24.8.06

 
l’Unità 24.8.06
La sinistra radicale: «Andare in Libano senza se e senza ma»
L’interposizione è un dovere per i pacifisti. Come il tentativo
di ricostruire «un ordine politico ragionevole» in Medio Oriente
di Wanda Marra

Roma «MISSIONE ONU, se siamo pacifisti dobbiamo provarci». Così titolava ieri l’editoriale di Liberazione a firma di Rina Gagliardi. Un’opinione in linea con la vera e propria campagna a favore dell’invio della forza internazionale in Libano che il quotidiano di Rifondazio-
ne sta portando avanti. E d’altra parte proprio il Prc è tra i più convinti sostenitori della missione, insieme al resto della sinistra radicale, che sembra in questa circostanza inaugurare una vera e propria svolta, dando l’assenso a una missione militare. Non poco per formazioni politiche che hanno manifestato contro la guerra in Iraq per una pace «senza se e senza ma» e che sono sempre state contrarie alla missione in Afghanistan. Ma la questione libanese, dicono, è tutt’altra cosa. È un contributo necessario alla pace.
Il contingente italiano, scrive la Gagliardi, «non può né fare, né vincere la guerra, ma è al servizio di un progetto politico ben più ambizioso: ricostruire, nella regione, un “ordine politico ragionevole”». Spiega l’autrice dell’articolo: «Noi avevamo chiesto questa missione, per frenare il conflitto in atto. E oggi questo è il dovere essenziale di un pacifista. E poi si tratta di un atto di forte discontinuità con la politica estera dell’Italia». A Castagnetti secondo il quale senza la Francia l’Italia non dovrebbe partecipare alla missione, fa da contraltare la posizione del viceministro degli Esteri di Rifondazione, Patrizia Sentinelli: «Un passo indietro dell'Italia? Sarebbe un errore», afferma, dando ragione a D’Alema «quando dice che dobbiamo comunque procedere» anche se la Francia ufficializzasse il suo ripensamento. Mentre il capogruppo del partito alla Camera, Migliore: «Bisogna assolutamente accelerare», dice, visto che «il tentennamento di alcuni paesi europei potrebbe far fallire il mandato dell'Onu».
Insomma il fronte radicale, tranne le perplessità espresse da qualche dissidente e che serpeggiano in qualche area dei movimenti è pro-Libano in maniera compatta. «Essere pacifisti non significa essere inermi - spiega la capogruppo dei Verdi-Pdci in Senato, Manuela Palermi - si tratta di cercare di mettere mano a quel conflitto». E spiega: «Si tratta di una missione di grande nobiltà, nella quale l’Italia ha svolto un ruolo di primissimo piano».
Mentre Angelo Bonelli, Presidente dei Verdi a Montecitorio, annunciache chiederà alla maggioranza di verificare la possibilità di utilizzare le truppe italiane presenti in Afghanistan per il Libano. Tra i pacifisti convinti della necessità della missione anche Alberto Asor Rosa: perchè in Libano, «ci si dovrebbe accontentare che fosse chiaro che in Libano non si va per colpire né per offendere nessuno né per fare operazioni di polizia».
Anche la sinistra Ds, seppure con toni più sfumati, è convinta della necessità di andare in Libano. «Sono favorevole alla missione di pace sotto l’egida dell’Onu, ma mi rimane qualche dubbio sulle regole d’ingaggio. Il compito centrale credo non possa essere il disarmo di Hezbollah, ma il mantenimento della tregua - dichiara Fulvia Bandoli (sinistra ecologista - certo ero più convinta quando si parlava di una forza con all’interno l’insieme dell’Unione Europea. Ma noi ci siamo spinti molto avanti». «In Afghanistan si andava a esportare la democrazia con la pace, qui si dà un contributo alla pace. È molto diverso - spiega Massimo Villone, area Salvi, tra i dissidenti che volevano votare no al rifinanziamento della missione a Kabul - piuttosto servirebbe un serio dibattito parlamentare». E Gloria Buffo del correntone afferna: «Questa missione deve servire a fermare la guerra e a rendere possibile un accordo per l’intero Medio Oriente. Anche se temo che qualcuno sul piano internazionalre speri nel fallimento di questa missione a favore di un insediamento di Israele nel sud del Libano».

