10.8.06
Liberazione 10.8.06
La senatrice del Prc smentisce di essere tra i “revisionisti”
Valpiana: «La 180 non si tocca e va applicata: è la migliore legge d’Europa»
di Alessandro Antonelli
Più di tutti ci aveva provato Francesco Storace, durante la sua fulminea apparizione al ministero della Sanità, prima di essere risucchiato nello scandalo Laziogate e cedere l'interim a Berlusconi, fino alla capitolazione di aprile. Rimettere mano alla 180, la legge “Basaglia” che nel 1978 aveva fatto chiudere i manicomi. Tentativo stoppato in extremis dal centrosinistra, con il sostegno di tutta la società civile ad eccezione di qualche associazione di familiari di malati psichici, disperatamente (e in parte innocentemente) convolti in un giochino elettorale azzardato dal morituro governo.
Una battaglia di civiltà, insomma, ha finora impedito che le minacce restauratrici si trasformassero in fatti. Ma la polemica si rinfocola stagionalmente. E anche quando non c’è, c’è sempre qualcuno che si incarica di riaccenderne una. Come quella di ieri, che attraverso un’audace e creativa ricostruzione da parte di un’agenzia di stampa - che putroppo ha “traviato” anche il nostro giornale (“Riformare la 180? Proposta cattocomunista”) - ha incluso tra i “revisionisti” la senatrice di Rifondazione comunista Tiziana Valpiana, componente della commissione Sanità a Palazzo Madama, affiancata alla collega Paola Binetti, del movimento Scienza e vita, in una inverosimile opera di restyling.
Secca la smentita della Valpiana: «Al giornalista che mi ha rivolto la domanda circa la necessità di cambiare la legge Basaglia ho risposto: assolutamente no. La 180 è una delle migliori leggi del paese, una conquista di civiltà che ci invidiano in tutta Europa». Il vero vulnus casomai, ragiona la senatrice, è la sua applicazione stentata: «Oltre la sacrosanta chiusura dei manicomi, la legge è stata poco e male apllicata, non sono mai state messe a disposizione le risorse necessarie per affrontare il problema sul territorio. Noi non vogliamo che le famiglie si sentano isolate».
Salute mentale: materia complessa e delicata, che ad ogni sussulto rischia di tracimare nel mare magnum degli equivoci e delle incomprensioni, alcuni generati in buona fede, altri, come quello di ieri, decisamente meno. Il ministro Livia Turco ha avuto il coraggio di riprendere in mano la sfida, mettendo la questione della sofferenza psichica tra i primi punti all’ordine del giorno del suo dicastero. La prospettiva è quella di un adeguamento delle strutture sanitarie per venire incontro ai disagi dei malati e delle loro famiglie, che talora si sentono abbandonate a se stesse, senza risorse e modalità di cura che rimpiazzino con efficacia il barbaro istituto delle prigioni psichiatriche. Come non essere d’accordo? Ma ciò non significa stravolgere la 180, magari per introdurre in modo surrettizio altri “contenitori istituzionali” e procedere nel solco della segregazione. Ipotesi respinta con forza da Psichiatria democratica: «E’ inconcepibile - spiega il segretario nazionale Emilio Lupo - che qualcuno predichi l’abbandono della 180 proprio mentre molti paesi europei cercano di adeguarsi ai principi ispiratori della legge Basaglia. Il problema vero è investire in una salute pubblica, facendo concorrere più attori, Stato, enti locali, terzo settore e volontariato, in un progetto in cui la famiglia del malato non sia lasciata sola, ma abbia un sostegno quotidiano. Tutto questo - conclude Lupo - va fatto con risorse adeguate che valorizziono gli operatori sanitari».
Risorse, è vero, ma anche un modo nuovo di guardare al disagio mentale e alle sue diverse manifestazioni, come suggerisce la senatrice Valpiana, puntando maggiormente sulla prevenzione: «Non si tratta solo di cura della malattia mentale, in questi anni sono cresciuti i disturbi delle abitudini alimentari e le depressioni: si tratta di prevenire questi comportamenti attraverso la ricostituzione di una cultura sociale».
Quanto all’oggetto del contendere, ennesimo tormentone estivo, nel programma dell’Unione non vi è alcun cenno alla volontà di stravolgere l’impianto della 180, una legge che per gli studiosi ha rivoluzionato la nostra cultura sanitaria ma soprattutto sociale, e ha restituito dignità al malato: persona e non più prigionierio.
(l'articolo che precede fa seguito all'altro apparso sullo stesso quotidiano in data 9.8.06 - vedi sotto - e ad esso sempre su Liberazione risponde Carlo Patrignani, autore del lancio AGI ripreso da Liberazione, in data 13.8.06 - vedi oltre-)
Liberazione 10.8.06
Psichiatria democratica: assurdo rinchiudere le “malattie”
La riforma Basaglia semmai aspetta di essere compiuta
di Luigi Attanasio e Angelo Di Gennaro
Dall’articolo “Riformare la 180? - proposta catto-comunista” apparso su Liberazione il 9 agosto veniamo a sapere a dir poco con stupore che il dibattito sulla revisione della 180 è aperto, questa volta però non da una destra in periodo pre-elettorale tesa a raccogliere qualche votarello di pochi familiari purtroppo diventati strumento di sterile propaganda, ma da autorevoli esponenti della maggioranza di centro sinistra.
A nulla è valso dunque il tentativo di stoppare il progetto della destra approvato fuori tempo massimo dalla Commissione Igiene e Sanità - ministro Storace - il quale prevedeva il ritorno ad una forma di manicomializzazione più o meno velata? Per noi, invece, la situazione è chiara già dal 1978 e lo abbiamo ribadito con forza, senza se e senza ma, in un articolo dal titolo “Il nuovo governo ricominci da Basaglia”, apparso sempre su Liberazione il 13 maggio scorso. Con la 180, legge di assistenza e cura, ma anche di civiltà e di democrazia, si è voluto manifestare lo sdegno della società civile che ha rifiutato così ogni sorta di segregazione umana in nome del diritto all’esistenza delle diversità culturali, politiche, psicologiche e sociali.
Non vogliamo che si metta mano o si manometta la 180 per tre motivi. Il primo: il programma del governo Prodi a pag. 186 afferma che «il tentativo ricorrente di ritorno al passato e di ri-manicomializzazione della salute mentale va respinto applicando per intero la legge 180»; perché non farlo, allora, invece di occuparsi adesso di riformare la 180? Che senso ha, se non quello di essere - forse - il frutto di una manovra compromissoria di cui non se ne conosce il disegno più generale?
