7.8.06

 
Il Giornale 7.8.06
Mio padre Heidegger e il «Terzo Reich»
Le posizioni critiche dell’ultimo maestro della filosofia europea su nazionalsocialismo, guerra, Resistenza raccontate in una straordinaria intervista dal figlio Hermann, curatore ufficiale del lascito heideggeriano. Che rivela anche un inedito spaccato di vita di famiglia
di Giulio Milani

Pubblichiamo un estratto da La «resistenza di pensiero» di mio padre, l’intervista con Hermann Heidegger pubblicata sul numero di luglio-agosto di Nuova Storia Contemporanea, in edicola in questi giorni.

La casa in cui vive Hermann Heidegger è una moderna villetta a due piani in tutto simile al resto di abitazioni che popola quello scampolo di campagna fra i rilievi del Giura e Friburgo. Il garage è al pianterreno, l'ingresso sul retro, e le ampie portefinestre del piano superiore si affacciano sui prati e sui campi coltivati che si estendono alle pendici di un bosco di conifere sterminato, l'inizio della Foresta Nera. Qui il dottor Heidegger divide oggi il suo tempo fra il lavoro che attiene all'amministrazione della sconfinata e complessa eredità letteraria paterna e l'affettuosa compagnia di Jutta, la donna che ha sposato nel dopoguerra. (...) La moglie di Heidegger prende congedo quasi subito, lui resta in piedi accanto al tavolo. I suoi occhi sono azzurri, i capelli candidi. Ha una statura nella media, e parla con tono cordiale. (...) Sembra a suo agio e ben disposto, sorride e attende con pazienza il disbrigo degli ultimi preparativi. Solo poco prima che la spia del registratore si accenda il suo volto si fa all'improvviso fermo e quasi imperscrutabile, in un modo che ricorda più di altri i suoi trascorsi da ufficiale.
Cosa accadde quando fu chiamato alle armi?
«Ero un ufficiale di carriera che voleva uscire dall'ombra del padre. Fin dagli anni del ginnasio e poi all'università non ero altro che il figlio del famoso filosofo. Non ero mai riuscito ad essere me stesso. Così decisi di scegliere da solo una professione e di seguire le orme del mio nonno materno, anch'egli ufficiale di carriera».
In guerra Lei aveva il grado di ufficiale?
«Sì, ero ufficiale. Nel 1941, durante la campagna di Russia, ero aiutante di battaglione. Ho passato due anni all'ospedale militare e altri due in patria in veste di ufficiale istruttore nelle scuole. Nel 1944 sono tornato al fronte in Lituania come aiutante di reggimento».
Su quale fronte ha combattuto a inizio guerra?
«Ho combattuto qui nell'ovest partecipando alla campagna di Francia. Poi nei Balcani e, nell'estate del 1941, nel sud della Russia, in Ucraina fino al Dnepr». (...)
Cosa pensava dell'esercito russo?
«I giovani ufficiali sapevano di trovarsi di fronte a quell' esercito bolscevico che aveva perso delle battaglie in Finlandia.
Credevamo quindi che fosse un'impresa facile. Ci sbagliammo. I russi combatterono con coraggio e tenacia, anche se brutalmente forzati dai loro commissari. Ho partecipato personalmente ai contrattacchi in Ucraina e ho visto centinaia di soldati russi uccisi. Da dietro, venivano incessantemente costretti ad attaccare: è stata una battaglia atroce».
Come spiega questa resistenza? Era il prodotto di un regime totalitario oppure il motivo risiedeva nella circostanza che si trattava innanzitutto di difendere la propria patria?
«Entrambe le cose. I sovietici hanno fatto un'eccellente propaganda popolare convincendo tanti cittadini. Stalin era il loro grande Führer così come Hitler lo era per noi. Vigeva la stessa repressione brutale di qualsiasi pensiero non conforme alla politica di regime. In questi casi i sovietici erano però ancora più spietati. Giustiziavano con facilità, bastava solo arretrare. Anche da noi accadeva che si uccidesse chi non manteneva la propria posizione, ma furono casi sporadici, la viltà di fronte al nemico doveva proprio essere evidente». (...)
Nel 1937 Lei non è entrato nel partito nazionalsocialista. Allora era un ragazzo, come si spiega questa Sua decisione?
«Ero stato uno scout, e il ruolo mi entusiasmava molto, ma nel 1933 ci fu lo scioglimento del gruppo e fummo costretti a entrare nello Jungvolk, una frazione della Hitlerjugend che accoglieva ragazzi dai dieci ai quattordici anni. L'organo direttivo dello Jungvolk era molto abile. Diventai prima capo di un gruppo di quattordici ragazzi, di cui dodici ex scouts e altri due provenienti dalla Lega Cattolica «Nuova Germania».
Continuavamo a fare le stesse cose, giochi a squadre, riunioni serali, gite nello Schwarzwald, grandi viaggi. Non era difficile appassionarsi allo Jungvolk - e un anno dopo ero già salito di grado. Come Jungzugführer comandavo cinquanta ragazzi, ancora un anno dopo ero Fähnleinführer di duecento giovani. Quando fin dal 1934 i miei genitori mi ripetevano che non dovevo vedere tutto in maniera così positiva, per me fu molto difficile cambiare idea. Anche i miei genitori, poco prima, nel 1933, avevano salutato l'ascesa al potere di Hitler pensando che rappresentasse qualcosa di buono. Ma solo un anno dopo erano schierati contro. La stessa cosa accadde nel caso dell'arcivescovo Gröber, amico paterno di mio padre, oppure di Niemöller o del conte di Stauffenberg - tutte persone entrate presto nella Resistenza».
