumare.
Liberazione 13.8.06
Legge 180. Nessuna proposta“catto-comunista”
Carlo Sansonetti, così con il servizio dell’8 agosto sulla 180 (Titolo: “Binetti e Valpiana, diritto a cura e più strutture”) la nota legge ispirata da Franco Basaglia, avrei “traviato” “Liberazione” che il 9 agosto, riprendendo alcune parti del mio servizio, titolava un suo pezzo “Riformare la 180? proposta catto-comunista”. Il 10 agosto leggo su “Liberazione” che avrei incluso tra “i revisionisti” della 180 la senatrice di Rifondazione Comunista, Tiziana Valpiana: e che poi avrei costruito una “inverosimile opera” di restyling. A mia difesa porto quel che ho scritto: non c’è traccia alcuna nel mio pezzo di “proposta catto-comunista” così come non ho annoverato tra i“revisionisti” la senatrice Valpiana, per il semplice fatto che non mai usato la parola “revisionisti”. Tutto è partito da una interessante conversazione avuta con il poeta Edoardo Sanguineti che segnalava la necessità di «assicurare a tutti il diritto alla cura, ad esser curati per star bene, per non esser di peso a se stessi, alla famiglia, alla società» e quindi «se trent’anni fa è stato giusto chiudere i manicomi, oggi è giusto fare strutture sanitarie adeguate di trattamento e cura: chi ha disagi psichici, se non vere e proprie patologie mentali deve aver il luogo deputato al trattamento e alla cura». E su queste interessanti affermazioni di Sanguineti ho sentito la Binetti e la Valpiana: ognuna ha detto quel che pensava e a questo mi sono attenuto. Non ho attribuito cose non dette, né manipolato le cose dette. Ma poi, ho pensato, è giusto il titolo di “Liberazione” perché la legge 180 è nata da una proposta e - aggiungo io - da un’intesa catto-comunista nel 1978: il governo era presieduto da Giulio Andreotti, il ministro della Sanità era Tina Anselmi e il vecchio Pci, tutto proteso al compromesso storico, stava nell’area di governo. E un pensiero ne tira un altro e spunta il ricordo di «un tal ingegnere Riccardo, uomo di statura gigantesca» (è scritto nella nota datata Genova 25 agosto 1943 fascicolo “Riccardo Lombardi” della divisione Affari Riservati della Direzione di Ps del Ministero degli Interni e conservata nell’Archivio di Stato) che, allergico alla “doppiezza togliattiana” (svolta di Salerno prima, poi il voto favorevole sull’art. 7 della Costituzione, quindi il provvedimento di amnistia del ’48), in quei tempi andati aveva dubbi sulla bontà della legge: «se gli Ospedali Psichiatrici sono dei lager non è un valido motivo per chiuderli, semmai può essere l’occasione per ristrutturali e riformarli interamente, così da assicurare con altre strutture sul territorio (si riferiva ai Centri di salute mentale introdotti con la riforma sanitaria di Mariotti del 1968) un luogo di trattamento e cura a chi ne ha bisogno». Applicava l’ingegnere («uno degli elementi più attivi - dice la nota della polizia fascista - infaticabile nella sua opera di persuasione», antifascista) quel “riformismo rivoluzionario” per costruire con una prassi “non-violenta”, quella «democrazia socialista che non c’è mai stata, dove a ciascuno sia data la possibilità di realizzare a pieno la propria personalità e identità».
Carlo Patrignani
Inviato Speciale Agi
Inviato Speciale Agi
Liberazione 13.8.06
Caro don Marco, fratello suicida e, forse, pedofilo, se puoi, perdonami!
di Don Vitaliano della Sala
«Ai bambini appartiene il Regno dei cieli» è la parola di Gesù che propone proprio i bambini come modelli di vita per ogni cristiano: “se non diventerete come loro, non entrerete nel Regno dei cieli”. Quanto siamo lontani da queste parole e dal rispetto verso i bambini che queste parole presuppongono: bambini resi schiavi, sfruttati, non rispettati nei loro diritti, bambini fatti oggetto di attenzioni e di violenze sessuali da parte di adulti. E’ la cronaca di questi giorni e, purtroppo, di sempre, con una vittima in più: don Marco, prete di Pomezia, sospettato di pedofilia, suicidatosi mentre era agli arresti domiciliari.