Il secondo: è opportuno sapere che occuparsi di malattia mentale non è soltanto un atto “clinico”; è un modo per conoscere il mondo e la qualità delle relazioni che gli umani sviluppano tra loro; rinchiudere e nascondere tali relazioni, seppure “malate”, dentro un qualsisi tipo di manicomio vuol dire privarsi di una preziosa modalità per conoscere, impoverire e ridurre i nostri strumenti per vivere in salute. Noi di Psichiatra Democratica vogliamo continuare ad aiutare i cittadini con l’attuale assetto organizzativo, i Dipartimenti territoriali di salute mentale, migliorabili come tutto nella vita, ma non stravolgibili con l’apertura di nuovi contenitori istituzionali (strutture residenziali rigide) invece di risorse territoriali interconnesse al contesto di vita e di lavoro; vogliamo anche conoscere il mondo attraverso gli occhi delle tante persone che ci hanno accompagnato e ci accompagnano in questo lungo viaggio: utenti, familiari, amministratori, cittadini qualunque e democratici. Cancellare la 180 significa per noi invertire un percorso che ha permesso a vittime di crimini di pace, “oggetti” di violenza, di diventare protagonisti della propria cura e della propria vita.
Il terzo: il 13 luglio - come ha ben precisato Roberto Musacchio sempre su Liberazione del 14 luglio - si è concluso con un sì a larga maggioranza alla Commissione Ambiente e Salute del Parlamento Europeo, il voto sul rapporto Bowis per la salute mentale, documento che rappresenta un passo decisivo per un futuro senza manicomi nei Paesi dell’Unione europea; il rapporto segue l’approvazione del libro verde comunitario dove la salute mentale è considerata condizione fondamentale per il benessere dei cittadini e dunque un diritto da garantire a tutti, ed è largamente ispirato all’esperienza italiana della legge Basaglia, la 180, che chiuse i manicomi. Il rapporto fa seguito anche ad un viaggio compiuto circa un anno fa al Parlamento di Strasburgo da “44 matti” - noi compresi - in cui, con Giovanni Berlinguer e Roberto Musacchio, si sensibilizzarono i parlamentari europei e lo stesso presidente Borrell al fine di approvare una raccomandazione ufficiale agli Stati membri.
Per tutto questo diciamo no ad ogni forma di revisione della 180, ma piuttosto ne rivendichiamo la piena applicazione.
l’Unità 10.8.06
Il Tao del capitalismo e la sfida cinese
ORIENTE E OCCIDENTE
Qual è il segreto psicologico dello spettacoloso balzo economico della Cina di oggi? Un saggio del sinologo François Jullien sull’«efficacia cinese» prova a rispondere evocando l’antica filosofia orientale
di Bruno Gravagnuolo
Bisogna prendere il Giappone sul serio, si diceva nei decenni passati. E Taken Japan seriously fu il titolo di un celebre saggio di Ronald Dore, il sociologo della London School che ci invitava alla fine degli anni 80 a capire il miracolo giapponese, capace di stendere l’economia occidentale grazie ai suoi ingredienti: qualità totale, buddismo zen e welfare asiatico. Da allora tanta acqua è passata sotto i ponti. Il Giappone è andato in crisi sotto il peso di molteplici fattori: alti costi di welfare, finanza, riorganizzazione delle economie occidentali. E tra le tigri asiatiche è balzata al primo posto la Cina, tigre non più solo asiatica ma globale. Con ritmi di sviluppo e consumi di materie prime tali da sconvolgere gli equilibri dell’economia-mondo. Certo, non passa giorno che enfatici commentatori spediti sul posto non tessano le mirabilie della Cina moderna del dopo Tien An Men. Quella che rivaleggia ormai in skyline dei grattacieli con New York, e che vomita milioni di metri cubi di fabbricati nelle antiche e nuove città. E tonnellate di prodotti a costi infimi sui mercati del pianeta. E però quel che i commentatori non raccontano, oltre ai costi umani spaventosi - dalla violenza di stato alle classi differenziali per i più bravi a scuola - è «l’immaginario segreto» del gran balzo. La chimica dei pensieri vecchi e nuovi, e delle idee influenti che ne regolano nel profondo gli impulsi.
«Taken China seriously» e non più Japan, dovrebbe essere allora l’imperativo transculturale di oggi. E non per alimentare antichi fantasmi sul pericolo giallo di conio leghista e neoetnicista. Né per magnificare terrifici «palmares» di record da esibire a scorno delle pigre economie europee. Operazione stucchevole di chiara marca liberista. Ma per catturare i pensieri del gigante, la sua razionalità emotiva. Frutto di un sostrato culturale antichissimo, in grado di colonizzare e assimilare al suo interno anche la razionalità occidentale, ponendola al servizio di una spettacolosa esplosione di potenza. Un buon modo di cominciare, sulla scia del metodo di Dore, è la riflessione di un grande sinologo che è al contempo filosofo: François Jullien, storico della filosofia all’Università parigina di Saint Denis. Che alla Cina ha dedicato un’intera a vita con il piede in due staffe. In bilico tra pensiero occidentale e orientale, e sempre altrove, nell’atto di soggiornare in una delle due «polarità». Jullien, cultore oltretutto di estetica e psicologia, ha tenuto l’anno scorso una serie di conferenze sulla Cina, a beneficio di manager occidentali impegnati in quell’immensa arena. E ne ha ricavato un saggio agile e accurato in guisa di diario di viaggio interiore per chiunque voglia accostarsi al popolo dell’«Impero di mezzo» (così si autodefiniva la Cina imperiale centro di ogni cosa conosciuta). Il saggio si intitola Pensare l’efficacia (Laterza, pp. 102, Euro 10). Ed è un tentativo di penetrare la logica dell’azione riuscita finalizzata a scopi, da un punto di vista cinese. Ovvero la logica della prassi efficiente, del lavoro ben riuscito, del successo strategico in Cina. Dalla guerra, alla politica, all’economia, agli affari, e ogni altro procedimento trasformativo.