Gazzetta del Sud 24.8.06
Psicologia. Si decide con un'occhiata se una persona è attraente o ispira fiducia
Basta un decimo di secondo per il colpo di fulmine
di Ferdinando De Francisci

ROMA – L'abito non fa il monaco, non giudicare il libro dalla copertina: proverbi per dire di non affidarsi alle semplici apparenze. In realtà, però, quando incontriamo una persona è la prima impressione quella che conta. Precisamente ci basta un decimo di secondo per decidere se qualcuno è attraente, leale e ci ispira fiducia. Il tutto molto velocemente, prima che la nostra parte razionale possa influenzare in qualche modo la reazione, perché le intuizioni su attrazione e fiducia sono le prime che si formano nella nostra mente. A dirlo è una ricerca condotta da uno psicologo dell'Università di Princeton, Alex Todorov, pubblicata sulla rivista «Psichological Science». «Il legame tra le caratteristiche del viso e il carattere – spiega Todorov – possono essere tenui, ma non impediscono alla nostra mente di giudicare le persone con un'occhiata. Decidiamo molto velocemente infatti se una persona possiede quei tratti che per noi sono importanti, come la simpatia e la competenza, anche senza averci scambiato una parola». Todorov e Janine Willis, coatrice della ricerca, hanno condotto diversi esperimenti su circa duecento persone. In una di queste prove hanno chiesto loro di guardare sessantasei facce diverse per tre tempi diversi, ciascuno di 100 millisecondi, 500 millisecondi e un secondo intero. Dopo che ogni faccia appariva per un attimo sullo schermo per poi svanire, dovevano indicare se avevano trovato quella che gli ispirava fiducia e anche quanto fossero sicuri della loro analisi. Con altri esperimenti condotti in modo simile hanno testato altre sensazioni, come simpatia e competenza. «Quello che abbiamo scoperto è che – continua Todorov – se si dava un'altra occasione, il giudizio delle persone su quei visi non cambiava. Chi osservava semplicemente diventava più sicuro della sua opinione, man mano che il tempo aumentava. Il motivo per cui il cervello formula giudizi istantaneamente non è ancora chiaro». Secondo lo psicologo, che ha studiato l'attività cerebrale con un particolare tipo di risonanza magnetica a immagini, la parte del cervello che risponde direttamente alla paura può essere implicata nei giudizi su fiducia e onestà. «La risposta alla paura coinvolge l'amygdala – prosegue – una parte del cervello che esiste negli animali da milioni di anni prima dello sviluppo della corteccia prefrontale, dove hanno origine i pensieri razionali. Abbiamo l'idea che la fiducia sia una risposta piuttosto sofisticata, ma in realtà le nostre osservazioni ci indicano che può essere un giudizio di alto profilo fatta da una parte del cervello molto semplice. Forse il segnale dell'emozione evita di passare dalla corteccia cerebrale». Tutto ciò non significa comunque, aggiunge Todorov, che «la prima e veloce impressione non possa essere superata con un ragionamento razionale. Una volta che il tempo passa e si conosce la persona – conclude – si sviluppa un'idea più generale e complessiva. Ancora non conosciamo le caratteristiche del viso che portano ad avere una tale deduzione. Quel che sappiamo è ciò che rende una faccia attraente, come la sua simmetria, le proporzioni delle sue parti e la somiglianza. Ma che cosa nel viso ci fa pensare che quella persona sia affidabile ancora non lo sappiamo. Questo sarà l'oggetto del prossimo studio».