Una parola, quella di Gesù, tradita doppiamente da chi quella Parola deve annunziare e testimoniare; tradita dai pedofili in abito talare che, approfittando del proprio ruolo all’interno delle parrocchie, dei seminari, delle scuole, usano violenza proprio contro i bambini “legittimi proprietari” del Regno di Dio.
Nonostante tante chiacchiere, dibattiti, incontri al vertice, sembra che, all’interno della Chiesa e della società, non ci siano soluzioni, o non se ne vogliono trovare, al problema della pedofilia. E, da prete, provo sconcerto di fronte agli atteggiamenti che, come ci viene suggerito dalle gerarchie cattoliche, dovremmo cominciare ad assumere nei confronti dei confratelli accusati di pedofilia, atteggiamenti che si riassumono in affermazioni, cristianamente e umanamente infelici, tipo: “tolleranza zero contro i preti pedofili” e “uno sbaglio e sei fuori”.
I cristiani non possono ragionare così nei confronti di chi ha sbagliato, nemmeno quando si tratta di pedofili.
A chi nelle comunità cristiane è mai passato per la mente che i confratelli preti pedofili sono anche e comunque vittime - e dico questo non per giustificarli - vittime di violenze fisiche, psicologiche e “formative”?
Non sono un esperto, ma penso che il problema pedofilia si deve cominciare a risolvere anche a partire dalla formazione nei seminari e dall’organizzazione dei seminari stessi, strutture spesso tristi e per soli uomini dove, forse senza malafede, la sessualità ti viene “bloccata” alla pre-adolescenza; seminari che dovrebbero invece essere luoghi dove un ragazzo cresce armonicamente e serenamente in un contesto e in un ambiente “normale”.
Sono d’accordo con don Enzo Mazzi, animatore della comunità cristiana di base dell’Isolotto a Firenze, quando afferma che bisognerebbe intervenire sul “disprezzo” per la sessualità che spesso è diffuso tra il clero, e dunque sul seminario, luogo nel quale questo “disprezzo” nasce e si sviluppa. Tutto il cammino formativo dei seminari tende a “congelare” la sessualità, e di fatto è come se bloccasse il naturale sviluppo sessuale dei ragazzi-seminaristi; se non si recupera in seguito, a fatica e da soli, si rischia di diventare adulti con una sessualità ferma al periodo puberale o adolescenziale. E, come potete ben immaginare, parlo non per sentito dire.
Ma questo argomento è tabù e non lo si affronta mai se non di sfuggita, per dovere d’ufficio e comunque, ipocritamente, senza centrare il problema. Come non si affronta mai con serenità l’argomento, tabù dei tabù, del celibato del clero, anzi è espressamente vietato parlarne.
Purtroppo temo che non cambierà granché nel panorama ecclesiale: i preti pedofili continueranno indisturbati ad essere vittime e a fare vittime tra i bambini, casomai cercando di farlo con molta più attenzione; ad uso dei media, sicuramente alcuni tra questi preti pagheranno ma, sono pronto a scommetterci, pagheranno i preti pedofili più sfigati, mai i “potenti”.
Temo ancora di più, che l’adagio “uno sbaglio e sei fuori”, verrà usato contro i preti rompiscatole o critici verso le gerarchie, per screditarli e toglierli di mezzo. Non sarebbe la prima volta che accade: viene creata ad arte la falsa notizia per gettare discredito sul prete che da fastidio, e quale fango peggiore di quello gettato sul prete anche dal solo sospetto che questi sia pedofilo!
