23.8.06

 
La Stampa 23.8.06
SOCIETÀ
DOPO IL DELITTO DI PERUGIA «MA LE MADRI USANO LA VIOLENZA PSICOLOGICA»
La guerra dei Roses sulla pelle dei bambini
«Percosse e minacce: dai padri separati 20 reati al giorno»
di l.d.i.

ROMA. Venti reati al giorno, oltre settemila all’anno, pochi omicidi ma molti episodi di violenze e minacce commessi da padri separati spesso per vendetta contro le ex mogli. Un problema che i fatti di cronaca hanno tristemente riportato sotto i riflettori. Maria Burani Procaccini (Forza Italia), presidente uscente della commissione parlamentare per l’infanzia, snocciola i dati, raccolti attraverso un’indagine del ministero dell’Interno. Si tratta di «reati di disperazione», chiarisce la Burani, «a cui bisogna guardare per comprendere il dramma di centinaia di migliaia di persone, un magma in cui poi si nascondono le follie latenti come quella consumatasi purtroppo ieri a Perugia». Un tema che investe anche la legge sull’affido condiviso approvata durante il governo di centro-destra e su cui interviene il sottosegretario del ministro della Famiglia Rosy Bindi, Chiara Acciarini. La legge non va cancellata ma ha dei difetti, sostiene la Acciarini che annuncia che il governo cercherà di modificarla con il contributo dell’opposizione.
Gli uomini non sono più colpevoli delle donne, è la reazione ad essere diversa, si difende Ernesto Emanuele, presidente dell'Associazione papà separati. «Spesso i padri o i genitori che non hanno ottenuto l’affido facilmente - dice - perdono la testa, gli uomini ricorrono alla violenza fisica, mentre le donne soprattutto alla violenza psicologica». L’indagine, che non comprende i reati di mancato versamento dell’assegno mensile a moglie e figli fa anche capire che bisogna sperimentare nei fatti la nuova legge sull’affido condiviso «per vedere se assicurerà davvero la bigenitorialità», dice la Burani. E soprattutto rende fondamentale monitorare il comportamento di entrambi i genitori. «Non vogliamo criminalizzare nessuno, è bene che ci sia una valutazione e che il bambino sia considerato detentore di diritti». Se la colpa non è tutta da imputare ai padri, è vero anche che l’87 per cento degli uomini non chiede l'affidamento «mostrando meno interesse per la sorte dei propri bambini». Ai padri, dunque, «bisogna far capire il valore della paternità. Il bambino viene visto come uno strumento per far del male alla consorte. L’uomo si rifà una compagna e dimentica le esigenze del bambino». Ma le madri, contro gli ex mariti, spesso usano l’arma di un’accusa infamante come quella di atti di libidine ai danni dei bambini per tenersi i figli, avverte dal canto suo Emanuele che fa notare anche che le denunce degli uomini contro le loro ex mogli vengono archiviate molto più spesso rispetto a quelle depositate dalle donne.
Sulla creazione di un’Authority per il bambino e l'unificazione della giurisdizione dei minori, chiesta dall’esponente di Fi replica il sottosegretario Acciarini. «Condivido la posizione del dialogo, non è una questione su cui dividersi, il ministro Bindi vuole mettere mano al diritto di famiglia in generale, all’istituzione del tribunale della famiglia». Ma innanzitutto monitorare la legge sull'affido, che ha lati positivi, come aver posto al centro l’interesse del minore, ma anche molte lacune. «Vogliamo capire cosa non va, la legge è stata fatta affrettatamente e sta dando problemi non indifferenti di applicazione. Faremo delle proposte e cercheremo il dialogo in Parlamento». Che abbia dei limiti lo riconosce anche Emanuele che con la sua associazione è stato tra i fautori dell’affido condiviso, «un grosso passo avanti perché nessuno dei due genitori ora ha il possesso totale del figlio e quindi ci vanno entrambi più cauti».