Com'è andata a finire?
«Nel 1937, da Fähnleinführer venni esortato a entrare nel partito; allora era possibile già a diciassette anni. Nel frattempo, però, ero riuscito a prendere sul serio i miei genitori, e rifiutai l'offerta. La decisione che riguardava il mio futuro professionale si colloca proprio in questo periodo». (...)
Quali erano le voci che circolavano in casa Sua prima della guerra?
«I miei genitori erano molto scettici e critici nei confronti della politica. Oggi basta rileggere le lezioni tenute da mio padre per scorgervi tutta la sua critica nei confronti degli sviluppi della Germania. Certo, era una critica prudente, visto che le persone che si pronunciavano contro il Terzo Reich, contro Hitler o il nazionalsocialismo, venivano facilmente prese e arrestate».
Era così già prima della guerra?
«Sì. La Gestapo entrò in casa di mio padre per la prima volta nel 1935. Chiedevano informazioni su certi suoi allievi che secondo loro erano stati da lui influenzati, perché si erano espressi in modo critico. A quei tempi la prudenza era d'obbligo, se non si voleva finire davanti a un tribunale o scomparire in qualche campo di concentramento con l'accusa di cospirazione, che in guerra veniva chiamata “corruzione della Wehrmacht”». (...)
Quali erano i sentimenti con cui ha lasciato la Russia?
«Provavo un sentimento di sollievo e di liberazione perché uscivo da quel sistema. Ma c'era anche compassione nei confronti della popolazione povera. Non ho mai odiato i russi in quanto uomini e ho potuto constatare che la popolazione semplice soffriva a causa di quel sistema. Per l'animo russo e per la sua cultura nutro quindi grande simpatia e comprensione. Oggi, in veste di amministratore dell'eredità di mio padre, ho rapporti con la Russia, e anche ultimamente ho cenato con due russi interessati a Heidegger. Voglio dire che non provo nessun tipo di avversione per il popolo russo. Per quanto riguarda il sistema bolscevico, il mio giudizio è sempre stato negativo. Al momento in cui Hitler, nel 1939, patteggiò all'improvviso con i russi, nel mio diario posi il seguente interrogativo: “Com'è possibile tutto questo, con queste persone?”. Allora non avevo ancora capito che il nostro stesso sistema - dal punto di vista del sistema - era molto simile a quello bolscevico». (...)
Ci ha detto di aver valutato il patto tra Hitler e i bolscevichi, all'epoca, in modo critico. Cosa ha pensato quando la Germania ha attaccato la Russia?
«Prima che iniziasse la campagna di Russia c'era già stato l'attacco sovietico alla Finlandia, l'occupazione degli stati baltici e della Bessarabia. Il bolscevismo si stava impadronendo con violenza di tanti piccoli popoli civili. Come storico, e alla luce di quello che gli archivi russi ci fanno leggere oggi, non vi è dubbio che se Hitler non avesse attaccato l'Europa centrale l'avrebbe fatto Stalin.
E in quanto uomo dell'esercito questa argomentazione mi convince pienamente. La Russia non si era preparata a una guerra di difesa, bensì a un attacco. Lo dimostrano tutte le disposizioni dell'Armata russa e le prime grandi battaglie di accerchiamento: avanzavano per attaccare. Nonostante oggi vi siano delle pubblicazioni di storici dell'esercito che lo confermano, tra gli studiosi in Germania rimane un punto controverso. Alcuni - e hanno veramente i paraocchi! - subiscono sia il pensiero della generazione post-bellica che i suoi pregiudizi.
Sono convinti che la colpa della guerra sia stata solo di Hitler. Certo, Hitler è sicuramente responsabile, è stato lui a iniziare la guerra in Polonia e in Russia, ma ribadisco che in Russia si è trattato di un attacco preventivo».
Quando è tornato a casa dalla prigionia ha parlato con Suo fratello o Suo padre delle esperienze vissute?
«Ne ho parlato con mio padre. Gli ho raccontato le vicende vissute. Rimase colpito dalle prove che dovetti sostenere. Mio padre non aveva un animo “militaresco”». (...)
Parlava di letteratura con Suo padre?
«No. Mio padre era un gran lavoratore e quando eravamo giovani lo vedevamo solo a pranzo e a cena. Per il resto della giornata se ne stava ritirato e lavorava. Accadeva spesso che venissi rimproverato perché a tavola parlavo troppo, dovevo tenere la bocca chiusa».
Il rimprovero era di Suo padre?
«No, era mia madre a dettar legge. A tavola, da noi, si stava quasi sempre in silenzio, mio padre filosofava e rifletteva anche durante i pasti.
Era anche interessato a quello che facevano i suoi figli, e ci chiedeva l'una o l'altra cosa. Quando avevo delle difficoltà in latino o greco, dopo cena, potevo salire da lui nello studio. Mi aiutava nelle costruzioni latine con le parole difficili. Lui sapeva tutto».
Com'era il vostro rapporto dopo la guerra?
«Quando tornai dalla prigionia ho iniziato a svolgere qualche lavoretto per lui, battevo a macchina delle lettere o gli procuravo delle cose che gli occorrevano. Capitava spesso che ci mettessimo a discutere, ma non abbiamo mai parlato di filosofia».

