31.8.06

 
Repubblica 31.8.06 Prima pagina
LA DISCUSSIONE
Socialismo? Parliamo invece di capitalismo
di ALAIN TOURAINE


I TEORICI
TRA SOCIALISMO E CAPITALISMO
Dopo 30 anni di neoliberismo, adesso una "sterzata" a sinistra

Il successo del capitalismo è stato amplificato dalla globalizzazione, oggi l'opinione pubblica vuole che i dirigenti limitino l'onnipotenza di mercati e imprese
Chi può dirigere la lotta per un sistema di protezione sociale contro nuove diseguaglianze? Nel caso italiano è al governo che bisogna guardare

SOCIALISMO è una parola confusa, usata dalle persone più diverse per esprimere le opinioni più varie. Lasciamolo dunque da parte. In compenso, parlare contro il capitalismo non soltanto è più che sensato, ma è anche molto più di attualità di quanto la maggior parte delle persone non creda.
Ciò che definisce il capitalismo è l´eliminazione dei controlli sociali, politici o di altro genere che limitano gli attori economici. Quando sono liberi, vale a dire non controllati, questi attori esercitano un autentico potere sulle altre istituzioni, che devono sempre, per parte loro, tener conto degli interessi dei dirigenti dell´economia. Il riferimento a questo potere fa parte del concetto stesso di capitalismo. Questa libertà, questa stessa onnipotenza dei dirigenti dell´economia è una componente necessaria della modernizzazione. Non ci sono mai stati grandi sviluppi economici senza una fase di capitalismo che possiamo addirittura definire "selvaggio". La Gran Bretagna e poi gli Stati Uniti ne sono stati i grandi esempi. Oggi è la Cina a essere il Paese più capitalistico del mondo.
Ma la modernizzazione esige anche che dopo una fase di libertà estrema delle forze economiche dominanti arrivi una fase opposta dove compaiono nuovi interventi pubblici promossi da sindacati e partiti che vogliono soprattutto una redistribuzione del reddito. Questa alternanza rappresenta la formula di base dello sviluppo economico. Non c´è sviluppo senza capitalismo e senza anticapitalismo. Ma molti preferiscono, alla successione di queste due fasi, un sistema misto permanente che combini accumulazione e redistribuzione. È questo sovente il caso degli europei e, in particolare, dei tedeschi, che hanno appena votato per un´economia aperta e competitiva, ma anche per il mantenimento della Sozialmarktwirtschaft (economia sociale di mercato), che è una delle forme principali di quello che Delors ha definito "il modello sociale europeo".
Il problema reale di fronte a cui ci troviamo è di scegliere, non tra capitalismo e socialismo, ma tra il sistema dell´alternanza e quello della combinazione permanente di un´economia aperta e di una forte azione di redistribuzione. Gli avversari dell´alternanza temono che questo sistema rafforzi le tensioni e i conflitti sociali. I nemici dei sistemi misti temono che la redistribuzione non vada a beneficio dei poveri ma di determinati settori delle classi medie, in particolare nel settore pubblico. I sostenitori del capitalismo, da parte loro, accusano i loro avversari di entrambi i campi di spingere talmente in là il Welfare State da strozzare la crescita e creare un deficit di bilancio che può essere colmato solo facendo crescere il debito pubblico, quindi attraverso un prelievo anticipato sul reddito della generazione successiva.
Quale posizione bisogna adottare oggi? La risposta deve tener conto della nostra situazione storica. Noi viviamo, dall´inizio degli anni 70, in una fase che viene definita neoliberista, e che ha preso il posto dell´economia "amministrata" che dominava la maggior parte del mondo all´indomani della Seconda guerra mondiale. Questo successo del capitalismo è stato amplificato dalla globalizzazione che ha accresciuto la libertà delle imprese, soprattutto di quelle finanziarie, rispetto agli Stati e soprattutto ai sindacati, che in molti Paesi stanno perdendo di importanza.
Oggi, l´opinione pubblica tende a chiedere un riequilibrio in favore dei salariati e delle spese sociali. È sbigottita dalle notizie degli scandali che sono avvenuti nelle grandi imprese, e dalla pioggia d´oro che ricevono molti manager. I lavoratori si indignano per il fatto che le loro imprese vengano delocalizzate anche quando sono in attivo e realizzano profitti. I movimenti no global, meglio definibili come altermondialisti, organizzano forum e grandi raduni in tutte le parti del mondo. Ad attenuare questa pressione gioca il fatto che gli eventi che dominano l´attualità non sono di natura economica, ma religiosa e militare.
Malgrado questi ostacoli esiste, in particolare in Europa, un´evoluzione dell´opinione pubblica a favore di nuovi interventi dello Stato, e soprattutto contro la creazione di un´Europa alla Thatcher. L´opinione pubblica non vuole che la riforma necessaria del servizio sanitario e delle pensioni si traduca in una limitazione delle prestazioni.
Formulata in questi termini, la risposta alla domanda che abbiamo posto appare evidente: l´opinione pubblica si aspetta dai dirigenti che mettano dei limiti all´onnipotenza dei mercati e delle imprese. Chiede una "sterzata" a sinistra.
Ma una simile risposta non può bastare, perché non dice come, sotto la pressione di quali forze, si possa ottenere un cambiamento di direzione. I sistemi di previdenza sociale, creati all´indomani dell´ultima guerra, sono stati introdotti su iniziativa dei sindacati, e per proteggere soprattutto i lavoratori contro i rischi che li minacciano: incidenti, disoccupazione, malattia, vecchiaia. Chi può interpretare oggi quel ruolo motore che svolsero i sindacati mezzo secolo fa? Chi può dirigere una lotta per un nuovo sistema di protezione sociale che non riguardi soltanto i lavoratori, che protegga tutti contro nuovi rischi e nuove disuguaglianze: dipendenza senile, malattie mentali, conflitti tra minoranze, conseguenze della delocalizzazione, disuguaglianza di possibilità alla scuola, ecc.
Una simile pressione, che i partiti e i sindacati sono incapaci di esercitare, può essere esercitata da movimenti di base, associazioni, ong, in parole povere da quella che viene definita la società civile. Ma oggi non assistiamo a un rafforzamento di questo tipo di azioni di base. Stanno anzi perdendo forza in certi settori. Quantomeno nel caso italiano, è al governo che bisogna guardare. Malgrado la sua risicata vittoria elettorale, gode già di una forte riserva di sostegno nell´opinione pubblica, e questo sostegno aumenta. È probabilmente una tendenza generale nel mondo attuale, questa di limitare il sistema neoliberista e di incaricare il potere politico di difendere meglio la popolazione non privilegiata.
Dopo trent´anni di supremazia nel dopoguerra, l´economia amministrata è stata sostituita dal neoliberismo. Trent´anni sono passati. Ma non è il momento di far pendere la bilancia nell´altra direzione?