Il Mattino 24.8.06
Giorello: «Il presupposto è la libertà»
di Corrado Ocone

Giulio Giorello, titolare della cattedra di filosofia della scienza che fu del suo maestro Ludovico Geymonat all’Università di Milano, è sicuramente il più noto epistemologo italiano. All’attività accademica, egli affianca da qualche tempo un’intensa attività pubblicistica volta soprattutto a difendere la libertà della ricerca scientifica dalle ingerenze dell’integralismo di ogni tipo: in primo luogo di quello della Chiesa cattolica sui problemi della bioetica. Il suo recente pamphlet in difesa della laicità (Di nessuna chiesa. La libertà del laico, pagg. 79, euro 7,50), edito dall’editore Cortina, è stato un vero e proprio successo editoriale: più di diecimila copie vendute. Con Giorello analizziamo in questa intervista problemi e risvolti connessi al tema della felicità, parola chiave di questo scorcio di nuovo millennio, indagata da molti festival della filosofia ma già a suo tempo messa a fuoco dai maestri dell’utilitarismo, nella cui scia il pensiero di Giorello si muove. Professor Giorello, converrà che la felicità sia un concetto difficile da definire. Di cosa si tratta? È uno stato d’animo e di benessere che dipende dall’interiorità di un individuo, o dalla realizzazione di un obiettivo ovvero di un progetto concreto a lui esterno? «In maniera forse un po’ schematica dividerei in due tipi le risposte date storicamente alla domanda da lei posta. Una prima grande famiglia di filosofi, il cui capostipite esemplare è Platone, ha ritenuto che la felicità fosse il conseguimento del sommo bene, di un’idea di bene ritenuta assoluta e ideale. E, poiché questo bene è valido per tutti, questi filosofi hanno spesso demandato alla macchina sociale, allo Stato, il compito di realizzare la felicità per tutti, con il rischio grave di promuovere forme più o meno forti di autoritarismo. Che si tratti di un obiettivo molto ambizioso e di un’idea di felicità molto esigente lo si può vedere anche in Kant, che lega la felicità alla virtù nella prospettiva di una rigida etica del dovere. C’è tuttavia un altro gruppo di filosofi, il cui massimo rappresentante è a mio avviso John Stuart Mill, che ha negato con forza che esista un sommo bene valido per tutti. Per costoro ognuno deve perseguire e conseguire, o credere di aver conseguito, la felicità a suo modo, a partire dai suoi gusti personali. Ognuno è giudice della sua salute fisica, psichica, morale, e lo Stato non devo impicciarsene più di tanto. Anzi, deve essere rispettoso di queste particolarità. A questa prospettiva di utilitarismo critico io mi sento molto affine». Ognuno è felice a modo suo, quindi. «La felicità è come la verità: non conta tanto il possesso di essa, quanto la sua ricerca costante. Si è felice se nessuno ci turba nei nostri sforzi per raggiungerla». Eppure, che la felicità fosse qualcosa di pertinente esclusivamente alla sfera privata non credo fosse pacifico per gli illuministi. Ci sono persino costituzioni, come quella americana, che la richiamano nel loro dettato. «L’illuminismo, come mi ha insegnato Geymonat, è un fenomeno molto complesso e variegato non riducibile ad una concezione univoca. L’idea illuministica è però a mio avviso l’unica concezione filosofica liberatrice, emancipatrice, progressiva. E l’illuminismo, in questo senso, è un fenomeno che continua anche oggi, così come continua la sua lotta contro l’oscurantismo. Quando esalto l’illuminismo, penso soprattutto all’ironia e all’intelligenza di Hume o di tanti pensatori scozzesi e irlandesi del Settecento. Tranne che in Rousseau, la felicità era comunque per tutti i grandi pensatori del Settecento individuale. E la Costituzione americana è molto chiara: non vuole garantire la felicità, ma il suo perseguimento da parte di ognuno». Però non abbiamo ancora definito il concetto... «Sì, ma perché esso è in qualche misura indefinibile. Si può dire che ognuno segue la propria natura e che nella ricerca di ciò che gli aggrada egli continua a esistere come individuo. Cioè, che è lo stesso, come essere libero e non servo come le bestie». Facendo un salto all’oggi, al concreto, come giudica il fatto che i modelli trionfanti nell’immaginario pubblico soprattutto popolare vedono nella ricchezza, nel lusso ostentato, nel benessere fisico e nel possesso di beni materiali la via della felicità? «Senza moralismi. E senza propormi nessun tipo di pedagogia, errore in cui cadono spesso i filosofi che tendono per natura a porsi un gradino più in alto degli altri individui. Sogno che ognuno possa perseguire a suo modo, in maniera libera e spregiudicata, la ricerca della felicità e magari credere di averla raggiunta. Anche se so bene che nessun obiettivo raggiunto può mai darcela in modo definitivo. E che spesso viviamo nell’illusione, solo nell’illusione, di averla raggiunta o di sapere in cosa consista. D’altronde, come filosofo, so bene che viviamo di illusioni e che la vita non andrebbe avanti senza di esse. Questo vale per chiunque, per chi è felice se possiede una bella macchina di lusso e per chi come me si accontenta di avere, come dice un vecchio proverbio irlandese, una borraccia di whisky sempre piena. Per chi della felicità ha un concetto spirituale e per chi lo ha fisico. Basta con le etiche cupe che vogliono insegnare agli altri come vivere! E basta con il guardare con stizza chi ha altri valori rispetto ai nostri. Giordano Bruno da una parte cantava l’eroico furore della ricerca scientifica, dall’altra scriveva che sarebbe stato felice se avesse avuto le seicento donne del re Salomone. Non mi sentirei di dire che chi cerca i beni materiali sia espressione di un mondo che ha perso la dimensione del senso. Non sono perciò d’accordo con le idee espresse recentemente sul vostro giornale da Sergio Givone: non si può far violenza ai gusti personali». Professore, in questa sua esaltazione dell’individuo lo Stato non può che essere minimo. Eppure l’idea di un paternalismo di Stato non sembra scomparire, come mostra la quantità abnorme di leggi e leggine che vorrebbero regolare ogni aspetto della nostra vita. «Con lo Stato bisogna usare il machete: tagliare il più possibile. Lo Stato papà mi fa paura: di padri ognuno di noi ne ha già avuto uno, e tanto basti. Per il resto, ripeto: che ognuno faccia sorgere il proprio sole dove vuole».