Sulla violenza contro i bambini la Acciarini propone un approccio ampio che affronti nel complesso la violenza all’interno delle pareti domestiche. Lo definisce «un problema culturale» che va risolto cercando di capire cosa può fare la scuola, come aiutare le madri vittime e complici delle violenze dei padri, «agendo indirettamente attraverso l’istruzione, soprattutto delle donne».

La Stampa Tuttoscienze 23.8.06
C’è una parte del cervello che può vedere Dio
LE «VISIONI» DEI PAZIENTI AFFETTI DA EPILESSIA CONFERMANO LA SCOPERTA
di Francesco Monaco
(Università A. Avogadro - Novara)

QUAL è il rapporto tra coscienza e religiosità? O meglio, perché l’uomo crede? Perché la fede è rimasta intatta, nonostante i progressi scientifici abbiano nel tempo svelato i misteri delle pestilenze, delle inondazioni, dei terremoti e persino della comprensione dell'universo? Nietzsche ebbe il coraggio di proclamare la morte di Dio e con la sua morte (1900) finisce l’epoca della modernità e si entra in quella della postmodernità, ovvero in un mondo di relativismo anche etico. Eppure, il suo provocatorio messaggio non è riuscito a scalfire in maniera sostanziale la naturale disposizione dell’uomo a credere in un essere superiore.
L’espansione del cervello Studi recenti e sempre più numerosi, eseguiti su cervelli di suore che pregano, monaci buddhisti in meditazione oppure pazienti con epilessia o bambini difficili, ci portano a dire, nel loro insieme, che l’evoluzione ha preparato nel tempo ciò che poi la società ha plasmato: un cervello (ovvero una parte dell’encefalo) per credere. Infatti, nello sviluppo del credo religioso un fattore fu rappresentato dalla rapida espansione dei nostri cervelli nel momento in cui la specie umana emerse e si distinse dalle scimmie. Todd Murphy, neuroscienziato dell’Università Laurentiana del Canada, afferma che, man mano che i lobi frontali e quelli temporali si ingrandirono, si sviluppò la nostra abilità di estrapolare e di fare previsioni rivolte al futuro e di formare memorie. Fummo pertanto in grado di acquisire muove e drammatiche abilità cognitive. Per esempio, riuscimmo a vedere un corpo morto e vedere noi stessi in quella posizione in un giorno a venire. In altri termini, riuscimmo a formulare un pensiero astratto del tipo: «Questo un giorno succederà a me». La consapevolezza di una morte incombente diede subito luogo a delle domande: perché siamo qui? Che succede quando moriamo? Erano quindi necessarie delle risposte.
Esperienze psicosensoriali Secondo Pascal Boyer (Washington University, Saint Louis, Missouri), una religiosità primitiva giocò un ruolo importante in questo senso, provvedendo alla creazione di codici morali tesi a incoraggiare legami fra gruppi, i quali, a loro volta, aumentarono le chances di sopravvivenza dei gruppi stessi. Un altro modo di avvicinarsi al problema della religione è quello di studiare pazienti con epilessia del lobo temporale (ELT), i quali sono proni a esperienze psicosensoriali così intense che loro le considerano essere visioni di Dio. Vilayanur S. Ramachandran (professore all’Università della California a San Diego), incluso da «Newsweek» tra i cento personaggi del «Club del secolo» che hanno più probabilità di dare un contributo importante alla società, ha osservato che un quarto dei soggetti con ELT da lui studiati riferivano esperienze religiose estremamente intense durante le crisi e sviluppavano, quindi, pensieri metafisici nei periodi intercritici. Pertanto, sulla base di questi e di altri studi, ritiene che esista una circuiteria neurale la cui attività porta a un credo religioso. In altre termini, nel cervello dei pazienti le crisi rafforzano alcune vie neurali connesse ad un nucleo specifico coinvolto nelle emozioni, l’amigdala, per cui vengono (nel caso) attribuiti significati emotivi eccessivi ad oggetti o eventi banali. Naturalmente questo non vuol dire che nel nostro cervello ci sia un «modulo divino», ma probabilmente possediamo circuiti che, evoluzionisticamente parlando, si sono specializzati per la fede.
