3.8.06

 
Liberazione 3.8.06
(a questo articolo fa riferimento l'articolo di Massimo Fagioli su LEFT del 11.8.06)
Clemenza e perdono, quei valori che la sinistra non ama
di Ritanna Armeni


C’è molta ipocrisia e poca logica in questi attacchi che si continuano a sferrare alla legge sull’indulto. Dimenticando ogni logica ci si indigna perché in seguito all’indulto approvato dal Parlamento escono dalle carceri italiane rapinatori e omicidi, spacciatori e delinquenti di ogni tipo. Come se le carceri fossero popolate da onesti e probi cittadini e l’indulto non riguardasse proprio esattamente chi ha commesso un reato.E con ipocrisia, soprattutto a sinistra, si continua a distinguere fra i “poveri cristi” che giustamente escono dal carcere e i ricchi che hanno rubato allo stato e alla collettività e quindi dovrebbero rimanere in carcere. Illustri professori e giornalisti, magistrati e fior di intellettuali fingono di ignorare che l’indulto, quello che fa uscire dalle carceri “i poveri cristi” nel nostro parlamento si ottiene solo con la maggioranza di due terzi e che quindi per fare uscire alcune migliaia di “poveri cristi” si deve fare uscire anche qualche manigoldo che povero cristo non è.
La legge sull’indulto proprio non va giù a tanta parte della sinistra. Perché? Perché questa insistenza e questo accanimento contro un provvedimento approvato da due terzi del Parlamento? Perché proprio da sinistra vengono questi attacchi? E spesso proprio dalla sua intellettualità: giornalisti, magistrati, scrittori?
Paolo Franchi sul Riformista e Piero Sansonetti su Liberazione si sono già posti questo problema e hanno dato una risposta. E’ vero quello che dice Franchi. Nella storia italiana di questi ultimi anni politica e giustizia si sono mischiate troppo e si è affermata l’idea che il compito della politica, il suo compito principale, sia fare giustizia. E’ vero quello che afferma Sansonetti quando mette in guardia la sinistra dalla confusione fra saggezza politica e consenso. E ricorda che sarebbe molto pericoloso che la politica seguisse i sondaggi e quindi - nel caso dell’indulto - si fosse adeguata all’opinione facile e corrente per cui chi sta in carcere lì deve rimanere e scontare la sua pena. Se si seguisse la pubblica opinione in Italia probabilmente sarebbe già instaurata la pena di morte.
Ma io credo che sotto questa resistenza ad accettare l’indulto soprattutto da parte degli intellettuali ci sia dell’altro. Ci sia una profonda resistenza ad accogliere nella propria cultura alcune parole e valori come “clemenza”, “perdono”, “comprensione”, “indulgenza”, “pietà”. Nella cultura della sinistra queste parole non hanno mai avuto asilo. Sono il contrario di forza, coerenza, rigore, parole che - si potrà facilmente constatare - abbondano nel discorso politico.