Repubblica 24.8.06
Lo strano caso di un genio invisibile
La storia misteriosa di Grigori Perelman, che ha risolto la "congettura di Poincaré"
di Piergiorgio Odifreddi

L’eccentrico personaggio è sparito da anni dall´università, più interessato alla raccolta dei funghi
Fa discutere la vicenda dello scienziato che ha rifiutato la Medaglia Fields, prestigiosa come un Nobel
Il disinteresse per premi e danaro può avere spiegazioni poco ovvie
Quando si riesce a dimostrare un teorema forse gli onori non contano

Come si può caratterizzare la forma del Paradiso dantesco? Sembrerebbe una domanda per critici letterari, e invece essa ha assillato i matematici per l´intero Novecento, diventando uno dei più importanti problemi aperti del secolo: tanto importante, da entrare a far parte della ristretta lista dei sette Problemi del Millennio descritti in un omonimo libro da Keith Devlin (Longanesi, 2004), per la soluzione di ciascuno dei quali il miliardario statunitense London Clay ha messo in palio nel 2000 un milione di dollari. Chiunque avesse pubblicato una risposta alla domanda in grado di superare lo scrutinio della comunità matematica per un periodo di almeno due anni, avrebbe intascato la somma. E, se di età inferiore ai quarant´anni, avrebbe anche sicuramente vinto la medaglia Fields, che costituisce l´analogo del premio Nobel per la matematica.
Sembrava che questo fosse il destino segnato per Grigori Perelman, un trentasettenne russo di San Pietroburgo che nel novembre 2002 e nel marzo e giugno 2003 mise in rete una serie di appunti nei quali abbozzava una soluzione del problema. Purtroppo quegli appunti non soddisfano le condizioni necessarie per l´assegnazione del premio Clay, non essendo mai stati riordinati in un vero e proprio articolo sottomesso alla revisione di recensori ufficiali, anche se le idee in esse contenute sembrano essere quelle giuste.
Paradossalmente, però, a vincere il milione di dollari potrebbe non essere lo stesso Perelman, che da allora è sparito dall´università e ha fatto sapere di essersi «dedicato ad altre cose», in particolare la raccolta di funghi, ma quattro matematici (Bruce Kleiner e John Lott da un lato, e Huai-Dong Cao e Xi-Ping Zhu dall´altro) che un paio di mesi fa hanno pubblicato una soluzione completa del problema che usa le sue intuizioni.
Ciò nonostante, all´apertura del quadriennale Congresso Internazionale di Matematica tenutasi l´altro ieri a Madrid il contributo di Perelman è stato riconosciuto dall´assegnazione della medaglia Fields. Ma ad accogliere l´onorificenza dalle mani del re di Spagna, il vincitore non c´era: il presidente dell´Unione Internazionale dei Matematici John Ball ha infatti annunciato che, in un lungo colloquio «educato e piacevole», egli l´aveva rifiutata. Apparentemente, né i soldi né gli onori riescono a stanare l´eccentrico matematico, che ha così emulato i due soli vincitori del premio Nobel che l´abbiano rifiutato spontaneamente: Jean-Paul Sartre nel 1964 e Le Duc Tho nel 1973.
Per capire un po´ meglio la formulazione del problema risolto da Perelman, ricordiamo che quando Dante guarda il Paradiso dalla Terra vede i cieli come una serie di sfere crescenti, che raggiungono un massimo nel Primo Mobile. Per guardare oltre viene accompagnato da Beatrice all´Empireo, dove vede le sedi angeliche come una serie di sfere decrescenti, che raggiungono un minimo in un punto abbagliante, che è Dio. Beatrice spiega paradossalmente che in realtà quel punto è la sfera maggiore, e racchiude tutto ciò che sembra racchiuderlo: l´universo dantesco si compone dunque di due serie di sfere distinte, una sensibile e crescente e l´altra celeste e decrescente, i cui centri sono rispettivamente la Terra e Dio.
Questa complicata struttura richiama le antiche rappresentazioni cartografiche della Terra mediante due serie di cerchi concentrici, centrati rispettivamente nei due poli. Chi guardasse la Terra dal Polo Sud vedrebbe infatti, come Dante, una serie di cerchi crescenti corrispondenti ai paralleli dell´emisfero meridionale, che raggiungono un massimo all´Equatore. Recatosi su questo, vedrebbe poi i paralleli dell´emisfero settentrionale come una serie di cerchi decrescenti, che raggiungono un minimo nel Polo Nord. Se però la Terra si aprisse come un fiore, i paralleli settentrionali circonderebbero quelli meridionali, e il Polo Nord si dispiegherebbe intorno a tutto.