Resta il problema, e con esso le persone in carne ed ossa: i bambini vittime e i preti pedofili vittime a loro volta, ma non per questo giustificati; e restiamo noi, i cosiddetti “normali”, coloro che per risolvere il problema sanno proporre solo disumanità: il carcere duro, l’isolamento, la castrazione chimica o fisica, la pena di morte. Noi, i cosiddetti “normali”, che facciamo di tutto per convincerci che per fare pulizia basta nascondere l’immondizia sotto il tappeto della storia; noi, che facciamo finta di dimenticare che i pedofili fanno parte del nostro stesso genere umano, sono un po’ noi e c’è forse un po’ di noi in loro: dobbiamo occuparci di loro perché ci sta a cuore l’umanità e perché non basta nasconderli per risolvere il problema. E restano le parole da pronunciare, insufficienti per dire lo sdegno di fronte a tanta bruttura commessa da confratelli sacerdoti.
Infine resta la domanda che sempre dovremmo porci, soprattutto di fronte a qualcosa di umanamente assurdo come la pedofilia: perché? Perché esseri umani arrivano a tanto? Perché scatta in loro tanta perversione? Perché non si riesce a trovare un rimedio?
In questi giorni don Marco, un uomo come me, un prete come me, un mio confratello, accusato di pedofilia, si è tolto la vita impiccandosi mentre era agli arresti domiciliari. Sicuramente era giusta la pena che stava pagando, meno giusta era la moderna gogna mediatica alla quale era stato sottoposto. Non so se fosse colpevole o meno, e ammettiamo che lo fosse, mi resta comunque l’amaro in bocca e un senso di sconfitta e di fallimento per non aver aiutato un mio fratello. E non basta convincermi che io non c’entro nulla con i suoi problemi: mi sento ugualmente sconfitto, perché l’umanità deturpata dalle sue perversioni è la stessa a cui io, noi, apparteniamo.
Ti chiedo perdono don Marco, fratello mio pedofilo e suicida, perché non ho saputo esserti vicino, non ti ho usato misericordia, non ho raccolto il tuo grido di dolore e la tua supplica di aiuto, ti ho ignorato. Ho fatto finta che ignorandoti avrei messo a tacere la mia coscienza. Ti chiedo perdono perché ho evitato di spendere una parola per te, temendo il giudizio della maggioranza. Ti chiedo perdono perché ti ho considerato indifendibile.
Perdonami perché di fronte a te, “uomo lasciato mezzo morto dai briganti”, dalle accuse, dal senso di colpa, dalla condanna mediatica, per paura di contaminarmi, di sporcarmi le mani, di essere coinvolto, ho fatto come il sacerdote e il levita della parabola evangelica del Buon Samaritano (Luca 10, 30-37): “ti ho visto e sono passato oltre dall’altra parte della strada”. Non ho affatto rispettato il Vangelo, imitando il Samaritano che, “invece, passandogli accanto lo vide e n'ebbe compassione. Gli si fece vicino, gli fasciò le ferite, versandovi olio e vino; poi, caricatolo sopra il suo giumento, lo portò a una locanda e si prese cura di lui. Il giorno seguente, estrasse due denari e li diede all'albergatore, dicendo: Abbi cura di lui e ciò che spenderai in più, te lo rifonderò al mio ritorno”.
Perdonami perché, nonostante il brano del Vangelo si concluda con un secco monito di Gesù: “và e anche tu fa lo stesso”, io non ho avuto compassione di te, ho evitato di passarti accanto, di fasciarti le ferite, e ti ho lasciato suicidare.
Caro don Marco, fratello suicida e, forse, pedofilo, se puoi, perdonami!
Il Giornale 13.8.06
Pdci e Prc, ora è guerra aperta tra gli ex compagni di lotta
Roma. Tra i comunisti del Pdci e quelli di Rifondazione si passa dalle accuse agli insulti. Liberazione scrive in prima pagina che la manifestazione antifascista promossa da Marco Rizzo contro Fausto Bertinotti fa «girare i c...» ai suoi compagni di partito.