Sapienza indiretta
Commisurato a questa scala - astratta ma concretissima, Jullien ci si mostra così come una sorta di Matteo Ricci nell’atto di inoltrarsi nella psiche filosofica cinese. Con la non piccola differenza che mentre il gesuita di Macerata si dibatteva tra stupore e ansie di apostolato intelligente, il nostro studioso laico quello stupore lo ha deposto da tempo. E semmai, calandosi a pieno nella mentalità cinese ancestrale, ci fa provare lo stupore che un cinese oggi prova ancora per la mentalità occidentale, per quanto sia poi abituato a doverla utilizzare. In fondo quello di Jullien è un esperimento straordinario: strapparsi alle proprie radici (occidentali). Per riapprodarvi con occhio mutato, tornando a riconoscerle dopo averle abbandonate. Qual è il concetto cardine su cui Jullien batte e ribatte? È la differenza abissale tra due tipi di razionalità. Nella prima, quella occidentale, l’azione è guidata da un astrazione formalizzante figlia di un a-priori logico o di una concettualità deduttivo/induttiva, e proiettata nel futuro. Nella seconda viceversa la prassi è un assecondamento dei processi. Un’individuazione dei fattori portanti e dei «venti» che muovono le trasformazioni. Per «surfare» su di essi - dice così Jullien - e sbarcare alfine alla riva, sull’abbrivio delle forze in gioco. Dunque, da una parte scopi definiti e teleologia aristotelica della volontà progettuale, che piega a sé il tempo e lo accelera in via previsionale. Dall’altra sapienza indiretta, che si rende pieghevole alle linee del destino indeciso e aperto, «inclinato» a compiersi come che sia. L’esempio chiave che Jullen mobilita è quello dell’arte della guerra e delle discipline marziali. Laddove Von Clausewitz pianifica, prevede, include fattori extrabellici a monte e a valle, il generale «taoista» osserva, aspetta. Scruta la maniera di sfruttare il potenziale avversario a suo vantaggio, al fine di decomporlo e tesaurizzarne forza o slancio mal impiegato (dal nemico). È la stessa legge del Kung Fu, arte taoista per eccellenza, arte gentile. Dove la vittoria è assicurata signoreggiando equilibri e squilibri. Puntando a incrinare il baricentro dinamico dell’antagonista e a ritorcere la sua spinta aggressiva contro di lui. Dominando le leggi di gravità.
Certo il taoismo non conosce le leggi di gravitazione universale così come Newton le ha conosciute, matematizzandole. Ma senz’altro intuisce da un paio di millenni che la materia è fatta di corpi in sospensione dotati di accelerazione, moto e traiettoria. Oltre che di carica elettromagnetica. Ed è in virtù di tale intuizione che il divenire taoista procede per sussulti e assestamenti volti alla quiete e al ristabilimento di equilibri continuamente in trasformazione. Ben per questo il Tao del maestro Lao-Tzu, che in cinese significa «via, processo trasformativo», è una sorta di dialettica perenne circolare dove il cielo si congiunge con la terra. E dove il tempo è solo l’illusione del rimbalzo del divenire sulla soglia della coscienza. Talché ogni accadere è già accaduto, soltanto una modalità ripetitiva tra i molti «accaduti» possibili.
Le possibilità del Cielo
Ecco perché il generale cinese, dice Sun Tzu nella sua Arte della guerra (IV-V sec. a.C.), non dà battaglia, se non trascinatovi. Non forza la situazione. Non dichiara vittorie né si proclama enfaticamente vittorioso. Egli, spiega Jullien, è solo l’esecutore di una delle possibilità offerte dal Cielo. Cielo che non è insondabile mistero, ma la configurazione determinata delle forze venutasi a creare secondo la necessità immanente delle circostanze. E alla fine la vittoria avviene solo come colpo maestro finale. Come sanzione operativa di un epilogo a cui le circostanze ben assecondate spingono. Non c’è metafisica, e nemmeno determinismo in tutto questo (lo spiegò bene Fritjof Capra). Ma dominio duttile del fato, rinuncia alla retorica della «grande personalità». E soprattutto c’è compimento di un equilibrio cosmico, a dimensione ridotta nel caso di battaglie o imprese particolari. E ancora: niente futuro in questa visione. Niente pro-meteismo (nessuna métis/astuzia applicata all’avvenire). Niente previsionalità o trionfo della volontà. Al contrario: Wu Wei, come dice Lao-Tzu. Non fare. Ma non come inoperosità assoluta, bensì come quel «non fare, di modo che qualcosa sia fatto e che nulla perciò “non” sia fatto». Ovverosia, secondo la doppia negazione non ignota alla Cina - in maniera che alcunché si venga facendo, ma «attendendo».
Via i dualismi?
Bene si dirà, via i dualismi occidentali, via gli schematismi logici platonico-aristotelici, via le astrazioni progettuali illuministe. E però due obiezioni. La prima: non è arcinota anche al pensiero occidentale la dialettica? La logica dialetica delle processualità che scorge «i fattori portanti di insieme» oltre le sequenze deduttive e isolanti? Hegel in fondo non aveva anche lui gli occhi a mandorla? E con lui non li avevano il processuale Spinoza, e Vico, e gli storicisti e i romantici? E altra obiezione: la Cina di oggi non ha fatto sua la tecnica occidentale e in maniera ossessiva? Jullien risponde all’una e all’altra obiezione, ma non in modo esaustivo. Con l’osservare innanzitutto che il modo sintetico e «indiretto» della razionalità cinese se pur vi fu da noi , è stato episodico e non continuo nella tradizione occidentale. La sapienza polimorfa ed «ermeneutica» di Ulisse sarebbe così solo la traccia felice di un occidente arcaico e «presocratico» (ma non è vero!). E quanto ad Hegel è... solo una rondine che non fa primavera.
Viceversa la risposta dovrebbe essere un’altra, del tutto in linea del resto con l’argomentare di Jullien. Ciò che fa la differenza tra Hegel e Lao-Tse infatti non è la dialettica processuale dell’Uno inafferrabile, né il concetto del «vuoto», che nel filosofo tedesco è «semplicemente» l’annientamento continuo dei singoli momenti isolati del divenire. È semmai il Soggetto la vera differenza: la coscienza. Cioè la «memoria psico-logica» che in Hegel riassume e conserva il già accaduto e che governa in avanti il ritorno del tempo eterno. C’è spazio nell’occidentale Hegel per una avvenire governato, che tiene dentro di sè (come «sistema») tutto il mondo che via via si svolge. Laddove nel Tao, come nel buddismo Zen, prevale la smemoria della saggezza e la decostruttività perenne delle forme contigenti, inclusa la protervia della ragione astraente. Il divenire taoista rigioca sempre di nuovo la sua partita, sbriciola l’Io, e prescrive un Teh, una virtù che riscopre di continuo la sua «coappartenenza» al cielo circolare, dove gli opposti si inseguono e chiedono di essere decifrati sempre daccapo (luce e ombra, yin e yang). C’è forse una certa parentela del taoismo con la filosofia di Heidegger, che nel 1945 cominciò a tradurre il libro millenario de I Ching. Ed è una filosofia quella heideggeriana, che estrae l’Essere (come «legame vuoto» tra gli enti) dalla gabbia del linguaggio, ponendosi in ascolto della «verità come non nascondimento», a-letheia che «parla» i soggetti e non coincide mai con essi. E altro tratto comune è senz’altro poi il «non fare», nel senso già accennato. Quindi Wu wei cinese e Gelassenheit heideggeriana, come un «lasciar essere» o «lasciatezza», che non è «far niente».