E in un postilla la rivelazione:«Sono l’erede, ma lui non era mio padre»
di Alessandra Iadicicco

Difficile sciogliersi dall’attrazione irresistibile, magnetica, «sciamanica» di Martin Heidegger. Tanto più se si porta il suo nome. A Hermann Heidegger, secondogenito dell’ultimo maestro carismatico del pensiero del Novecento, non è riuscito di sottrarsi all’ombra imponente del padre: nemmeno cambiando strada, cambiando iter studiorum, cambiando gli abiti civil ico n l’uniforme e partendo per la campagna di Russia a costo di finire nei campi di prigionia sovietici. «Per tutta la vita mi sono sentito addosso la grandezza di mio padre» confessava nella prima delle Conversazioni su Heidegger (L’ultimo sciamano a cura di Antonio Gnoli e Franco Volpi, Bompiani, pagg. 137, euro 6,80), perciò scelsi un cammino il più possibile lontano dalla filosofia». Ma né l’arruolamento nella Wehrmacht allo scoppio della seconda guerra mondiale, né la sua cattura di ufficiale di fanteria prigioniero nei lager sovietici fino al’ 47, né gli studi di storia compiuti nel dopoguerra con il grande Gerhard Ritter, l’insegnamento nella scuola, la carriera militare proseguita all’Ufficio diri cerca e allo Stato Maggiore dell’esercito fino agli anni’60, distolsero il professor Heidegger Jr. dal dovere di rendere onor filiale alla statura del maître Heidegger Sr. Da oltre un trentennio, da prima della scomparsa del papà - avvenuta nel 1976 - il figliol prodigo e reduce ufficiale è ufficialmente il curatore del lascito heideggeriano. Fu lo stesso Martin Heidegger a nominare responsabile unico e assoluto della propria opera postuma l’erede che appena raggiunta la maggiore età aveva preso a modello il nonno materno, ufficiale prussiano, e se ne era andato al fronte. Non fu un colpo di mano dettato dall’autorità paterna. Fu Hermann, anzi, a convincere l’autorevole genitore a destinare i suoi inediti alla pubblicazione. E fu con un argomento squisitamente militare che lo dissuase dal chiuderli percent’anni in archivio come avrebbe voluto: «Papà -gli disse- se in futuro l’Europa sarà sconvolta da una guerra atomica, chissà se rimarrà qualcosa della tua filosofia». Solo adesso, solo da un anno a questa parte, si sa quanto matura, adulta, libera da soggezioni fosse la sua decisione di assumersi una simile responsabilità. Hermann Heidegger non è il figlio di Heidegger. Nel luglio 2005 ha ammesso in una postilla all’epistolario dei genitori pubblicato l’anno scorso in Germania che «figlio legittimo, nato nel 1920, di Martine Elfride Heidegger, all’età di poco meno di 14 anni seppi da mia madre che mio padre effettivo fu un suo amico di gioventù, il dottor Friedel Caesar, morto nel 1946». La rivelazione, aggiungeva, lo liberava «di un peso che mi ha oppresso per 71 anni». L'intervista di cui in questa pagina proponiamo uno stralcio la straordinaria versione integrale è pubblicata nel numero di Nuova storia contemporanea in edicola da domani fu rilasciata al professor Giulio Dilani il 28 aprile 2003: due anni prima che si svelassero i segreti di casa Heidegger. È un documento per molti versi eccezionale. La testimonianza, densa di rievocazioni storiche, giudizi politici, esperienza biografica, formidabile intelligenza militare, resa da un uomo che, per gioco, il destino volle figlio dell’ultimo maestro della storia della filosofia, beffato dalla politica, sospettato di militanza e del tutto privo sapeva l’erede soldato «di animo militaresco».