Un esempio classico di un illustre paziente affetto da questa malattia è rappresentato da Fjodor M. Dostojevskij (1821-1881), il quale soffrì spesso di crisi epilettiche a contenuto psichico religioso o comunque di tipo estatico-mistico, ben rappresentate dal personaggio del principe Mishkin nel romanzo «L’Idiota»: «In quei momenti, che avevano la durata dei lampi, il senso della vita e la coscienza di sé quasi si decuplicavano. Mente e cuore si illuminavano di una luce straordinaria: tutte le emozioni, tutti i dubbi sembravano placarsi di colpo e risolversi in una calma estrema, piena di una serena armonia e di speranza, fino alla comprensione delle cause ultime».
Coscienza e anima
Il problema di Dio tormentò tutta la vita del grande scrittore russo, così come tormenta anche tutti i suoi personaggi tragici. Il tema mistico della «grande armonia» riecheggia nel celebre Discorso su Puskin che Dostoievskji pronuncia nel giugno 1880 a Mosca di fronte a una folla enorme, che partecipava all’inaugurazione del monumento al grande poeta, e nel quale egli esaltava la Russia come «nazione destinata a pronunciare la parola definitiva della grande armonia universale, del definitivo accordo fraterno di tutte le razze, secondo la legge del Vangelo di Cristo». Lo studio dei pazienti affetti da epilessia si conferma pertanto come un osservatorio privilegiato sui meccanismi della coscienza o - per dirla in maniera provocatoria, come il Premio Nobel Francis Crick - della stessa anima. Al di là delle considerazioni scientifiche, tuttavia, il credo religioso di massa continuerà. Negli Usa le religioni di maggior crescita sono i Mormoni e Scientology, soprattutto perché - secondo Boyer - sono nuove. In altre parti del mondo, invece, altre religioni, fondamentaliste, hanno successo perché offrono una chiara visione del mondo. Le neuroscienze possono valutare gli stati di coscienza, ma probabilmente non riusciranno a minacciare lo status della religione.
Sopravvivenza della specie Quanto il «credere» religioso sia positivo è oggetto di controversia. Certamente l’interferenza dei concetti e dei credi religiosi sul comportamento umano, soprattutto laddove essi siano fondamentalisti o settari, ha causato nei secoli forse più problemi al genere umano che vantaggi, e non è qui necessario fare esempi. Da un punto vista meramente laico, tuttavia, possiamo pensare che il credere in un principio trascendente e in una qualche ipotetica vita ultraterrena possegga a priori un formidabile messaggio consolatorio, del quale tutti, in fondo, abbiamo bisogno e che ha di fatto favorito nei millenni la sopravvivenza della specie Homo sapiens sapiens.

La Stampa Tuttoscienze 23.8.06
NEUROSCIENZE
L’amore rende più intelligenti
REAZIONI ACCELERATE SIA NELLE DONNE INNAMORATE SIA NELLE NEO-MAMME
di Paola Mariano

LA forza dell’amore non solo può spingere a gesti folli, ma mette le ali all’intelligenza, accelerando le performance cognitive.