Cavalcare la tecnica
Ma è tempo di venire all’altra questione: l’uso sfrenato della tecnica da parte cinese. Come si concilia col taoismo e col confucianesimo, di cui oltretutto v’è una forte riscoperta oggi in Cina? Presto detto. I cinesi post-maoisti hanno capito che il fattore portante del mondo è il globalismo. E che il mercato, che ha distrutto l’Urss, può invece salvare la Cina. In che modo? Dominandolo, introiettandolo. Assecondandone l’espansione ai fini della pura potenza tecnica, quella che nel mondo planetario chiede di essere assecondata a tutti i costi. Talché per la Cina di oggi è come costruire una diga gigantesca, plasmando gli individui sulla misura della Necessità Celeste. Utilizzando perciò la visione gerarchica e conservativa di Confucio: la Grande Armonia. Così come la compenetrazione con la necessità intima dell’azione tipica di un sforzo «zen», che aderisce al compito senza distinzione tra soggetto attivo e oggetto. In più, la lunga tradizione economica del dispotismo orientale - comunitaria ed efficientista - congiura magnificamente allo scopo, benché innestata sul «privatismo». E tuttavia - e qui Jullien ritrova tutta la sua acutezza - c’è un problema. Proprio la logica impersonale dell’«efficacia cinese» manca infatti di luce interiore. Manca del calcolo bilanciato degli effetti perversi scatenati dallo sviluppo paradossalmente divenuto prometeico. La Cina post-maoista in altri termini asseconda la cieca potenza espansiva in un mondo divenuto più piccolo in quanto globale e concatenato. Cozza così contro altri imperialismi consapevoli (consapevolmente fanatici) e attiva squilibri energetici, finanziari, interni ed esterni. Alla fine l’assenza di un progetto trasparente e di controlli democratici, genera accumulo non visto di resistenze, destinate ad esplodere anche su scala mondiale. L’auspicio conclusivo di Jullien è che l’Europa, come vera «terra di mezzo», sappia quindi mediare culturalmente. Esportando diritto cosmopolitico e saggezza diplomatica, volte a favorire stabili assetti di sicurezza geopolitici e geoeconomici. Messaggio tenue? Sì, ma saggio e a modo suo «orientale». Lanciato da un continente che ha già sperimentato la sua catastrofe di civiltà, al culmine della Confusione sotto il Cielo del 900.
La Stampa 10.8.06
POLITICA
IL PDCI E L’ALA RADICALE DI RIFONDAZIONE SI DICONO «SORPRESI E ADDOLORATI» E IL TROTZKISTA FERRANDO: «INCREDIBILE DERIVA»
Bertinotti alla festa di An, l’ira dei comunisti
ROMA. La partecipazione di Fausto Bertinotti alla festa dei giovani di Alleanza Nazionale, in calendario a Roma il 16 settembre, scatena la bagarre nella sinistra. «E’ peggio delle affermazioni di Luciano Violante su Salò», tuona l’eurodeputato Pdci Marco Rizzo, secondo cui la decisione del presidente della Camera di partecipare al confronto con Gianfranco Fini «è solo l’ultima delle tappe forzate a cui Bertinotti ha piegato Rifondazione, in una inflessibile e inarrestabile marcia verso la decomunistizzazione del partito». «Alla completa abiura di Bertinotti - prosegue Rizzo - mancava giusto quest'ultimo tassello: la fine dell'antifascismo». Gli fa eco il senatore Prc Fosco Giannini: «Rimango perplesso, sorpreso e addolorato - dice -: così in fretta siamo giunti a tanto? Un conto è il dibattito interno, sul quale ci possono pure essere differenze e confronti anche aspri. Altro conto è liquidare la propria storia, le proprie radici. E aggiunge: «Perché allora dare legittimazione agli eredi di Salò? Non è a mio avviso sufficiente una Fiuggi per cancellare la storia e le morti del nostro popolo».
Molto critici verso il presidente della Camera anche i trotzkisti. Marco Ferrando, segretario del Partito dei lavoratori ed ex esponente di Rifondazione, definisce «sconcertante» la decisione presa dal presidente della Camera e «senza limiti la deriva in atto del bertinottismo». Sulla stessa linea il senatore Prc Franco Turigliatto. «Io non ci andrei - dice - Terrei distinti i ruoli soprattutto in questo caso dove ci sono delle prospettive politiche all'opposto». Difende invece Bertinotti il capogruppo di Rifondazione Comunista al Senato Giovanni Russo Spena, secondo cui «da presidente della Camera Bertinotti non può non andare visto che è stato invitato da un gruppo presente in parlamento a prendere parte ad un dibattito culturale e non politico». E invita «Rizzo e chi la pensa come lui a stare tranquilli», perché, dice, «nella decisione del presidente della Camera non c'è nessuna ombra di revisionismo storico».
E mentre Francesco Storace commenta che «gli attacchi contro Bertinotti non fanno ridere ma indignano», e i giovani di Forza Italia invitano «la maggioranza e i suoi movimenti politici giovanili a condannare con forza le offese della sinistra radicale», Vittorio Sgarbi sottolinea che «i giovani di Alleanza Nazionale non sono Nosferatu». «Perché - ironizza - il buon Ferrando non considera che la motivazione con cui Bertinotti si reca potrebbe essere come quella di un apostolo? E cioè, per indurre alla conversione? Se è vero che a pagina 154 dell'”Antologia dei Poeti fascisti” è riportata una poesia di Pietro Ingrao del tredicesimo anno dell'era fascista, forse Bertinotti cerca nei giovani di An l'Ingrao mascherato del terzo millennio. Non mi resta che pensare - conclude - che, fosse stato per Ferrando, Bobbio, Bocca e Ingrao sarebbero rimasti fascisti».