 
l'Unità 7.8.06
La guerra e la pazienza dei mediatori
di Luigi Cancrini

Guardo sul nostro giornale le foto del padre libanese che ha in braccio il suo bambino morto nella strage di Cana. Leggo la disperazione autentica di D'Alema, il suo muoversi frenetico alla ricerca di una soluzione per il dramma che si sta svolgendo al confine fra Libano e Israele. Penso con orgoglio all'utilità della posizione che sta assumendo l'Italia nel momento della tregua e mi chiedo se davvero qualcosa è cambiato dopo che, sia pure di poco, abbiamo vinto le elezioni. Perfino Sergio Staino si era lasciato andare allo scoperto, qualche settimana fa, faceva dire a Bobo che si stava meglio prima, quando almeno si poteva criticare il Governo ma io comincio a pensare che qualcosa di davvero importante è già avvenuto da quando Berlusconi se n'è andato.
Lettera firmata

Non era per niente facile immaginare, in effetti, quante cose sarebbero cambiate in soli tre mesi. Soprattutto in politica estera, come tu giustamente sottolinei, dove, se non avessimo vinto le elezioni, assisteremmo oggi probabilmente allo spettacolo indecoroso di un governo, schiacciato sulle posizioni di Israele, che chiederebbe agli USA di tenere duro «perché i cattivi sono solo gli arabi, l'equidistanza (o l'equivicinanza) è una vigliaccheria e la guerra quando serve serve». Lo ha detto a Montecitorio Fini quando Israele ha lanciato le sue prime bombe perché la posizione di Berlusconi e della destra italiana in questi anni è stata costantemente questa. A fianco di Bush e dei più violenti fra i teorizzatori della guerra preventiva in Afghanistan, in Iraq ieri, nel Libano oggi e domani chissà dove: tutti uniti a filo doppio dalla sicurezza che, per dimostrare che si ha ragione bisogna far tacere chi non la pensa nello stesso modo e che, per far tacere per sempre le ragioni degli altri (islamisti, come li chiama Berlusconi cercando la rima, forse, con terroristi) quella che serve non è la politica ma la forza delle bombe. Spaccando su questo tema l'Europa e rinunciando, su questo tema, al quadro tradizionale e naturale delle nostre alleanze. Dando un buon contributo di superficialità, di odio e di sangue al fiasco clamoroso della politica americana in Oriente e in Medio Oriente. Senza rendersi conto fino in fondo, forse, di quanto sarebbe stato più utile, per gli altri e per noi, un comportamento (uso parole di D'Alema) «da amici veri»; quelli che non si inchinano ma che si mantengono capaci di segnalarti gli errori che fai. Sapendo che il tempo che stiamo vivendo, comunque la pensiamo, è un tempo in cui quella che resta cruciale è la posizione che assumono gli Stati Uniti e che muoversi nei confronti di quel grande paese chiede di scegliere fra le spinte contrastanti che in esso si muovono: con effetti che possono essere molto importanti come ben dimostrato, oggi, dopo che l'Europa si è espressa, anche per merito dell'Italia, in modo sostanzialmente univoco, dal tentativo di riposizionamento di Condoleezza Rice e dalle reazioni furibonde che esso evoca negli ambienti più reazionari del partito repubblicano. Il punto difficile da capire, il punto su cui dovremmo riflettere di più in questa fase del nostro percorso, resta oggi per me, tuttavia, quello della violenza con cui il Governo che ha fatto queste cose (e tante altre, dal decreto Bersani a quello di Amato sugli immigrati, dal rifinanziamento del Fondo Sociale