20.8.06

 
il manifesto 20.8.06
Günter Grass
I gerarchi nazisti al fronte occidentale
Archivi americani Eichmann, Globke, Gehlen furono salvati dagli americani in nome della guerra fredda e della ricostruzione di una Germania occidentale fedelmente alleata agli Stati uniti
di Fabrizio Tonello

Nel mondo compiutamente orwelliano del Corriere della sera del 12 agosto solo pochi centimetri di piombo, in prima pagina, separavano l'editoralista alla moda che predicava il ritorno alla tortura dallo sprezzante critico di Günter Grass che irrideva alla pretesa di quest'ultimo di esercitare un qualunque magistero morale. In altre parole, chi a 17 anni ha fatto parte di un'unità militare SS senza mai aver compiuto alcun crimine, e nemmeno essere stato impegnato in combattimento, dovrebbe astenersi dal dare lezioni di etica pubblica ai governi, lezioni che ci dovrebbero essere impartite, invece, dai sostenitori della tortura i quali, né a 17 anni né in età più matura, hanno mai letto (o compreso) Cesare Beccaria.
C'è qualcosa di leggermente disgustoso, maleodorante, nell'orgia di ipocrisia seguita alle dichiarazioni di Günter Grass del 12 agosto. Ignoranti della storia, giornalisti senza pudore, scribacchini invidiosi e storici improvvisati si sono lanciati sulla ghiotta preda senza darsi la pena di verificare le informazioni, reperibili in qualsiasi buon manuale di storia della seconda guerra mondiale.
Cominciamo dal capire cos'era la divisione SS a cui è appartenuto lo scrittore tra il 10 novembre 1944 e l'8 maggio 1945, quando fu catturato dagli americani in Cecoslovacchia. La 10° Panzer-Division delle SS «Frundsberg» era una unità di costituzione recente, che dopo aver subito durissime perdite in Russia, venne trasferita in Normandia, in seguito allo sbarco delle truppe alleate il 6 giugno 1944. Dopo aspri combattimenti nella sacca di Falaise e altre operazioni difensive venne trasferita in Olanda, dove subì altre gravi perdite e solo il 18 novembre '44 arrivò ad Aquisgrana per un periodo di riposo e ricostituzione dei ranghi. La cartolina precetto arrivò a Grass in questa fase, quando gran parte della forza della divisione era costituita da giovanissimi soldati che avevano bisogno di addestramento. Infatti, lo scrittore afferma che non fu mai impegnato in combattimento. Nel gennaio '45 la «Frundsberg» fu trasferita nell'alto corso del Reno, destinata a forza di riserva, e il 10 febbraio fece ritorno sul Fronte Orientale, dove, dopo un durissimo mese di combattimenti venne costretta a ritirarsi al di là dell'Oder, presso Stettino. A metà aprile era nell'area di Dresda, dove il comandante Harmel, per il suo rifiuto di eseguire gli ordini di Hitler, venne destituito. I resti della «Frundsberg» si consegnarono agli americani, l'8 maggio '45.
Grass, dunque, non fu veramente volontario nelle SS (a 15 anni aveva chiesto di prestare servizio nella più romantica ed esotica delle unità militari, i sottomarini) e quando gli arrivò la convocazione non dovette sottoporsi ad alcun esame di fedeltà al nazismo: le Waffen SS, a partire dal '44, reclutavano tutto ciò che potevano, compresi i giovanissimi, per ricostituire i loro ranghi decimati. Lo stesso Joachim Fest, uno dei più aspri critici di Grass in Germania, sottolinea di essersi arruolato nell'esercito per «sfuggire alla coscrizione obbligatoria nelle SS». Grass non prestò servizio come guardia in un lager, non fece carriera nell'esercito, men che meno nel partito nazista. Il suo unico peccato fu quello di subire il fascino delle uniformi, come milioni dei suoi coetanei.
Esaminiamo, invece, il caso di tre tedeschi la cui sorte fu ben diversa dalla sua: altissimi funzionari del partito nazista, direttamente coinvolti nello sterminio, furono salvati dagli americani in nome della guerra fredda e della ricostruzione di una Germania occidentale fedele alleata agli Usa. Il primo è quello di Adolf Eichmann, uno degli architetti della «soluzione finale del problema ebraico», i cui documenti sono depositati nei National Archives Usa (numero di identificazione XE004471). I documenti dimostrano che la Cia aveva individuato Eichmann in Argentina almeno dal '58 ma si guardò dal fornire le informazioni sul criminale di guerra a Israele, che lo avrebbe rintracciato, portato a Gerusalemme, processato e condannato a morte nel 1962.
Perché la Cia protesse Eichmann? Sembra che lo abbia fatto per proteggere Hans Globke, il consigliere per la sicurezza nazionale del cancelliere tedesco Adenauer. E chi era Globke? Un nazista che aveva lavorato nel dipartimento Affari Ebraici e che era stato forse coinvolto nella stessa elaborazione delle leggi razziali. Lungi dall'assere processato, o escluso da incarichi pubblici, Globke era stato integrato in una posizione di altissima responsablità nel governo della Repubblica Federale. Günter Grass, del resto, ricorda nella sua intervista che il giudice che condannò alla fucilazione sommaria suo zio Franz, arrestato a Danzica, continuò la sua carriera nella magistratura tedesca dopo la guerra. E infine c'è il caso del general Reinhard Gehlen, il capo dei servizi segreti nazisti, che alla fine della guerra venne semplicemente assunto dagli americani per continuare ciò che sapeva fare meglio: lo spionaggio all'Est. Per decenni Gehlen lavorò indisturbato per i nuovi padroni e per la Germania Federale malgrado le sue responsabilità durante la II guerra mondiale. Le informazioni su di lui sono state tenute segrete per 50 anni e solo dal maggio 2004 sono diventate consultabili nei National Archives (Record Group 319, Entry 134A, Boxes 144A-147). Si trattava di tre onesti patrioti, tre persone costrette a collaborare per sfamare la famiglia? Questo è lo specioso argomento invocato da Fest nell'intervista a Repubblica. Al contrario, Eichmann, Globke e Gehlen avrebbero meritato di essere processati a Norimberga assieme a quelle altre centinaia di gerarchi nazisti di livello inferiore che sfuggirono alla cattura grazie al Vaticano e agli Stati Uniti, spesso partendo dal porto di Genova. Gli ammiratori dell'amministrazione Bush, gli scribi e i farisei che si stracciano le vesti al sentire la parola «SS» hanno mai sentito il detto biblico sulla pagliuzza nell'occhio dell'altro, da confrontare con la trave nel proprio?