La prova arriva da uno studio condotto dal Policlinico universitario di Ginevra e dal Dartmouth Functional Brain Imaging Center negli Usa: le donne colpite dalla freccia di Cupido, alle prese con i test cognitivi, hanno tempi di reazione più rapidi quando, inconsciamente, vengono indotte a pensare all’uomo di cui sono innamorate. Guai però a derubricare altri rapporti affettivi come meno forti dell’amore romantico. Grazie a un altro studio, presentato da Delia Lenzi dell’Università La Sapienza di Roma, emerge che la forza dell’amore materno non è da meno e, anzi, è capace di spostare mari e monti per il bene del bimbo. Le mamme, infatti, sviluppano un rapporto tale con le emozioni del proprio neonato da riuscire a decifrare in un battibaleno le esigenze manifestate dal piccolo. E’ comunque l’amore romantico, da sempre, il principio ispiratore per l’uomo, nella poesia, nell’arte, nella danza e nella musica. E ora i neuroscienziati si sono imbarcati nell’impresa di svelarne le basi neurali: lo hanno localizzato nelle aree nervose subcorticali e corticali, regno delle emozioni. Tuttavia questo non basta a risolvere uno dei quesiti più intriganti: perché l’amore fa bene? Il team elvetico ha iniziato a rispondere alla domanda esaminando le conseguenze dell’amore sulle funzioni cognitive più elevate e ha osservato che ardore, trasporto, passione e affetto, oltre ad essere la fiamma di una «love story», hanno il potere di far brillare l'intelligenza. Gli esperti sono andati al cuore del problema, esaminando le performance cognitive di un gruppo di donne, alcune delle quali travolte dalla passione amorosa. Tutte le donne si sono cimentate in esercizi lessicali, mentre venivano sottoposte per pochi millesimi di secondo a stimoli subliminali neutri, affettivi (come il nome di un amico) e, infine, romantici (come il nome della persona amata). Ed ecco la sorpresa: le donne innamorate - e soltanto loro - hanno mostrato tempi di reazione fortemente ridotti e anche una maggiore accuratezza nelle risposte ai test. Dal punto di vista funzionale questo corrisponde all’attivazione di aree neurali specifiche: con la risonanza magnetica funzionale, infatti, gli scienziati hanno osservato che il nucleo accumbens - un centro di piacere e gratificazione - è molto attivo quando l’innamorata è stimolata inconsciamente dal nome del partner. Questa attivazione non si registra, invece, tra chi non è stregata dalla forza dei sentimenti. Anche l’amore materno, d’altra parte, dimostra di essere un potente propulsore cognitivo: fa schizzare alle stelle la prontezza di mamma e le fa capire al volo i bisogni del neonato, anche se lui non sa ancora esprimerli a parole. Alla base di questa acutezza c’è l’empatia, la capacità di immedesimarsi nelle emozioni altrui, cruciale nelle relazioni interpersonali. Il legame unico che si instaura tra madre e figlio sembra essere la massima espressione di questa specifica abilità. Lo studio italiano, infatti, ha dimostrato l’unicità e l’utilità di questo attaccamento, osservando le risposte neurali di mamme che guardano fotografie di diversi neonati. Nel cervello di una mamma soltanto le immagini del proprio figlio attivano, oltre ai centri dell’empatia, anche aree corticali per la messa in atto di comportamenti utili a rispondere allo stato emotivo trasmesso dal viso del neonato. «Per esempio - racconta la Lenzi - quando il bimbo nelle foto piange, e si tratta del figlio, nelle mamme c’è una significativa attivazione delle aree dell’empatia e di tutto il sistema limbico, soprattutto della parte più istintiva che reagisce in situazioni di pericolo e di stress». Inoltre si registra anche una forte attività nell’area pre-supplementare motoria, che serve a tradurre le emozioni in azione, con la quale far interrompere il pianto, per esempio prendendo in braccio e consolando il piccolo. Al contrario, le emozioni dipinte sul volto di un bambino che non sia il proprio figlio non sono in grado di attivare in modo altrettanto intenso il cervello di una mamma. Così, se la tradizione si dilunga sui turbamenti, l’amore - romantico o materno - risulta uno straordinario moltiplicatore di acume e di intelligenza.
Il forte sodalizio tra la madre e il neonato, che assicura al piccolo una fonte di nutrimento e di protezione rispetto all’ambiente esterno, si instaura sotto l’effetto di «droghe» naturali (le endorfine), messe in circolo nel cervello del piccolo, in particolare nei circuiti del piacere. La scoperta sui topi, resa nota su «Science» da Francesca D'Amato dell'Istituto di Neuroscienze, Psicobiologia e Psicofarmacologia del CNR di Roma, potrebbe avere forti ricadute sullo studio di malattie come l'autismo, ma anche di ansia, depressione, insicurezza e disturbi dell'alimentazione.