La senatrice del Prc smentisce di essere tra i “revisionisti”
Valpiana: «La 180 non si tocca e va applicata: è la migliore legge d’Europa»
di Alessandro Antonelli
Più di tutti ci aveva provato Francesco Storace, durante la sua fulminea apparizione al ministero della Sanità, prima di essere risucchiato nello scandalo Laziogate e cedere l'interim a Berlusconi, fino alla capitolazione di aprile. Rimettere mano alla 180, la legge “Basaglia” che nel 1978 aveva fatto chiudere i manicomi. Tentativo stoppato in extremis dal centrosinistra, con il sostegno di tutta la società civile ad eccezione di qualche associazione di familiari di malati psichici, disperatamente (e in parte innocentemente) convolti in un giochino elettorale azzardato dal morituro governo.
Una battaglia di civiltà, insomma, ha finora impedito che le minacce restauratrici si trasformassero in fatti. Ma la polemica si rinfocola stagionalmente. E anche quando non c’è, c’è sempre qualcuno che si incarica di riaccenderne una. Come quella di ieri, che attraverso un’audace e creativa ricostruzione da parte di un’agenzia di stampa - che putroppo ha “traviato” anche il nostro giornale (“Riformare la 180? Proposta cattocomunista”) - ha incluso tra i “revisionisti” la senatrice di Rifondazione comunista Tiziana Valpiana, componente della commissione Sanità a Palazzo Madama, affiancata alla collega Paola Binetti, del movimento Scienza e vita, in una inverosimile opera di restyling.
Secca la smentita della Valpiana: «Al giornalista che mi ha rivolto la domanda circa la necessità di cambiare la legge Basaglia ho risposto: assolutamente no. La 180 è una delle migliori leggi del paese, una conquista di civiltà che ci invidiano in tutta Europa». Il vero vulnus casomai, ragiona la senatrice, è la sua applicazione stentata: «Oltre la sacrosanta chiusura dei manicomi, la legge è stata poco e male apllicata, non sono mai state messe a disposizione le risorse necessarie per affrontare il problema sul territorio. Noi non vogliamo che le famiglie si sentano isolate».
Salute mentale: materia complessa e delicata, che ad ogni sussulto rischia di tracimare nel mare magnum degli equivoci e delle incomprensioni, alcuni generati in buona fede, altri, come quello di ieri, decisamente meno. Il ministro Livia Turco ha avuto il coraggio di riprendere in mano la sfida, mettendo la questione della sofferenza psichica tra i primi punti all’ordine del giorno del suo dicastero. La prospettiva è quella di un adeguamento delle strutture sanitarie per venire incontro ai disagi dei malati e delle loro famiglie, che talora si sentono abbandonate a se stesse, senza risorse e modalità di cura che rimpiazzino con efficacia il barbaro istituto delle prigioni psichiatriche. Come non essere d’accordo? Ma ciò non significa stravolgere la 180, magari per introdurre in modo surrettizio altri “contenitori istituzionali” e procedere nel solco della segregazione. Ipotesi respinta con forza da Psichiatria democratica: «E’ inconcepibile - spiega il segretario nazionale Emilio Lupo - che qualcuno predichi l’abbandono della 180 proprio mentre molti paesi europei cercano di adeguarsi ai principi ispiratori della legge Basaglia. Il problema vero è investire in una salute pubblica, facendo concorrere più attori, Stato, enti locali, terzo settore e volontariato, in un progetto in cui la famiglia del malato non sia lasciata sola, ma abbia un sostegno quotidiano. Tutto questo - conclude Lupo - va fatto con risorse adeguate che valorizziono gli operatori sanitari».
Risorse, è vero, ma anche un modo nuovo di guardare al disagio mentale e alle sue diverse manifestazioni, come suggerisce la senatrice Valpiana, puntando maggiormente sulla prevenzione: «Non si tratta solo di cura della malattia mentale, in questi anni sono cresciuti i disturbi delle abitudini alimentari e le depressioni: si tratta di prevenire questi comportamenti attraverso la ricostituzione di una cultura sociale».
Quanto all’oggetto del contendere, ennesimo tormentone estivo, nel programma dell’Unione non vi è alcun cenno alla volontà di stravolgere l’impianto della 180, una legge che per gli studiosi ha rivoluzionato la nostra cultura sanitaria ma soprattutto sociale, e ha restituito dignità al malato: persona e non più prigionierio.
(l'articolo che precede fa seguito all'altro apparso sullo stesso quotidiano in data 9.8.06 - vedi sotto - e ad esso sempre su Liberazione risponde Carlo Patrignani, autore del lancio AGI ripreso da Liberazione, in data 13.8.06 - vedi oltre-)
Liberazione 10.8.06
Psichiatria democratica: assurdo rinchiudere le “malattie”
La riforma Basaglia semmai aspetta di essere compiuta
di Luigi Attanasio e Angelo Di Gennaro
Dall’articolo “Riformare la 180? - proposta catto-comunista” apparso su Liberazione il 9 agosto veniamo a sapere a dir poco con stupore che il dibattito sulla revisione della 180 è aperto, questa volta però non da una destra in periodo pre-elettorale tesa a raccogliere qualche votarello di pochi familiari purtroppo diventati strumento di sterile propaganda, ma da autorevoli esponenti della maggioranza di centro sinistra.
A nulla è valso dunque il tentativo di stoppare il progetto della destra approvato fuori tempo massimo dalla Commissione Igiene e Sanità - ministro Storace - il quale prevedeva il ritorno ad una forma di manicomializzazione più o meno velata? Per noi, invece, la situazione è chiara già dal 1978 e lo abbiamo ribadito con forza, senza se e senza ma, in un articolo dal titolo “Il nuovo governo ricominci da Basaglia”, apparso sempre su Liberazione il 13 maggio scorso. Con la 180, legge di assistenza e cura, ma anche di civiltà e di democrazia, si è voluto manifestare lo sdegno della società civile che ha rifiutato così ogni sorta di segregazione umana in nome del diritto all’esistenza delle diversità culturali, politiche, psicologiche e sociali.
Non vogliamo che si metta mano o si manometta la 180 per tre motivi. Il primo: il programma del governo Prodi a pag. 186 afferma che «il tentativo ricorrente di ritorno al passato e di ri-manicomializzazione della salute mentale va respinto applicando per intero la legge 180»; perché non farlo, allora, invece di occuparsi adesso di riformare la 180? Che senso ha, se non quello di essere - forse - il frutto di una manovra compromissoria di cui non se ne conosce il disegno più generale?