La rappresentazione cartografica non è che un modo per rappresentare la superficie sferica della Terra sulla superficie piatta di un foglio, e renderla indirettamente comprensibile a esseri bidimensionali che non fossero in grado di percepire direttamente la sua sfericità nello spazio tridimensionale. Analogamente, la rappresentazione dantesca del Paradiso non è che un modo per rappresentare nello spazio tridimensionale la superficie di un´ipersfera, cioè di una sfera a tre dimensioni immersa nello spazio a quattro dimensioni, e renderla indirettamente comprensibile a esseri tridimensionali come noi, che non siamo in grado di percepire direttamente una quarta dimensione spaziale.
Dante ha dunque proceduto per analogia, inventando più o meno consciamente un´ipersfera tridimensionale che sta alla sfera bidimensionale, come questa sta al cerchio unidimensionale. Una bella intuizione, spiegata nei dettagli da Horia-Roman Patapievici in Gli occhi di Beatrice (Bruno Mondadori). E´ un´intuizione che anticipa di secoli l´analoga invenzione letteraria del delizioso romanzo dell´Ottocento Flatlandia di Edwin Abbott (Adelphi, 1993), che offre un´introduzione indolore alla geometria multidimensionale.
Dire che la struttura del Paradiso dantesco è un´ipersfera non è però una risposta alla domanda iniziale, ma solo una sua riformulazione: il vero problema matematico è come si possa caratterizzare l´ipersfera tra le altre superfici tridimensionali dello spazio a quattro dimensioni. Nel 1904 il matematico francese Henri Poincaré propose una soluzione in una nota a un suo lavoro, procedendo anch´egli come Dante: ovvero, per analogia col caso della sfera o, se si preferisce, della Terra.
Naturalmente, l´essenza della Terra non è di essere più o meno schiacciata ai poli, bensì di avere una forma più o meno sferica e non, ad esempio, a ciambella (per lo meno, di una riuscita col buco). Interessarsi dell´«essenza» e disinteressarsi del «più o meno» è la caratteristica della cosiddetta topologia, «scienza dei luoghi». E dal punto di vista topologico la Terra è caratterizzata dal fatto di essere l´unica superficie chiusa sulla quale i girotondi di persone si possono contrarre senza rompersi, fino a concentrarsi in un solo punto: se la Terra fosse fatta non come un pallone ma come un salvagente, i girotondi che girassero attorno al buco o attorno al salvagente non potrebbero contrarsi oltre un certo limite, così come nella vita reale non si potrebbe contrarre un girotondo che girasse intorno a un lago o a un palazzo.
Poincaré congetturò che la stessa cosa valesse anche per l´ipersfera: in altre parole, che il Paradiso fosse l´unica superficie tridimensionale per la quale tutti i girotondi di angeli si possono contrarre senza rompersi. Analoghe congetture si possono fare per le sfere a più dimensioni, e la cosa sorprendente è che esse furono risolte molto prima di quella originaria per l´ipersfera: precisamente, nel 1960 da Steven Smale per tutte le sfere a cinque o più dimensioni, e nel 1982 da Michael Freedman per la sfera a quattro dimensioni. Naturalmente, sia Smale che Freedman vinsero per questi lavori la medaglia Fields, nel 1966 e 1986.
Rimaneva dunque aperto soltanto il caso della sfera a tre dimensioni, che è appunto quello risolto da Perelman. Il quale era già un famoso matematico anche prima, come dimostra il fatto che fosse stato invitato a parlare al Congresso Internazionale del 1994 e avesse ricevuto nel 1996 il premio dell´Associazione Matematica Europea per i giovani talenti: un premio che, come si può immaginare, aveva rifiutato. Naturalmente media e pubblico traggono da questi comportamenti del giovane russo l´immediata deduzione che Perelman costituisca un´altra incarnazione del binomio «genio e pazzia», ma la realtà potrebbe essere meno ovvia e più profonda.
Quando per i miei Incontri con menti straordinarie (Longanesi) ho intervistato Andrew Wiles, il matematico più famoso del mondo, gli ho infatti domandato se era dispiaciuto di non essere riuscito a dimostrare il teorema di Fermat in tempo per vincere la medaglia Fields, e lui mi ha risposto: «Se uno dimostra il teorema di Fermat, non gli importa più molto della medaglia Fields». La stessa cosa vale per la congettura di Poincaré: se uno ha capito la struttura del Paradiso, probabilmente se ne fa un baffo della Terra, compresi i suoi abitanti e i poveri ricchi onori che essi dispensano.