Il Giornale 20.8.06
Dostoevskij fra delitto, castigo e filosofia
di Giuseppe Cantarano

È possibile parlare di una «filosofia» di Dostoevskij? Se ci atteniamo scrupolosamente alla semantica del termine, evidentemente no. Dostoevskij è uno scrittore. Egli ha raccontato storie. Eppure, tanti personaggi che ha immortalato nei suoi racconti, a loro modo sono «filosofi». Ivan Karamazov, ad esempio. Oppure padre Zosima. E lo stesso Versilov de L'adolescente. Per non parlare dell'uomo del sottosuolo. Tutte figure attraverso le quali Dostoevskij ha lanciato alla filosofia una vera e propria sfida.
Alla quale la filosofia non può sottrarsi. Pensiamo alla questione della libertà e della responsabilità, evocata dal Grande Inquisitore. Oppure al nichilismo, prospettato dalla «morte di Dio».
Chi non si è sottratto a questa sfida è il filosofo Sergio Givone. Che all'opera di Dostoevskij ha dedicato un bel libro: Dostoevskij e la filosofia (Laterza, pagg. 165, euro 18). Bello e importante. Perché in questo libro Givone demolisce alcune convinzioni filosofiche che credevamo tranquillamente acquisite.
Parlavamo del nichilismo, ad esempio. Una parola chiave della filosofia contemporanea, che quasi di riflesso associamo al nome di Nietzsche. Invece - ci dice Givone - Dostoevskij fa una diagnosi molto più radicale del fenomeno. A differenza di Nietzsche. Il quale aveva messo l'accento sul carattere positivo e sostanzialmente liberatorio del nichilismo. Dostoevskij è invece penetrato nel suo cuore di tenebra. Svelandone tutte le terribili e inquietanti ambivalenze. Nonostante ciò, nelle mode correnti, è diventato Nietzsche il filosofo del nichilismo. Mentre Dostoevskij - di cui lo stesso Nietzsche subì un grandissimo fascino - è stato quasi del tutto rimosso. Quando Nietzsche ebbe modo di leggere, in una versione francese, Delitto e castigo e I demoni disse: «Ho incontrato il mio fratello di sangue».
Ben prima di Nietzsche, Dostoevskij ci ha parlato di un nichilismo che si lascia alle spalle il suo cupo impulso distruttivo. Mettendo al centro della sua opera la sofferenza inutile, la morte, il dolore innocente, il grande scrittore russo ci ha parlato del nostro costitutivo limite di esseri umani. Inaugurando così una nuova epoca maggiormente sensibile ai valori della solidarietà e della condivisione di un destino comune. Ma siamo sicuri di tutto ciò, si chiede Givone? Non si tratta invece di un clamoroso abbaglio? Quando Dostoevskij si mette - e ci mette - alla «scuola del sospetto», egli riesce a calarsi negli abissi dello spirito ai quali non è saputo sprofondare neanche Nietzsche.
Certo, Dostoevskij non è un filosofo ma uno scrittore. E Givone ce lo ripete più volte, nelle pagine del suo libro. È pur vero, però, che la scrittura di Dostoevskij ha incrociato la filosofia. Senza tuttavia risolversi in essa. Se la filosofia non può essere interpretazione della realtà - compito della scienza - bensì interrogazione del senso della realtà, ebbene, luogo privilegiato in cui questo senso si mostra è la letteratura. Ma è anche la poesia, l'arte, il mito, la religione. Ecco perché la filosofia - che non è letteratura - intrattiene con la letteratura un rapporto strettissimo, osserva Givone.
Il quale, dopo aver trascorso una parte della sua vita a leggere filosoficamente i romanzi, ha deciso ad un certo punto di scriverne a sua volta: Favola delle cose ultime e Nel nome di un dio barbaro. Due bellissimi romanzi «filosofici» da cui traspare un inconfondibile timbro dostoevskiano, pubblicati da Einaudi rispettivamente nel 1998 e nel 2002. E con questi due romanzi Givone ha contribuito a regalare alla filosofia quei materiali di cui, come filosofo, andava in cerca nei labirinti incantati della letteratura.

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