il manifesto 23.8.06
Il Libano di Amnesty
di Guglielmo Ragozzino

E'in corso un'accesa discussione sulle regole d'ingaggio e sulle caratteristiche dell'intervento militare di interposizione tra Libano e Israele. La discussione finisce per coprirne un altro argomento: quello che riguarda «le responsabilità per le gravi violazioni del diritto umanitario commesse da Hezbollah e da Israele nel mese di conflitto». Occorre in proposito, secondo Amnesty International, «un'inchiesta urgente, esaustiva e indipendente da parte delle Nazioni unite». Sempre secondo Amnesty, «la distruzione di migliaia di abitazioni e il bombardamento di numerosi ponti, strade, cisterne e depositi di carburante (sono) parte integrante della strategia militare israeliana in Libano, piuttosto che «danni collaterali», derivanti da attacchi legittimi contro obiettivi militari». Amnesty ha aggiunto che alle «vittime civili, uccise sui due lati del conflitto, va resa giustizia». E Amnesty (servizio a pagina 5) insiste sul tema dei «crimini di guerra» che poi sono di due tipi, questa volta: uccisione inutile o meglio terroristica di civili e disastri ambientali: disastri dolosi.
Nel corso della guerra Amnesty ha svolto quattro missioni in Libano e Israele, raccogliendo informazioni e testimonianze di centinaia di persone su entrambi i lati del fronte, visitando i luoghi della guerra, le città abbandonate, i paesi rasi al suolo. Il quadro che ne risulta è di un'area distrutta da una sorta di terremoto ambientale e umano. Non che ci si possa stupire, la guerra ha proprio questo compito: distruggere gli insediamenti umani costruiti nel corso di secoli, le attività della vita, la natura, fatta di spazio, di spiagge, di acqua, di campi e città, di boschi e frutteti. I danni in euro si calcolano in migliaia di milioni, ma è un conto crudele e fine a se stesso. Quanto vale una vita di bambino? Da entrambi i lati del fronte qualche capo di guerra, ci sta riflettendo. Molte mamme, molti padri piangono.
Leggere i resoconti di Amnesty, poi riassunti nel suo documento proposto al pubblico e al consiglio di sicurezza del'Onu, è entrare in un mondo di desolazione, di ospedali sotto i colpi di cannone, di paesi e città bersagliati scientificamente dal mare, dal cielo, dalla terra. Solo fatti, nessuno sfogo di emozioni, nessuna parola superflua. Ma la visione della guerra e delle sue distruzioni di vite e di beni comuni è ugualmente intollerabile.
Ora bisogna ricostruire, muovendosi nelle strettoie delle regole d'ingaggio. Sul terreno ci saranno militari dappertutto, gli irriducibili che vorrebbero combattere, e gli altri, chiamati a interporsi, a impedirgli di ricominciare, a garantire che non ci siano errori o colpi di mano. Un compito arduo. Ma bisogna andare oltre, capire cosa è accaduto, trovare il modo di giudicare i responsabili. Il tribunale per i crimini guerra esiste per questo. E poi bisogna scegliere il da farsi. L'Italia sembra decisa a mandare moltissimi soldati, certo con l'intenzione di difendere il cessate-il-fuoco, un impegno assai più generoso di quello di ottenere il generalissimo e il copyright del codice d'ingaggio.
La spesa da stanziare, molto ingente, è considerata necessaria per il mantenimento della pace. E va bene. Ma non sarebbe meglio se gli stessi soldi potessero, in un domani, servire a ricostruire tutti i ponti, a riportare nelle case l'acqua necessaria per vivere, a rifondare alla vita, sicura, pacifica, le città di Haifa e di Beirut?