Il secondo: è opportuno sapere che occuparsi di malattia mentale non è soltanto un atto “clinico”; è un modo per conoscere il mondo e la qualità delle relazioni che gli umani sviluppano tra loro; rinchiudere e nascondere tali relazioni, seppure “malate”, dentro un qualsisi tipo di manicomio vuol dire privarsi di una preziosa modalità per conoscere, impoverire e ridurre i nostri strumenti per vivere in salute. Noi di Psichiatra Democratica vogliamo continuare ad aiutare i cittadini con l’attuale assetto organizzativo, i Dipartimenti territoriali di salute mentale, migliorabili come tutto nella vita, ma non stravolgibili con l’apertura di nuovi contenitori istituzionali (strutture residenziali rigide) invece di risorse territoriali interconnesse al contesto di vita e di lavoro; vogliamo anche conoscere il mondo attraverso gli occhi delle tante persone che ci hanno accompagnato e ci accompagnano in questo lungo viaggio: utenti, familiari, amministratori, cittadini qualunque e democratici. Cancellare la 180 significa per noi invertire un percorso che ha permesso a vittime di crimini di pace, “oggetti” di violenza, di diventare protagonisti della propria cura e della propria vita.
Il terzo: il 13 luglio - come ha ben precisato Roberto Musacchio sempre su Liberazione del 14 luglio - si è concluso con un sì a larga maggioranza alla Commissione Ambiente e Salute del Parlamento Europeo, il voto sul rapporto Bowis per la salute mentale, documento che rappresenta un passo decisivo per un futuro senza manicomi nei Paesi dell’Unione europea; il rapporto segue l’approvazione del libro verde comunitario dove la salute mentale è considerata condizione fondamentale per il benessere dei cittadini e dunque un diritto da garantire a tutti, ed è largamente ispirato all’esperienza italiana della legge Basaglia, la 180, che chiuse i manicomi. Il rapporto fa seguito anche ad un viaggio compiuto circa un anno fa al Parlamento di Strasburgo da “44 matti” - noi compresi - in cui, con Giovanni Berlinguer e Roberto Musacchio, si sensibilizzarono i parlamentari europei e lo stesso presidente Borrell al fine di approvare una raccomandazione ufficiale agli Stati membri.
Per tutto questo diciamo no ad ogni forma di revisione della 180, ma piuttosto ne rivendichiamo la piena applicazione.
Luigi Attenasio
Presidente Psichiatria Democratica Lazio
Direttore Dipartimento Salute Mentale ASL C di Roma
Angelo Di Gennaro
Psicologo e membro del Direttivo
di Psichiatria Democratica Lazio
Presidente Psichiatria Democratica Lazio
Direttore Dipartimento Salute Mentale ASL C di Roma
Angelo Di Gennaro
Psicologo e membro del Direttivo
di Psichiatria Democratica Lazio
l’Unità 10.8.06
Il Tao del capitalismo e la sfida cinese
ORIENTE E OCCIDENTE
Qual è il segreto psicologico dello spettacoloso balzo economico della Cina di oggi? Un saggio del sinologo François Jullien sull’«efficacia cinese» prova a rispondere evocando l’antica filosofia orientale
di Bruno Gravagnuolo
Bisogna prendere il Giappone sul serio, si diceva nei decenni passati. E Taken Japan seriously fu il titolo di un celebre saggio di Ronald Dore, il sociologo della London School che ci invitava alla fine degli anni 80 a capire il miracolo giapponese, capace di stendere l’economia occidentale grazie ai suoi ingredienti: qualità totale, buddismo zen e welfare asiatico. Da allora tanta acqua è passata sotto i ponti. Il Giappone è andato in crisi sotto il peso di molteplici fattori: alti costi di welfare, finanza, riorganizzazione delle economie occidentali. E tra le tigri asiatiche è balzata al primo posto la Cina, tigre non più solo asiatica ma globale. Con ritmi di sviluppo e consumi di materie prime tali da sconvolgere gli equilibri dell’economia-mondo. Certo, non passa giorno che enfatici commentatori spediti sul posto non tessano le mirabilie della Cina moderna del dopo Tien An Men. Quella che rivaleggia ormai in skyline dei grattacieli con New York, e che vomita milioni di metri cubi di fabbricati nelle antiche e nuove città. E tonnellate di prodotti a costi infimi sui mercati del pianeta. E però quel che i commentatori non raccontano, oltre ai costi umani spaventosi - dalla violenza di stato alle classi differenziali per i più bravi a scuola - è «l’immaginario segreto» del gran balzo. La chimica dei pensieri vecchi e nuovi, e delle idee influenti che ne regolano nel profondo gli impulsi.
«Taken China seriously» e non più Japan, dovrebbe essere allora l’imperativo transculturale di oggi. E non per alimentare antichi fantasmi sul pericolo giallo di conio leghista e neoetnicista. Né per magnificare terrifici «palmares» di record da esibire a scorno delle pigre economie europee. Operazione stucchevole di chiara marca liberista. Ma per catturare i pensieri del gigante, la sua razionalità emotiva. Frutto di un sostrato culturale antichissimo, in grado di colonizzare e assimilare al suo interno anche la razionalità occidentale, ponendola al servizio di una spettacolosa esplosione di potenza. Un buon modo di cominciare, sulla scia del metodo di Dore, è la riflessione di un grande sinologo che è al contempo filosofo: François Jullien, storico della filosofia all’Università parigina di Saint Denis. Che alla Cina ha dedicato un’intera a vita con il piede in due staffe. In bilico tra pensiero occidentale e orientale, e sempre altrove, nell’atto di soggiornare in una delle due «polarità». Jullien, cultore oltretutto di estetica e psicologia, ha tenuto l’anno scorso una serie di conferenze sulla Cina, a beneficio di manager occidentali impegnati in quell’immensa arena. E ne ha ricavato un saggio agile e accurato in guisa di diario di viaggio interiore per chiunque voglia accostarsi al popolo dell’«Impero di mezzo» (così si autodefiniva la Cina imperiale centro di ogni cosa conosciuta). Il saggio si intitola Pensare l’efficacia (Laterza, pp. 102, Euro 10). Ed è un tentativo di penetrare la logica dell’azione riuscita finalizzata a scopi, da un punto di vista cinese. Ovvero la logica della prassi efficiente, del lavoro ben riuscito, del successo strategico in Cina. Dalla guerra, alla politica, all’economia, agli affari, e ogni altro procedimento trasformativo.