Le prime appartengono piuttosto alla tradizione e alla cultura cattolica di cui la sinistra per lungo tempo si è sentita avversaria. Nella tradizione storica della sinistra sono associate a debolezza, mancanza di rigore, collusione con il nemico. Ma soprattutto sono parole “femminili”, appartengono ad un universo di conoscenza e sapienza a cui la “rigorosa”, “forte”, “coerente”, “organica” intellettualità di sinistra è evidentemente ancora in gran parte estranea.
Niente di nuovo sotto il sole. Nella famiglia non è il padre colui che regola e punisce e la madre colei che consola e perdona? E lo stato anche a sinistra - come si sa - è e deve essere maschio.
Ovviamente non si vuole generalizzare. Se la legge sull’indulto è stata approvata lo si deve anche al fatto che la cultura delle parole forti e maschili non è più così egemone. Ma ancora oggi si fa fatica ad affermare il valore della clemenza e del perdono. Non è un caso se nel dibattito parlamentare e sui mass media per giustificare l’indulto si è preferito insistere ed enfatizzare un lato del problema, importante certo, ma non unico, come il sovraffollamento delle carceri e dare in questo modo al provvedimento una caratteristica di praticità, efficienza, realismo piuttosto che insistere sull’atto di clemenza e di perdono. E anche di nuova fiducia nei confronti di chi ha sbagliato.
Le domande a questo punto sono due: la clemenza e il perdono appartengono, possono appartenere ad una cultura di sinistra? E la loro affermazione contrasta davvero con il rigore e la legalità di cui in tanti si fanno paladini? Chi scrive crede che ne facciano parte. Negarli significa, infatti, attribuire totalmente e completamente al singolo individuo una colpa che proprio la sinistra dovrebbe sapere non è mai o non è mai sempre e completamente solo di chi la commette. La clemenza implica la comprensione, l’indulgenza; viene quando si va a fondo alle cause del crimine per migliorare ed educare non solo l’individuo, ma la società.
Applicare rigore e legalità significa riportare il colpevole nelle regole che la società si è data per non autodistruggersi sapendo però che sono sempre da perfezionare e da modificare. Il tossicodipendente che ha commesso violenze indica un problema che ci riguarda tutti. La sua punizione non ci esime dal comprendere e dal cambiare mentre si cerca di riportare il deviante nelle regole e nella legge. E la pietà e la comprensione sono fondamentali per cambiare a fondo quel che riteniamo dannoso alla convivenza sociale. La punizione ci vuole, ma da sola non basta perché concentra tutto sulla colpa dell’individuo ed esime da altre importanti indagini.
Per questo credo che oggi non sia “più a sinistra” chi critica e urla contro l’indulto ma chi si pone concretamente il problema di che cosa fare “dopo” l’indulto, perché chi è uscito dal carcere non ci torni, chi ci entra trovi condizioni umane, e chi deve rispondere alla giustizia lo possa fare in tempi rapidi e certi. Senza aver paura che questo stato per tanto tempo “padre” diventi anche “madre”