Corriere della Sera 23.8.06
Ricerca condotta da due psicologi della universitá di Princeton
Colpi di fulmine: basta un decimo di secondo
Uno studio su Psychological Science dice che in questo intervallo di tempo ci si può fare un'idea di chi si ha di fronte

PRINCETON - Basta un decimo di secondo per un colpo di fulmine. È sufficiente questa piccolissima frazione di tempo, infatti, per decidere se una persona merita la nostra fiducia, ci attrae, ci appare leale o, al contrario, faremmo meglio a stargli alla larga. Un decimo di secondo, dunque, per farsi un'idea di chi abbiamo di fronte basandoci sui tratti somatici del suo volto. A sostenerlo è una ricerca condotta da due psicologi della universitá di Princeton, pubblicata a luglio scorso su Psychological Science.
I due studiosi hanno mostrato a un campione composto da 200 partecipanti volti diversi chiedendo loro di osservarli per tempi differenti che si aggiravano tra i 100 e i 1.000 millesecondi. Così hanno potuto osservare che bastava un decimo di secondo perchè le persone sviluppassero un'impressione, positiva o negativa che fosse. Attraverso vari test, in cui variavano i tempi di esposizioni alle immagini, i ricercatori hanno potuto osservare che il giudizio maturato in un battito di ciglia, non variava di molto concedendo qualche istante in più al volto proposto. Semmai ad aumentare era la convinzione che la prima impressione era proprio quella giusta.

Liberazione 23.8.06
Missione Onu, se siamo pacifisti dobbiamo provarci
di Rina Gagliardi

Se fossimo molto ingenui, più di quanto ci impegniamo a non essere, dovremmo esprimere un forte stupore. Mentre su una missione militare certamente pericolosa, e di utilità politica pressoché nulla, come quella in Afghanistan, si sono sentite poche voci dissonanti (tutte comunque a sinistra), sul progetto Unifil per il Libano, così fortemente perseguito dal governo Prodi e dal ministro D’Alema, fioccano le perplessità e i dubbi, come raramente era accaduto. Non è perplessa soltanto la destra, per evidenti ragioni strumentali e ancor più evidente imbarazzo. Sono più che cauti, se non ostili, alcuni grandi giornali, come La Repubblica. Sono preoccupati i vertici militari. Sono incerti dirigenti di spicco dell’Unione. E sono diffidenti, forse per puntiglio ideologico, alcuni settori della sinistra radicale e del pacifismo. Da dove nasce una sfiducia così diffusa? Dalla paura, ovviamente. Una paura certo fondata. Nessuno è in grado oggi di garantire che la forza multinazionale di interposizione, destinata a dispiegarsi ai confini del Libano, riuscirà a svolgere con successo il suo compito essenziale: salvaguardare la fragile tregua in atto, ed anzi andare oltre, costruendo le condizioni di un effettivo processo di pace. Nessuno può giurare che, all’opposto, le forze che vogliono la guerra non usino i “caschi blu” a loro esclusivo vantaggio, per riorganizzarsi e imporre, a tempi relativamente brevi, la loro logica. E nessuno può escludere del tutto che, per il nostro Paese, per l’Italia, l’intera iniziativa possa risultare un “fiasco” politico e diplomatico - ancora oggi, alla vigilia di importanti summit europei, la Francia non ha chiarito le sue ambiguità, la Germania ha invece chiarito la sua determinazione a restarne fuori, altri Paesi, come la Spagna, non sembrano intenzionati a impegnarsi in Medio Oriente, se non con forze quantitativamente limitate. Insomma, come ha già detto il ministro Parisi, questa è sicuramente una missione «pericolosa»: non soltanto perché espone ad un rischio concreto la vita di molte persone, ma perché è davvero di grande difficoltà generale. E tuttavia queste considerazioni non esauriscono il problema. C’è ben altro, dietro (o sotto) dubbi, preoccupazioni, ostilità comunque comprensibili e “lecite”. C’è, a nostro parere, una posizione politica organica: che teme come il fumo negli occhi il possibile “nuovo inizio” di una nuova politica estera italiana. Non più appiattita sull’asse Washington-Tel Aviv, ma collegata fortemente all’Europa. Non più “fedele alleato” di una strategia di guerra, ma protagonista di un processo di pacificazione, certo difficilissimo, che ha la pace come propria e consapevole meta finale. Ed è su questo tipo di resistenza che conviene concentrare l’attenzione e la riflessione.
