27.8.06

 
La Stampa 27.8.06
POLITICA
A GIORNI IL GRANDE VECCHIO CHE INCARNA LA TRADIZIONE DEL PCI COMPIRÀ 80 ANNI
Cossutta lancia un ponte verso Bertinotti
«Due partiti comunisti non hanno senso
Serve una nuova forza a sinistra dei Ds»
di Fabio Martini

ROMA. Mancano oramai pochi giorni al suo ottantesimo compleanno, ma Armando Cossutta è di quei comunisti all'antica che non si concedono al sentimentalismo: «Mi ritrovo in quanto mi ha scritto Aldo Tortorella, in risposta ai miei auguri per i suoi recenti 80 anni: «Non ci si accorge di diventare così vecchi, svolgendo un'attività che riguarda quello che si desidererebbe accadesse nel futuro. Il che allunga il presente». Il 2 settembre Cossutta festeggerà con moglie, figli e nipoti nella sua Milano, ma l'Armando è uno di quei comunisti che il giorno dopo ricomincia sempre, nonostante abbia lasciato più di un segno nella storia della sinistra italiana. Stalinista in gioventù e anche più tardi, a lungo è stato l'uomo di Mosca in Italia. Nel 1991, allo scioglimento del Pci, promuove la Rifondazione comunista, dalla quale si stacca nel 1998 per fondare il Pdci, nel tentativo di salvare il primo governo progressista nella storia d'Italia. E ora il fondatore del Prc e poi del Pdci scarta di nuovo, propone il superamento dei due partiti: «Credo che sia l'ora di lavorare per una grande sinistra, una forza di cui l'Italia ha bisogno. Manca oggi una Sinistra di massa, popolare, plurale». E chiamando "Sinistra" la nuova forza, proprio come Bertinotti, Cossutta lancia un ponte verso il presidente della Camera, col quale non parla da 8 anni.
In altre parole non hanno più senso due partiti comunisti?
«Fausto Bertinotti è certamente un uomo di sinistra, così come lo è Oliviero Diliberto, ma essi non sono la sinistra. Che è fatta di milioni di giovani, donne, lavoratori».
Meglio un unico partito della sinistra che due partiti in litigio tra loro?
«I compagni di Rifondazione sarebbe bene riflettessero su un dato: dopo 15 anni e pur in presenza di un'enorme visibilità mediatica, il Prc ha gli stessi voti ottenuti dopo un anno di vita: il 5,6-5,8% del 1992. Quanto al Pdci, vi è clamorosamente emersa una nuova maggioranza, permeata di una demagogia sempre più estremistica, spesso rozza. E sommando i voti dei due partiti, non si raggiunge nemmeno la percentuale di Rifondazione prima della separazione, l'8,7%». Ma il Pdci, pur di conquistare voti ai danni di Rifondazione, sembra diventato il sacerdote della purezza comunista: quanto è diverso dal "suo" Pdci? «Nel partito c'è stato uno stravolgimento della linea originaria, poi ribadita nei congressi. In questo modo si possono forse prendere voti in più, sfruttando la grande, interessata esposizione mediatica e puntando ad una differenziazione che fa notizia. Ma poi quanti voti in più? Sempre al 2% siamo! E senza un'analisi dei rapporti di forza e del contesto nazionale mi chiedo: lo stesso governo di centrosinistra è da considerarsi un passaggio "transitorio"? E forse per questo il Pdci non è entrato direttamente nel governo?».
Lei non sarà risentito per essere stato messo un po' in disparte nel suo partito?
«Nel Pdci è emersa clamorosamente una nuova maggioranza, permeata di una demagogia sempre più estremista, spesso molto rozza. Ho sentito persino qualcuno dire che i diritti civili non sono poi così importanti, quasi ci fosse una gerarchia di importanza con i diritti sociali. Il partito è politicamente emarginato, l'inziativa è in mano e l'ultima occasione è stata sprecata, dicendo no alla Lista "Arcobaleno", quando infantilmente si pretese di imporre il simbolo pdci agli altri. Non condivido questa linea e non ho più voluto avallarla in quanto presidente del partito. Non sono certo l'uomo di tutte le stagioni. Sono - e mi sento più che mai - liberamente comunista».
Il meno simpatico nei suoi confronti è stato Marco Rizzo.
«Marco Rizzo? Perché mi viene in mente quel verso bellissimo di Dante? Quello che diceva: "Nati non fummo per vivere come Bruti».
Pronto a riabbracciare i vecchi compagni di Rifondazione?
«Ho lasciato Rifondazione quando era proiettata verso il 10 per cento, pronta a diventare il riferimento per un nuovo, vero partito della sinistra. Ma il voto contro Prodi bloccò la prospettiva di un processo politico che - grazie al binomio autonomia e unità - poteva portare il Prc oltre le secche dell'autosufficienza».
Ma è pronto ad ammettere che la Rifondazione di oggi è molto diversa da quella del 1998?
«Pare che oggi il Prc abbia di fatto riconosciuto l'errore e che voglia indicare il suo superamento in una forza più ampia, quella della "Sinistra europea". Ma all'interno di Rifondazione le resistenze sono forti e la stessa proposta di un nuovo partito è vista dai più come un allargamento. Ma in questo modo non cambierebbe nulla o quasi».
La nuova formazione della Sinistra dovrebbe rinunciare a definirsi comunista?
«E' molto prematuro parlarne. In Germania per esempio i compagni dell'Est si sono uniti a Lafontaine in un nuovo Partito della Sinistra. Ma quel che conta è altro. Serve una grande sinistra che sappia unire e non dividere, che sappia estendere gli ideali di eguaglianza, libertà, laicità».
Lei resta togliattiano?
«Certamente».
Personaggio molto controverso il suo maestro...
«Ricordo la prima volta che lo vidi a Milano. Erano gli ultimi giorni di aprile del 1945, gli Alleati avevano sconsigliato Togliatti di fare un comizio in pubblico, lui si affacciò dal balcone della Federazione e disse soltanto: "Auguri a tutti e ci siamo capiti"».
Un carisma freddo, diverso da quello dei politici di oggi?
«L'indomani parlò a Sesto San Giovanni: a differenza dei vecchi tribuni comunisti e socialisti, la sua oratoria seguiva un ragionamento, era senza punti esclamativi. Mi conquistò».
Nella sinistra italiana chi ha raccolto la lezione di Togliatti?
«Mi guardo attorno e credo che Massimo D'Alema abbia introitato il pensiero e il metodo togliattiano anche se... non gli è facile applicarlo».
Lei ha riconosciuto che nei rapporti con i sovietici aveva ragione Berlinguer, ma sottoscriverebbe anche quanto confidò il socialista Riccardo Lombardi dopo le elezioni del 1948: "Ci siamo salvati da noi stessi"?
«Per niente. Sarebbe stata dura, anche nei rapporti con l'Urss, ma ne sono certo: in Italia non avremmo fatto come in Russia e neppure come in Jugoslavia».