l’Unità 24.8.06
IL CASO Mario Fiorentini, illustre matematico e partigiano, dice la sua sul perché il genio russo ha rifiutato la medaglia Fields
«E se il rifiuto di Perelman fosse politico?»

Cosa c’entra la «congettura di Poincaré», uno degli enigmi scientifici del secolo, con l’attacco partigiano di via Rasella? O la topologia, quella branca della matematica che studia le forme, con la lotta al nazifascismo? Ebbene, siccome le vie della storia sono infinite, una relazione esiste.
Tutto inizia due anni fa quando il matematico russo Grigory Perelman viene indicato come uno dei possibili vincitori della medaglia Fields, il Nobel della matematica (ma vedremo che la definizione è quantomeno impropria). Il premio doveva essere assegnato al genio sovietico per aver sciolto, appunto, l’annoso dilemma della «congettura di Poincaré». Un problema che affatica la comunità scientifica sin dalla sua proposizione nel 1904. Senonché Perelman - che già un mese fa in un intervista al mensile The New Yorker aveva definito «senza interesse» il riconoscimento - rifiuta l’altro ieri la medaglia. Fitto mistero sui motivi. Lo scienziato si limita a far sapere che per il momento non rilascerà interviste e di ricontattarlo «fra qualche mese». Fin qui è storia nota.
Tuttavia un’idea sui motivi che hanno indotto lo scienziato russo al «gran rifiuto» la avanza un altro illustre matematico, Mario Fiorentini. Già ordinario di Geometria superiore all’Università di Ferrara, alla carriera accademica è arrivato tardi. La laurea in matematica e fisica l’ha presa dopo la guerra. Prima no, c’era altro da fare.
Questo signore di oltre 80 anni ben portati fu infatti il «regista» dei gappisti che organizzarono l’attaco di Via Rasella il 23 marzo del’44. «L’autore del soggetto e della sceneggiatura», preferisce definirsi lui in un’intervista apparsa su queste colonne alcuni anni fa.
Oggi quest’uomo che ha vissuto da protagonista tanta parte del secolo ha qualcosa da dire sulle motivazioni che hanno spinto il suo collega russo a respingere il prestigioso riconoscimento (col conseguente premio in denaro).
Professore, quali possono esser stati i motivi che hanno indotto Peralman a rifiutare la medaglia Fields?
«Questo premio viene assegnato dal 1936 e ha trascurato i sovietici. Tenga conto che la scuola russa in questo campo era la più importante del mondo. Certo, anche gli americani ebbero, anche grazie all’immigrazione scientifica successiva alla guerra, una tradizione prestigiosa ma i russi allevarono praticamente dal nulla un’intera generazione di matematici. Generazione a cui non è andato, a mio avviso, il giusto riconoscimento. E poi c’è da fare una precisazione».
Dica
«Spesso si dice, e si scrive, che le medaglie Fields sono i Nobel della matematica. Non è così. Si tratta di un riconoscimento che viene dato ai giovani matematici - sotto i 40 anni- e quindi non un premio d’eccellenza assoluta. La verità è che “un Nobel” per la matematica non esiste».
Perché questo vuoto?
«Quando furono istituiti i premi Nobel, la matematica, al contrario di adesso, era la regina delle scienze. Di un premio neanche si sentiva il bisogno. Era meglio incoraggiare la fisica o l’astronomia».
Professore, ma lei la medaglia Fields l’avrebbe rifiutata?
«Respingere un riconoscimento, anche prestigioso, non è una follia. Sartre rifiutò il Nobel e Alessandro Grothendieck, il matematico, a mio avviso, più grande del ‘900, ebbe la medaglia Fields ma poi non accettò altri premi in denaro. Quello che posso dire rispetto a Perelman è che forse doveva accettare la medaglia per ricevere il denaro per poi devolverlo all’Unione dei matematici russi».