La drammatica situazione del Medio Oriente - è noto - affonda le sue radici in tragedie lontane, l’ultima delle quali è stata l’ultimo grande conflitto mondiale. Ora, però, essa si è fatta ancor più insostenibile: sta diventando, è già diventata, un luogo endemico di guerra - guerreggiata, simbolica, e perfino indiretta. Quella appena alle nostre spalle, con l’invasione israeliana del territorio libanese e i raid aerei di distruzione su Beirut, non aveva solo le caratteristiche di uno scontro “locale”: è stata, sotto molti aspetti, la prima prova di una guerra ancor più devastante, tra Stati uniti e Iran, tra Occidente e Islam fondamentalista. Nonostante il fallimento palmare della dottrina della “guerra preventiva”, nonostante l’apparente discesa dell’influenza neocons sulla politica mondiale di Bush, lo scontro delle civiltà resta in effetti una prospettiva in campo, che né il governo di Washington né lo schieramento occidentalista hanno davvero archiviato. Del resto, è proprio la politica dell’Occidente a determinare squilibri crescenti, e aree di crisi sempre meno controllabili, in termini tali che rendono la guerra una prospettiva sempre più incombente. Ne è un esempio concreto, e scottante, la crescita attuale della potenza e delle ambizioni egemoniche dell’Iran: essa è il frutto, uno dei frutti più concreti, della guerra americana all’Iraq, che ha distrutto, nella sostanza, il paese che costitutiva il più forte contraltare di Teheran (anche dal punto di vista dell’espansione del fanatismo religioso) e ha modificato in profondità l’equilibrio dell’intera regione.
Ora, certo, l’Iran di Ahmadinejad costituisce un pericolo molto serio, non solo per la sicurezza di Israele, non solo per le armi nucleari di cui può arrivare a dotarsi, ma per il ruolo ideologico, politico e militare che può svolgere nell’intero Medio Oriente devastato, instabile e sofferente - dove c’è un popolo, quello palestinese, al quale viene a tutt’oggi negato il diritto elementare ad uno Stato proprio, ad una condizione basica di dignità.
Ma come intervenire, allora, prima che la tendenza alla catastrofe divenga dominante, e incontrastabile? L’unica arma a nostra disposizione è anche quella più antica e allo stesso tempo moderna: la politica. L’unico soggetto che possa sperare di usarla, con successo, è anch’esso antico e moderno, l’Europa. E l’unico luogo in cui essa è immediatamente sperimentabile è proprio il Libano: per ragioni geografiche e geostrategiche, ma anche per ragioni politico-culturali. A tutt’oggi, con le sue 17 tra etnie e culti religiosi, con la sua mescolanza di islamici, cristiani maroniti, drusi e molte altre confessioni, il Libano è l’ultimo presidio mediorientale della tolleranza e della convivenza tra diversi: nel momento in cui o ricadesse, più o meno, in mani siriane, o dovesse subire, da capo, l’umiliazione dell’occupazione israeliana, il Libano perderebbe non tanto l’indipendenza, ma la sua natura di “terra di confine”. Nasce qui l’idea, per altro non nuova, di una forza multinazionale che, “interponendosi” tra il Libano e Israele, può forse in realtà “interporsi” tra le diverse soggettività politiche oggi tra di loro incompatibili. Un contingente che, ovviamente, non può né fare né vincere la guerra, ma che è al servizio di un progetto politico ben più ambizioso: ricostruire, nella regione, un “ordine politico ragionevole”, rispettoso dei diritti dei popoli, e capace di ripristinare vere regole di convivenza. Garantire la sicurezza degli israeliani, certo, come chiede ogni giorno il Corriere della sera, ma anche quella dei libanesi e degli arabi. Favorire, con la sua presenza, il processo di “costituzionalizzazione” di Hezbollah, e la sua integrazione nell’esercito libanese - oggi lontano dallo standard necessario di efficienza. Consentire alla pacificazione di