L'eurodeputato Rizzo si era scagliato contro Bertinotti reo di aver accettato l'invito di Gianfranco Fini alla Festa nazionale di An per il 16 settembre. Un invito che Bertinotti aveva ritenuto di non poter rifiutare proprio perché ricopre la carica, in teoria super partes, di presidente della Camera. Ma dato che a sinistra c'è sempre qualcuno più uguale degli altri, la scelta di Bertinotti ha scatenato il solito dibattito interno tra i presunti alleati. Ognuno a sinistra ha la sua particolare opinione sulla partecipazione di Bertinotti alla Festa di An e la rende nota al mondo.
E così Gennaro Migliore scrive su Liberazione di avere tentennato un po' prima di infilarsi in questo scontro perché, «le polemiche a sinistra sembrano piccole e strumentali». Poi però attacca a testa bassa il Pdci e Rizzo in particolare del quale si chiede se non sia lo stesso «superpresenzialista che frequenta ogni tipo di trasmissione televisiva con i La Russa e i Gasparri e fa sempre a gara con loro a chi la spara più grossa». E non solo. Liberazione si chiede «quale purezza si intestino quelli del Pdci? Quella del simbolo elettorale sbiancato il giusto per confondersi con Rifondazione?» Migliore ci va giù pesante definendo Rizzo e i suoi «comunisti da buco della serratura, guardoni della nostra iniziativa politica». In sostanza accusa il Pdci di non avere alcuna politica se non quella di criticare le scelte di Rifondazione. Si ha gioco facile, prosegue Migliore «a svelare quella che gli astuti “piddiccini” hanno eletto a vera e propria linea politica. Appostare Rifondazione Comunista, come farebbe l'ispettore Derrick, in attesa dell'inevitabile passo falso. Oppure interpretare le intenzioni dei dirigenti di Rifondazione e agire secondo l'adagio “calunniate, calunniate, qualcosa resterà”».
Curioso che nello stesso giorno (ieri) in cui Liberazione pubblica questo durissimo attacco a Rizzo, il Corriere della Sera pubblichi una lettera proprio di Rizzo che suona quasi come una risposta alle critiche di Migliore. Telepatia comunista?
Nella lettera al Corriere, Rizzo riconosce che «chi fa politica a sinistra come a destra», si deve inevitabilmente confrontare pure davanti alle telecamere «con gli avversari, anche con quelli più lontani». E dunque, prosegue, «non si capirebbe perché il leader di Rifondazione nonché presidente della Camera» non possa andare all'appuntamento con Fini. Ma confrontarsi con l'avversario in tv e andare alla Festa di An non è la stessa cosa, aggiunge Rizzo. Se si va al dibattito invitati da An, scrive, «si azzera il valore fondante della nostra identità: l'antifascismo». Insomma Rizzo non cambia idea.
Liberazione 13.8.06
Marco Rizzo ha indetto cortei antifascisti contro Bertinotti: un po’ ti viene da ridere un po' provi pena
L’unica politica che il Pdci conosce: spiare Rifondazione comunista e sperare che sbagli
di Gennaro Migliore
Scopro ieri, sul Corriere della Sera, da un articolo di Pierluigi Battista, che il Pdci avrebbe indetto una “giornata europea antifascista” il prossimo 16 settembre, per protestare contro il presidente della Camera Fausto Bertinotti, reo di aver accettato un invito alla festa dei giovani di An. Leggo, inoltre, che un autorevole membro dell’accademia, come Alberto Asor Rosa, pur dichiarandosi infastidito dal paragone con i diarchi pidiccini, Diliberto/Rizzo, ne condivide l’accusa, a Bertinotti, di aver “legittimato una cultura politica” con un gesto simbolico “inaccettabile”.
Ora, io sono sempre stato contrario alle polemiche a sinistra, che sembrano in genere piccole e strumentali. Però voi capite che quando indicono contro di te una manifestazione antifascista, certo, ti viene da ridere, ma poi ti girano anche un poi’ i coglioni...