La Stampa 24.8.06
Cogne, è svolta
Cambia la difesa di Anna Maria
di Gianni Armand-Pilon

TORINO. Anna Maria Franzoni, la mamma di Cogne, lo dice e lo ribadisce: «Sono innocente. Non ho ucciso mio figlio Samuele». E quando manca un mese alla ripresa del processo davanti alla Corte d’Assise d’appello di Torino - lei unica imputata di omicidio volontario, una condanna in primo grado a 30 anni di carcere - prepara nella sua casa sull’Appennino emiliano l’ultima mossa a sorpresa in vista della sentenza: un nuovo avvocato da inserire nel collegio difensivo.
Ancora nulla di ufficiale, in cancelleria giurano che nessuna nomina è stata ufficialmente depositata. Ma c’è un nome che circola con insistenza negli ambienti giudiziari torinesi: quello dell’avvocato Claudio Maria Papotti. Penalista affermato, studioso di criminalistica e gran conoscitore della medicina legale. Il primo, nell’85, quand’era solo uno studente di Giurisprudenza con il pallino per i rilievi dattiloscopici, a scovare sulla pelle di una giovane slava uccisa a Torino l’impronta digitale del suo assassino. E c’è una strategia. Il legale non prenderebbe il posto dell’avvocato Carlo Taormina, ma ne potenzierebbe il ruolo in aula con un preciso compito tecnico: convincere la Corte che no, le macchie di sangue trovate addosso al pigiama di Anna Maria Franzoni non dimostrano nulla. O almeno non sono sufficienti a dimostrare che è stata lei a uccidere.
Perché al netto di tutto ciò che si è detto e scritto da quando il corpo del piccolo Samuele fu trovato con il cranio fracassato nel lettone di papà e mamma - 30 gennaio 2002, un mercoledì - è di questo che si parla. Di pezzi di stoffa e macchie di sangue, di schizzi e traiettorie. Tutto il resto - gli alibi e le testimonianze - sono indizi che stanno sullo sfondo dell’ultimo grande processo italiano. Elementi utili, se sommati alla perizia, a rafforzare la tesi della colpevolezza di Anna Maria. Ma pur sempre indizi e, nella visione difensiva dei Franzoni, senza alcun peso o quasi, una volta collocati al di fuori di un contesto incardinato sugli esami dei carabinieri del Ris.
Del resto, non sono forse discutibili le due perizie psichiatriche sulla madre di Samuele? Stesse carte, opposte conclusioni: una la indica sana di mente, l’altra parzialmente capace di intendere e di volere. E poi c’è la faccenda dell’arma del delitto. Un posacenere? Un minerale? Un mestolo? Una piccozza? Uno scarpone? Mistero. Uno dei tanti.
Certo, il compito che i Franzoni si preparano ad affidare all’avvocato Papotti è difficilissimo. E la loro mossa può apparire azzardata, forse persino disperata, quando mancano due o tre mesi appena al giudizio che sarà con ogni probabilità quello definitivo, salvo che la Cassazione ravvisi vizi formali nel processo. Ma alla fine di questa lunga estate di riflessioni trascorsa insieme al marito e ai figli, Anna Maria Franzoni appare più che mai determinata a dare battaglia. Già ha rifiutato di sottoporsi a un nuovo esame da parte degli psichiatri, e ha detto chiaro e tondo, con rabbia addirittura, che mai e poi mai accetterà di passare per una personalità border line, capace di uccidere il figlio e di dimenticare di averlo fatto, come sta scritto negli atti depositati in Assise. «Non voglio sconti di pena», insiste lei con chi le è a fianco. «Preferisco stare tutta la vita in carcere da innocente piuttosto che libera da colpevole». E a nulla servono i consigli di chi le dice di fare due conti, «la semi-infermità mentale può portare a riduzioni anche molto sensibili della pena». No: lei vuole l’assoluzione piena e «la caccia ai veri assassini di mio figlio», come ha ripetuto in aula al presidente Romano Pettenati.
Il quadro processuale indica che è una flebile speranza. Ma la famiglia di lei niente, non ne vuole sapere. E anche se adesso tutti smentiscono («Un’ipotesi senza alcun fondamento», taglia corto al telefono Stefano Lorenzi), ecco affacciarsi la tentazione di ricorrere all’avvocato-criminologo, difensore di tanti medici imputati in processi sanitari, dove ancora una volta contano le perizie, soltanto quelle, e la capacità delle parti di saperle leggere ed eventualmente smontare.
Del resto, il mondo è pieno di storie che sembrano già scritte, e che invece riservano un finale a sorpresa. Come l’ultimo caso, quello di Jonbenet Ramsey, la baby modella americana scomparsa nel dicembre 1996 e trovata morta strangolata nella cantina di casa, una villa a Boulder, nel Colorado. Anche lì un’inchiesta sotto i riflettori dei media, gli interrogatori, una montagna di perizie, poi i sospetti sui genitori. Prima la madre: l’ha uccisa in preda a raptus, dopo che la bambina aveva fatto la pipì a letto. Poi il padre: è stato lui, la molestava e per questo l’ha ammazzata.
Infine il proscioglimento di entrambi e adesso, a distanza di 10 anni, un ex maestro elementare che si fa avanti e confessa: «Sono io il colpevole». Forse è vero. Forse è un mitomane. Probabilmente nessuno lo saprà mai con certezza.