tramutarsi in processo di pace, per il quale ovviamente serviranno ben altri strumenti - commissioni miste, conferenze, trattative - e molti altri protagonisti. Ma, senza questo primo passaggio, il processo neppure comincerà. Così come senza la conferenza di Roma, dagli effetti pratici così apparentemente ridotti non avrebbe potuto mettersi in moto il meccanismo essenziale che forse si va mettendo in moto: l’uscita dall’unilateralismo americano, la rottura di una prassi fondata sul fatto compiuto - gli Usa si muovono, l’intendenza seguirà. Essenziale, e rilevantissimo, è che esso si dispieghi sotto le bandiere, nient’affatto formali, dell’Onu. Da quanto tempo questa sigla - che è l’unica alternativa al governo imperiale del mondo - non compariva in una iniziativa internazionale consistente? E da quanto tempo l’Italia, il governo italiano, non compariva come prim’attore di un tentativo di questa natura? Proprio gli ostacoli che a tutt’oggi vi si frappongono, ne esaltano - se così si può dire - la necessità e il valore. L’Italia, come ci ha insegnato il mezzo secolo di potere democristiano, può fare una politica estera propria soltanto alla condizione di sbarazzarsi del suo statuto di colonia, e di esercitare, come può, la sua naturale vocazione al dialogo attivo tra Europa e Mediterraneo. Da questo punto di vista, la missione Unifil è anche un contributo concreto alla nascita - sempre drammaticamente tardiva - di un’autonoma soggettività europea.
Naturalmente, come dicevamo all’inizio, tutto questo, per ora, è soltanto un progetto. Importante, necessario e denso di rischi. Un progetto che implica un’assunzione vera di responsabilità, anche per chi - come noi - colloca la politica di pace (e il pacifismo, e la nonviolenza) al vertice della propria scala di valori. Se ci sono chiare le ragioni per le quali molti poteri più o meno forti, molti commentatori più o meno rispettabili, sono contrari alla missione libanese - e guardano preoccupatissimi all’ipotesi, molto oramai credibile, che essa abbia una leadership italiana - molto meno comprensibili ci sono le motivazioni analoghe e contrarie che spingono al no qualche area della sinistra radicale, e dei movimenti. Se si teme che i caschi blu possano risultare una mera “copertura” della non sopita aggressività del governo di Tel Aviv, si fa un’analisi distorta: Olmert, come del resto i “falchi” nordamericani, subisce l’iniziativa, dopo una campagna bellica che si è risolta, per lui, in un disastro, militare e politico, e che ha sfatato, forse per la prima volta in termini clamorosi, il mito della invincibilità dell’esercito di Israele. Se si ritiene che la politica del ministro degli esteri D’Alema resti, nell’insieme, subalterna agli interessi degli Usa e dell’occidente, si fa torto, ancora una volta, ai fatti: come hanno dimostrato le ruggenti polemiche sulla passeggiata libanese del nostro ministro degli esteri, e la sua capacità di dialogare con tutti, nessuno escluso, Hezbollah compresi. Se si dice che Unifil, in ogni caso, è solo il timido inizio di un processo che deve coinvolgere ben altri soggetti, luoghi e decisioni, si dice una mezza verità che, come spesso capita, finisce per farsi bugia intera. Per essere pacifisti conseguenti, oggi, è essenziale provarci. Provare ad esserci. Bandire ogni pur legittimo desiderio di fuga. E puntare tutto sul filo di speranza che abbiamo - per trasformarlo, magari, in una robusta gomena.

Il Riformista mercoledì 23 agosto 2006
SOCIALISTI. QUALE RIFORMISMO
Se la sinistra riscoprisse oggi la lezione di Riccardo Lombardi
DI CARLO PATRIGNANI
(il testo di questo articolo è disponibile solo in formato jpg (ca. 600KB): chi volesse riceverlo nella propria casella di posta elettronica può farne richiesta con una email a "segnalazioni"))

This page is powered by Blogger. Isn't yours?