Liberazione 27.8.06
Legge 180. Prendersi cura “delle persone”


Caro direttore, intervengo nella discussione su psichiatria e legge 180, condividendo la posizione di Giusy Gabriele, compagna da me conosciuta a Roma durante una riunione della commissione nazionale Sanità.
Avessimo in Campania dei direttori generali di questo tipo! A noi toccano invece situazioni come quella della Azienda sanitaria locale Napoli 2 nella quale la nuova dirigenza smantella un servizio psichiatrico che era stato negli anni passati, sotto la guida di specialisti competenti ed efficaci, il fiore all’occhiello dell’azienda. La manager Gabriele è competente ed esperta dal punto di vista gestionale ed amministrativo, anche grazie ad esperienze precedenti, e dimostra nella sua lettera di cogliere gli aspetti più concreti del problema posto nella lettera firmata da psichiatri della sua Azienda. Forse è vero, occorrerebbe operare di più e filosofeggiare di meno, considerando appunto che la 180 non relega gli operatori in un recinto normativo rigido, bensì lascia alle loro capacità ed alla loro dedizione, fatti salvi i principi informatori sui quali non è assolutamente il caso di discutere, la possibilità di agire e “prendersi cura dei pazienti” o, meglio, delle “persone“. Non entro nel merito dei rilievi fatti da Gabriele ai redattori della lettera non conoscendo quelle questioni interne, e però sposo l’idea di fondo secondo la quale è opportuno, se non doveroso, metterci del proprio, con intensità, nel lavoro che si svolge.

Massimo De Siena responsabile regionale Sanità Prc Campania


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