La Stampa 3.8.06
Ha citato Foucault...
Berlusconi: un regime di polizia tributaria
di Antonella Rampino

ROMA «Signori, l’Italia è ormai uno Stato di polizia tributaria!». Quando Berlusconi rispolvera il suo miglior repertorio, quello inaugurato già nella campagna elettorale del ‘94 sullo Stato che perseguita i cittadini a tali colpi di balzelli che se non se ne paga qualcuno è fisiologico, quando rispunta insomma il Cavaliere che «incita all’evasione fiscale», per dirla con Bersani, sono tutti accontentati. Non solo il centrodestra che balza applaudendo all’impiedi all’unisono, con le eccellenti eccezioni di Casini, Cesa e Tabacci che, senza scandalizzarsi del ricorso alla fiducia, aveva appena stigmatizzato le pulsioni monopoliste del centrosinistra, e parlato di una «concreta lotta all’evasione, all’erosione e all’elusione fiscale».
C’era il corri corri verso l’emiciclo di Montecitorio, ieri. Dei deputati del centrosinistra. No, non solo perché c’era da sostenere il governo Prodi che ha posto la fiducia sulla manovrina, a fronte di un centocinquanta ordini del giorno con i quali la Cdl si propone di fare filibustering sulle liberalizzazioni. Ma anche perché c’è Berlusconi che parla. E si attende un gran numero. All’Ulivo, la cosa brucia anche un po’: raccontano si sia studiato di far parlare un peone (gira il nome di Michele Ventura che peone davvero non è, trattandosi del leader dei dalemiani in Toscana) per dargli uno schiaffo morale. Ma è troppo rischioso: c’è la diretta televisiva. E infatti Berlusconi non delude, e non uscirà deluso dalla propria performance. L’abbrivo è «sul governo che espropria il Parlamento delle sue prerogative a colpi di fiducia», dice il leader che, quand’era presidente del Consiglio, proprio non si capacitava che dovessero votar tutti i parlamentari uno ad uno, e non solo i capigruppo. Ma rapidamente si arriva al dunque: «Mi meraviglia che gli esponenti della Margherita, ex democristiani, così impegnati a demolire ciò che di buono ha fatto il nostro Tremonti, abbiano dimenticato Ezio Vanoni, e lo abbiano sostituito con Visco». A cosa punti Berlusconi, con questa frase, lo si capisce solo dopo, solo in Transatlantico: «La situazione politica è fluida, se ci sono persone di buona volontà, si facciano avanti».
Ma in Aula, il primo applauso arriva puntuale, al primo colpo di teatro: «Questo è uno Stato di polizia tributaria! Uno Stato Grande Inquisitore che considera i cittadini tutti potenziali malfattori costretti a dar prova della propria innocenza, Visco vuol controllare i conti correnti, le liste dei fornitori, e che i pagamenti si facciano con assegni o carte di credito...». In discussione ci sarebbero provvedimenti che liberalizzano (un po’) i servizi, taxi e banche, gli ordini professionali, le tariffe notarili che i cittadini pagano quando comprano un’auto usata, ma il leader della Cdl si alza, inforca il suo discorso raccogliendo un monito che, al centrosinistra, aveva lanciato poco prima Gianfranco Fini: «Attenzione, la fiducia di oggi è grave. Ma se il governo intende metterla anche sulla Finanziaria, dimostrando che non c’è la sovranità del Parlamento, noi scenderemo in piazza». Ma come, «ma se loro hanno posto la fiducia su quattro finanziarie, delle cinque che han fatto quand’erano al governo...», fa sbigottito Bersani. Alla fine, «no, non è stato nemmeno divertente», scuote la testa il ministro Fabio Mussi, «è uno spettacolo che abbiamo visto troppe volte...Certo che Berlusconi è bravissimo, davanti alle telecamere. Quando ha citato Foucault e “Sorvegliare e punire”, volevo alzarmi e citare Levy Strauss, ma lui avrebbe forse pensato ai jeans...» fa il ministro Fabio Mussi con uno scampolo di sorriso.
C’è infatti la diretta televisiva. Le telecamere hanno già inquadrato lo striscione bianco-verde inalberando il quale la Lega ha lasciato l’Aula in segno di protesta, «Prodi=indulto +tasse +clandestini». Adesso, gli obiettivi sono puntati sull’interminabile applauso, con cori da stadio, «Silvio, Silvio, Silvio». Qualcuno sfotte: «Bacio! Bacio!». Impazienza verso Bertinotti dai banchi della maggioranza, perché non interviene? Bertinotti a gesti, e come faccio? Un minuto ancora, e poi ci prova. «Posso? Chiedo ai deputati se sia possibile che l’Assemblea svolga i suoi lavori».
Cicchitto: «Ma finiscila!». Bertinotti non la finisce, riprende la parola, un coro nuovamente da stadio stavolta lo interrompe. E a lui gli girano: «No! Questo non è ammissibile! Loro possono applaudire, ma non impedire al Presidente di parlare». Presidente, lei ha fatto bene a non impedire il coro a Berlusconi, dice il capogruppo dell’Ulivo Dario Franceschini iniziando il suo intervento, «perché ha finalmente avuto quell’applauso che la sua stessa maggioranza gli ha negato quand’era presidente del Consiglio». Altri boati, altre gazzarre. E non saranno nemmeno le ultime.