Sapienza indiretta
Commisurato a questa scala - astratta ma concretissima, Jullien ci si mostra così come una sorta di Matteo Ricci nell’atto di inoltrarsi nella psiche filosofica cinese. Con la non piccola differenza che mentre il gesuita di Macerata si dibatteva tra stupore e ansie di apostolato intelligente, il nostro studioso laico quello stupore lo ha deposto da tempo. E semmai, calandosi a pieno nella mentalità cinese ancestrale, ci fa provare lo stupore che un cinese oggi prova ancora per la mentalità occidentale, per quanto sia poi abituato a doverla utilizzare. In fondo quello di Jullien è un esperimento straordinario: strapparsi alle proprie radici (occidentali). Per riapprodarvi con occhio mutato, tornando a riconoscerle dopo averle abbandonate. Qual è il concetto cardine su cui Jullien batte e ribatte? È la differenza abissale tra due tipi di razionalità. Nella prima, quella occidentale, l’azione è guidata da un astrazione formalizzante figlia di un a-priori logico o di una concettualità deduttivo/induttiva, e proiettata nel futuro. Nella seconda viceversa la prassi è un assecondamento dei processi. Un’individuazione dei fattori portanti e dei «venti» che muovono le trasformazioni. Per «surfare» su di essi - dice così Jullien - e sbarcare alfine alla riva, sull’abbrivio delle forze in gioco. Dunque, da una parte scopi definiti e teleologia aristotelica della volontà progettuale, che piega a sé il tempo e lo accelera in via previsionale. Dall’altra sapienza indiretta, che si rende pieghevole alle linee del destino indeciso e aperto, «inclinato» a compiersi come che sia. L’esempio chiave che Jullen mobilita è quello dell’arte della guerra e delle discipline marziali. Laddove Von Clausewitz pianifica, prevede, include fattori extrabellici a monte e a valle, il generale «taoista» osserva, aspetta. Scruta la maniera di sfruttare il potenziale avversario a suo vantaggio, al fine di decomporlo e tesaurizzarne forza o slancio mal impiegato (dal nemico). È la stessa legge del Kung Fu, arte taoista per eccellenza, arte gentile. Dove la vittoria è assicurata signoreggiando equilibri e squilibri. Puntando a incrinare il baricentro dinamico dell’antagonista e a ritorcere la sua spinta aggressiva contro di lui. Dominando le leggi di gravità.
Certo il taoismo non conosce le leggi di gravitazione universale così come Newton le ha conosciute, matematizzandole. Ma senz’altro intuisce da un paio di millenni che la materia è fatta di corpi in sospensione dotati di accelerazione, moto e traiettoria. Oltre che di carica elettromagnetica. Ed è in virtù di tale intuizione che il divenire taoista procede per sussulti e assestamenti volti alla quiete e al ristabilimento di equilibri continuamente in trasformazione. Ben per questo il Tao del maestro Lao-Tzu, che in cinese significa «via, processo trasformativo», è una sorta di dialettica perenne circolare dove il cielo si congiunge con la terra. E dove il tempo è solo l’illusione del rimbalzo del divenire sulla soglia della coscienza. Talché ogni accadere è già accaduto, soltanto una modalità ripetitiva tra i molti «accaduti» possibili.
Le possibilità del Cielo
Ecco perché il generale cinese, dice Sun Tzu nella sua Arte della guerra (IV-V sec. a.C.), non dà battaglia, se non trascinatovi. Non forza la situazione. Non dichiara vittorie né si proclama enfaticamente vittorioso. Egli, spiega Jullien, è solo l’esecutore di una delle possibilità offerte dal Cielo. Cielo che non è insondabile mistero, ma la configurazione determinata delle forze venutasi a creare secondo la necessità immanente delle circostanze. E alla fine la vittoria avviene solo come colpo maestro finale. Come sanzione operativa di un epilogo a cui le circostanze ben assecondate spingono. Non c’è metafisica, e nemmeno determinismo in tutto questo (lo spiegò bene Fritjof Capra). Ma dominio duttile del fato, rinuncia alla retorica della «grande personalità». E soprattutto c’è compimento di un equilibrio cosmico, a dimensione ridotta nel caso di battaglie o imprese particolari. E ancora: niente futuro in questa visione. Niente pro-meteismo (nessuna métis/astuzia applicata all’avvenire). Niente previsionalità o trionfo della volontà. Al contrario: Wu Wei, come dice Lao-Tzu. Non fare. Ma non come inoperosità assoluta, bensì come quel «non fare, di modo che qualcosa sia fatto e che nulla perciò “non” sia fatto». Ovverosia, secondo la doppia negazione non ignota alla Cina - in maniera che alcunché si venga facendo, ma «attendendo».
Via i dualismi?
Bene si dirà, via i dualismi occidentali, via gli schematismi logici platonico-aristotelici, via le astrazioni progettuali illuministe. E però due obiezioni. La prima: non è arcinota anche al pensiero occidentale la dialettica? La logica dialetica delle processualità che scorge «i fattori portanti di insieme» oltre le sequenze deduttive e isolanti? Hegel in fondo non aveva anche lui gli occhi a mandorla? E con lui non li avevano il processuale Spinoza, e Vico, e gli storicisti e i romantici? E altra obiezione: la Cina di oggi non ha fatto sua la tecnica occidentale e in maniera ossessiva? Jullien risponde all’una e all’altra obiezione, ma non in modo esaustivo. Con l’osservare innanzitutto che il modo sintetico e «indiretto» della razionalità cinese se pur vi fu da noi , è stato episodico e non continuo nella tradizione occidentale. La sapienza polimorfa ed «ermeneutica» di Ulisse sarebbe così solo la traccia felice di un occidente arcaico e «presocratico» (ma non è vero!). E quanto ad Hegel è... solo una rondine che non fa primavera.
Viceversa la risposta dovrebbe essere un’altra, del tutto in linea del resto con l’argomentare di Jullien. Ciò che fa la differenza tra Hegel e Lao-Tse infatti non è la dialettica processuale dell’Uno inafferrabile, né il concetto del «vuoto», che nel filosofo tedesco è «semplicemente» l’annientamento continuo dei singoli momenti isolati del divenire. È semmai il Soggetto la vera differenza: la coscienza. Cioè la «memoria psico-logica» che in Hegel riassume e conserva il già accaduto e che governa in avanti il ritorno del tempo eterno. C’è spazio nell’occidentale Hegel per una avvenire governato, che tiene dentro di sè (come «sistema») tutto il mondo che via via si svolge. Laddove nel Tao, come nel buddismo Zen, prevale la smemoria della saggezza e la decostruttività perenne delle forme contigenti, inclusa la protervia della ragione astraente. Il divenire taoista rigioca sempre di nuovo la sua partita, sbriciola l’Io, e prescrive un Teh, una virtù che riscopre di continuo la sua «coappartenenza» al cielo circolare, dove gli opposti si inseguono e chiedono di essere decifrati sempre daccapo (luce e ombra, yin e yang). C’è forse una certa parentela del taoismo con la filosofia di Heidegger, che nel 1945 cominciò a tradurre il libro millenario de I Ching. Ed è una filosofia quella heideggeriana, che estrae l’Essere (come «legame vuoto» tra gli enti) dalla gabbia del linguaggio, ponendosi in ascolto della «verità come non nascondimento», a-letheia che «parla» i soggetti e non coincide mai con essi. E altro tratto comune è senz’altro poi il «non fare», nel senso già accennato. Quindi Wu wei cinese e Gelassenheit heideggeriana, come un «lasciar essere» o «lasciatezza», che non è «far niente».