all'indulto) viene criticato e attaccato da chi più degli altri dovrebbe rendersi conto dell'importanza dei cambiamenti che, per suo merito, si stanno determinando. Restando alla politica estera, l'accanimento di chi, sulla questione Afghanistan, è arrivato a minacciare dopo tutti i mutamenti che in esso sono stati ottenuti il voto contrario e la sfiducia è un esempio importante di queste contraddizioni clamorose. Le questioni di coscienza sono importanti sempre e comunque. Le ragioni di chi, in nome della sua coscienza, rischia di far cadere un Governo che sta andando nella direzione che lui stesso ritiene giusta, però, sono assai difficili da accettare e da comprendere. Il significato da dare ad una decisione come quella che rinnova i finanziamenti in Afghanistan, voglio dire, non è legato al fatto in sé ma al quadro in cui ci si muove, al contesto in cui quella decisione viene presa. Riorientare, come si sta tentando di fare, le scelte fatte quattro anni fa sull'onda delle emozioni suscitate dall'11 settembre è un compito importante ma non facile. Chiede tempo, chiede, a chi vuole ottenere davvero qualcosa, di mantenere tutta la sua credibilità, di non perdere il contatto con chi può lavorare con lui. Chiede soprattutto, a chi vuole davvero la pace, la capacità di non cadere nella trappola dell'odio: è certamente giusto dire infatti a Bush ed ai suoi che hanno sbagliato pensando di affrontare il male del mondo; un errore analogo lo faremmo noi, tuttavia, trasformando loro, Bush e i suoi, in un male altrettanto assoluto e pericoloso.
La pace e la giustizia, quando il conflitto è reale, sono il frutto di una mediazione. Inevitabilmente e sempre perché nessuno ha mai del tutto ragione e chiunque, quando c'è un conflitto, ha le sue ragioni: ignote solo all'altro, a quello che sta dall'altra parte abbracciato alle sue che sono sempre, e inevitabilmente, relative, come quelle dell'altro. Come dovremmo capire e ricordarci l'un l'altro anche fra noi a sinistra, in quei gruppi politici dove l'individualismo è forte e viene neutralizzato, mentre si sta all'opposizione dalla possibilità di criticare gli errori dell'altro ma si rifà vivo con forza, invece, quando si deve governare. Sapendo che in politica quella che conta è la pazienza del mediatore e che la mente di un gruppo è sempre molto più saggia di quella del singolo. Che l'umiltà è la manifestazione più alta e più difficile dell'intelligenza. Che quello cui si deve rendere conto, alla fine, è soprattutto il buonsenso dei più non l'orgoglio dell'individuo che vuole far bella figura. Con se stesso e con una piccola cerchia di ammiratori raffinati.
Dobbiamo partire da qui, credo, per raccogliere il messaggio che viene dai bambini che sono morti a Cana. C'è sempre la pretesa di essere i portatori del verbo, l'orgogliosa consapevolezza di combattere nel nome di Allah o di un popolo eletto, dietro l'attitudine minacciosa di chi getta le bombe. Sta nella consapevolezza di riconoscere la responsabilità di tutti, attori e spettatori (e noi compresi), nel determinarsi di una guerra e di una strage la possibilità di dare luogo ad un cambiamento di rotta significativo nella cultura delle relazioni internazionali. L'umiltà di cui parlavo prima è necessaria per tutti, a destra e a sinistra. Ed è, purtroppo, visibilmente ancora poca, fra gli individualisti della nostra sinistra.

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