Passi per Asor Rosa, che mi è antipatico perché è saccente (e non dimentico la sgradevolezza con la quale trattò una compagna bravissima come Ritanna Armeni, per le sue presenze in Tv, per altro molto apprezzate da milioni di telespettatori e da tutti i compagni che conosco). Passi per Asor, dicevo, ma le parole di Rizzo non posso far finta di non averle lette. E dopo averle lette ho provato un senso di tristezza e di pena. E poi mi son chiesto: ma questo Rizzo Marco non sarà mica lo stesso Rizzo, superpresenzialista, che frequenta ogni tipo di trasmissione televisiva con i La Russa, i Gasparri, e fa sempre a gara con loro a chi la spara più grossa? Ma no, sarà un caso di omonimia...
Torniamo seri, se si può. Quale purezza si intestano questi del Pdci? Quella del simbolo elettorale, sbiancato il giusto per “confondersi” con quello di Rifondazione? Voi dite: beh, ma sei troppo cattivo! Avete ragione, ma io non posso farci niente: oggi non mi trattengo...
Credo che si abbia fin troppo gioco facile per svelare quella che gli astuti “piddiccini” hanno eletto a vera e propria linea politica. Appostare Rifondazione comunista, come farebbe l’ispettore Derrik, in attesa dell’inevitabile passo falso! Oppure interpretare le intenzioni dei dirigenti di Rifondazione e agire secondo l’adagio “calunniate, calunniate, qualcosa resterà”.
Liquidato Armando Cossutta, con un sobrio stile da ruggenti anni ‘50, oggi si passa agli spiccioli di ortodossia per accomodarsi nei salotti virtuali della politica. Anche perché, è davvero difficile dire dove fossero questi custodi dell’unica religione civile del nostro Paese quando Bertinotti fece irrompere, dopo lunghissimi anni di silenzio, nell’aula della Camera le parole di Piero Calamandrei.
E poi, in quali lotte, in quali vertenze, in quali movimenti li avete mai visti? Quali masse europee convocheranno? Siamo sicuri solo di alcune sigle: Ansa, Agi, Ap, Dire, Reuters, Velino, Velina rossa, ecc.
Sono comunisti dal buco della serratura. Guardoni della nostra iniziativa politica. Volete qualche esempio? Fondiamo la Sinistra europea... il Pdci dice che è deviazione dalla storia dei comunisti. Rifondazione si schiera contro il Trattato europeo e contro l’esercito europeo…Il Pdci, viceversa, se ne fa alfiere e, quando i francesi lo bocciano per referendum, si affanna a dire che si è fatto un favore agli Usa (con enorme irritazione del Pc francese, protagonista di quella vittoria). O, più recentemente, le sceneggiate dentrofuori le riunioni per poter dichiarare, dall’Afghanistan all’indulto, solo che Rifondazione si era svenduta (agli americani, ai mafiosi, ai fascisti su marte… ma non si possono davvero ricordare tutte!).
Mi sa che il 16 settembre molti saranno i presenti al dibattito di Bertinotti alla festa dei giovani di An, sicuramente anche tanti compagni. E che non ci sarà, azzardo, una roboante “giornata antifascista” promossa da Rizzo.
Probabilmente alcuni di noi, proprio il 16 settembre, saranno a Catania. Lì ci sarà una manifestazione promossa dai Giovani comunisti, da organizzazioni gay, omosessuali, lesbiche, transgender, cui hanno aderito tante altre organizzazioni, protestando per un episodio in cui alcuni neofascisti, il 28 giugno scorso, hanno attaccato il corteo del Gay Pride. I fascisti, si sa, sono omofobi. Chissà se vedremo, almeno in quell’occasione, qualche rappresentante del Pdci insieme a noi. Non è detto: Rizzo, quando Rifondazione presentò Vladimir Luxuria candidato alla Camera, fu molto critico. Disse che i problemi degli omosessuali riguardano solo le libertà borghesi...