Cavalcare la tecnica
Ma è tempo di venire all’altra questione: l’uso sfrenato della tecnica da parte cinese. Come si concilia col taoismo e col confucianesimo, di cui oltretutto v’è una forte riscoperta oggi in Cina? Presto detto. I cinesi post-maoisti hanno capito che il fattore portante del mondo è il globalismo. E che il mercato, che ha distrutto l’Urss, può invece salvare la Cina. In che modo? Dominandolo, introiettandolo. Assecondandone l’espansione ai fini della pura potenza tecnica, quella che nel mondo planetario chiede di essere assecondata a tutti i costi. Talché per la Cina di oggi è come costruire una diga gigantesca, plasmando gli individui sulla misura della Necessità Celeste. Utilizzando perciò la visione gerarchica e conservativa di Confucio: la Grande Armonia. Così come la compenetrazione con la necessità intima dell’azione tipica di un sforzo «zen», che aderisce al compito senza distinzione tra soggetto attivo e oggetto. In più, la lunga tradizione economica del dispotismo orientale - comunitaria ed efficientista - congiura magnificamente allo scopo, benché innestata sul «privatismo». E tuttavia - e qui Jullien ritrova tutta la sua acutezza - c’è un problema. Proprio la logica impersonale dell’«efficacia cinese» manca infatti di luce interiore. Manca del calcolo bilanciato degli effetti perversi scatenati dallo sviluppo paradossalmente divenuto prometeico. La Cina post-maoista in altri termini asseconda la cieca potenza espansiva in un mondo divenuto più piccolo in quanto globale e concatenato. Cozza così contro altri imperialismi consapevoli (consapevolmente fanatici) e attiva squilibri energetici, finanziari, interni ed esterni. Alla fine l’assenza di un progetto trasparente e di controlli democratici, genera accumulo non visto di resistenze, destinate ad esplodere anche su scala mondiale. L’auspicio conclusivo di Jullien è che l’Europa, come vera «terra di mezzo», sappia quindi mediare culturalmente. Esportando diritto cosmopolitico e saggezza diplomatica, volte a favorire stabili assetti di sicurezza geopolitici e geoeconomici. Messaggio tenue? Sì, ma saggio e a modo suo «orientale». Lanciato da un continente che ha già sperimentato la sua catastrofe di civiltà, al culmine della Confusione sotto il Cielo del 900.
La Stampa 10.8.06
POLITICA
IL PDCI E L’ALA RADICALE DI RIFONDAZIONE SI DICONO «SORPRESI E ADDOLORATI» E IL TROTZKISTA FERRANDO: «INCREDIBILE DERIVA»
Bertinotti alla festa di An, l’ira dei comunisti
ROMA. La partecipazione di Fausto Bertinotti alla festa dei giovani di Alleanza Nazionale, in calendario a Roma il 16 settembre, scatena la bagarre nella sinistra. «E’ peggio delle affermazioni di Luciano Violante su Salò», tuona l’eurodeputato Pdci Marco Rizzo, secondo cui la decisione del presidente della Camera di partecipare al confronto con Gianfranco Fini «è solo l’ultima delle tappe forzate a cui Bertinotti ha piegato Rifondazione, in una inflessibile e inarrestabile marcia verso la decomunistizzazione del partito». «Alla completa abiura di Bertinotti - prosegue Rizzo - mancava giusto quest'ultimo tassello: la fine dell'antifascismo». Gli fa eco il senatore Prc Fosco Giannini: «Rimango perplesso, sorpreso e addolorato - dice -: così in fretta siamo giunti a tanto? Un conto è il dibattito interno, sul quale ci possono pure essere differenze e confronti anche aspri. Altro conto è liquidare la propria storia, le proprie radici. E aggiunge: «Perché allora dare legittimazione agli eredi di Salò? Non è a mio avviso sufficiente una Fiuggi per cancellare la storia e le morti del nostro popolo».
Molto critici verso il presidente della Camera anche i trotzkisti. Marco Ferrando, segretario del Partito dei lavoratori ed ex esponente di Rifondazione, definisce «sconcertante» la decisione presa dal presidente della Camera e «senza limiti la deriva in atto del bertinottismo». Sulla stessa linea il senatore Prc Franco Turigliatto. «Io non ci andrei - dice - Terrei distinti i ruoli soprattutto in questo caso dove ci sono delle prospettive politiche all'opposto». Difende invece Bertinotti il capogruppo di Rifondazione Comunista al Senato Giovanni Russo Spena, secondo cui «da presidente della Camera Bertinotti non può non andare visto che è stato invitato da un gruppo presente in parlamento a prendere parte ad un dibattito culturale e non politico». E invita «Rizzo e chi la pensa come lui a stare tranquilli», perché, dice, «nella decisione del presidente della Camera non c'è nessuna ombra di revisionismo storico».
E mentre Francesco Storace commenta che «gli attacchi contro Bertinotti non fanno ridere ma indignano», e i giovani di Forza Italia invitano «la maggioranza e i suoi movimenti politici giovanili a condannare con forza le offese della sinistra radicale», Vittorio Sgarbi sottolinea che «i giovani di Alleanza Nazionale non sono Nosferatu». «Perché - ironizza - il buon Ferrando non considera che la motivazione con cui Bertinotti si reca potrebbe essere come quella di un apostolo? E cioè, per indurre alla conversione? Se è vero che a pagina 154 dell'”Antologia dei Poeti fascisti” è riportata una poesia di Pietro Ingrao del tredicesimo anno dell'era fascista, forse Bertinotti cerca nei giovani di An l'Ingrao mascherato del terzo millennio. Non mi resta che pensare - conclude - che, fosse stato per Ferrando, Bobbio, Bocca e Ingrao sarebbero rimasti fascisti».