Liberazione Lettere 24.8.06
Legge 180. Basta con i luoghi comuni


Gentile direttore, scriviamo a proposito dell'articolo "Riformare la legge 180? Proposta catto-comunista", su "Liberazione" del 9 agosto 2006. Mai avremmo pensato di veder riproposti sul Vostro giornale i più vieti luoghi comuni usati da chi, in realtà, coltiva natichi pregiudizi sulla malattia mentale e non conosce o finge di non conoscere questa legge....la precisazione della senatrice Valpiana ha alquanto ridimensionato il problema, messo molto ben a fuoco anche dal Dott. Luigi Attenasio nel suo intervento del 10 agosto, tuttavia si continua a cincischiare e a rimestare, anche a sinistra, in un prontuario di argomentazioni che, francamente, emanano un profumo non proprio gradevole..."Oggi è giusto fare strutture sanitarie adeguate di trattamento e di cura", insista il Dott.Patrignani, e, ancora, "chi ha disagi psichici, se non vere e proprie patologie mentali, deve avere il luogo deputato al trattamento e alla cura" cioè, in parole povere, luoghi (chiusi e, possibilmente, anche privati) nei quali segregare (anche a vita) i pazienti: è proprio questo il contenuto della proposta di legge Buriani-Procaccinibocciata da un vasto movimento...Si tratta di espressioni che conosciamo molto bene, basate, quando non sulla malafede, sulla più grossolana ignoranza dello spirito e dei contenuti di quella nobile legge che, oltre a sancire la chiusura dei manicomi, modello e paradigma di ogni lager, detta semplicemente, le norme e le procedure per la effettuazione dei "Trattamenti santari obbligatori" (Tso) nel rispetto della dignità e dei diritti della persona. Si tratta, semmai, più che di modificare, di verificare se le garanzie previste dalla legge vengano correttamente osservate e abbiamo motivo di ritenere che numerosi abusi vengono ancora commessi...
Certamente un serio dibattito scientifico, un confronto sereno sulle molteplici esperienze effettuate in italia nello scorcio del secolo passato sarebbe aspicabile e, probabilmente, esremamente utile se fondato sulla obiettiva conoscenza dei fatti e non su confusi e contraddittori ammiccamenti a concezioni e modi di pensare che certamente hanno poco a che fare con una visione autenticamente progressiva della medicina e del mondo.

Marinella Cornacchia
presidente Associazione regionale per la salute mentale Onlus
Girolamo Digilio
presidente emerito
Quinto Carabini
vice-presidente

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