Il Giornale 3.8.06
Michel Foucault, un irregolare oltre la contestazione
di Duccio Trombadori

Un lucido avversario della tradizione filosofica occidentale - col primato della «coscienza» e della «ragione»: da Socrate, per intenderci, fino a Kant ed Hegel - quale fu Michel Foucault (1926-1988) non poteva non incontrare e privilegiare nella sua accanita riflessione il tema misterioso e sempre attuale della «follìa», come alter ego di ogni sistema di pensiero e suo indicibile «al di là».
A quasi vent'anni dalla scomparsa prematura di questo singolare esponente del cosiddetto «strutturalismo francese» (altri esponenti furono Louis Althusser e Jacques Lacan) due studiosi italiani ripropongono ancora oggi con evidente simpatia gli argomenti e gli scritti che portarono il pensatore dopo il '68 ad affiancare con le sue tesi la convulsa contestazione delle istituzioni psichiatriche (ma anche cliniche, carcerarie, ed altro) e lo fecero applaudire come indiscusso guru ideologico della sinistra radicale (Michel Foucault, Follia e Psichiatria. Detti e scritti 1957-1984, prefazione di Mauro Bertani e Pier Aldo Rovatti, Cortina, pagg. 280, euro 25,50).
Eppure Foucault non si riconobbe mai in pieno nella veste dell'intellettuale impegnato «a sinistra», per quanto la sua posizione di pensiero lo facesse apparire come il mentore di un libertarismo senza confini tanto sul piano dei costumi (la morale sessuale, eccetera) che su quello degli ordinamenti (lo Stato, i sistemi di governo).
La raccolta di testi e interviste rilasciate nell'arco di un trentennio (dalle riflessioni sui limiti di Freud e sull'«analitica esistenziale» di Binswanger alle ricognizioni sulle strutture del «sapere-potere» nel governo delle società moderne) ci restituiscono piuttosto l'immagine di un irregolare della cultura che nell'Europa della Guerra fredda ebbe tra l'altro il merito di mettere in questione proprio un luogo comune principe della ideologia «di sinistra» (riguardo alla concezione marxista e classista come «verità interna» della storia umana).
La storica e irrisolta questione della malattia mentale (da sempre una vera e propria bestia nera per la scienza moderna nella sua pretesa di rispondere integralmente alla domanda di conoscenza) diventava però per Foucault il grimaldello critico onde rilanciare la nota idea irrazionalista (ripresa pari pari da Nietzsche) secondo cui non si dà nel mondo altra «verità» oltre gli effetti di potere che una forma di cultura (pensiero e linguaggio) storicamente realizza.
Di qui a considerare la istituzione psichiatrica (il manicomio) come metafora del funzionamento di un intero sistema sociale (e del «sapere-potere» che lo informa) il passo era brevissimo. Michel Foucault lo percorse fino in fondo, in una sorta di «contro-sociologia» della cultura occidentale (dai Greci e i Romani fino ai tempi nostri) considerata più o meno come la maschera dei rapporti effettuali di potere che distinguono gli uomini, i gruppi sociali, le differenze sessuali, i «folli» e i «normali», eccetera.
Foucault si mosse così sulla strada irrazionalista già aperta dai principali «filosofi del sospetto» (Marx, Nietzsche e Freud) allo scopo di mettere in soffitta oltre alla metafisica di un Dio-creatore anche quella dell'Uomo-creatura e per ciò titolare della «coscienza» e del soggetto pensante.
In questa forzatura radicale del pensiero che «pensa contro la coscienza» (sottraendosi al suo stesso fondamento: fine del principio di realtà) Foucault perveniva per ciò a considerare il malato di mente come «ribelle del reale» ed utile cartina di tornasole per la comprensione autentica del mondo storico e della «cultura». Della follia come problema clinico, cioè come male da curare, al nostro filosofo «contro - ragione» (epigono tanto di Nietzsche quanto di Heidegger e del libertinismo surrealista francese) importava di conseguenza poco o nulla. Diversamente da come la pensano gli autori dell'antologia dei suoi scritti, secondo cui il pensatore sarebbe invece entrato in relazione addirittura «compassionevole» e di «amicizia» col mondo dei folli. Ma pretendere di individuare le tracce di una simile pietas è patente fin troppo lusinghiera per il disperato positivismo antiumanista di chi come Foucault sosteneva di pensare «nel vuoto dell'Uomo scomparso» considerando quest'ultimo nient'altro che un «prodotto del potere» piuttosto che il «soggetto» di valori universali, innati e più o meno trascendenti.

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