(Traduzione di Fabio Galimberti)

il manifesto 31.8.06
L'Ungheria in Italia
di Valentino Parlato

L'altroieri l'Unità pubblicava in prima pagina un articolo di Roberto Roscani, che aveva in apertura il testo di un breve messaggio di Giorgio Napolitano a Giuseppe Tamburrano, presidente della Fondazione Nenni. Napolitano dava atto a Pietro Nenni di aver avuto ragione, quando condannò l'intervento sovietico del 1956 in Ungheria. In effetti non si trattava di cosa nuova poiché Napolitano questa critica e autocritica l'aveva già resa pubblica da tempo e anche nel suo interessante volume autobiografico Dal Pci al socialismo europeo. Tutto normale, direi.
Ieri però la Repubblica si è scatenata con un editoriale di Miriam Mafai e due intere pagine con un articolo di Simonetta Fiori e interviste a Pietro Ingrao e Antonio Giolitti di condanna dell'invasione sovietica. A questo punto è inevitabile chiedersi perché tanta enfasi ora, su un fatto condannato da molto tempo. Certo che a leggere l'altroieri Giddens che dà per morto il socialismo e ieri quest'altro carico di accuse al vecchio Pci, viene il dubbio che non si tratti solo della damnatio memoriae di un partito che pure qualcosa di buono ha fatto, ma addirittura di affermare che tutti gli ideali di cambiamento dello stato di cose esistente vanno liquidati per sempre. Forse penso male - e contrariamente al detto di Andreotti - sbaglio anche. Ma la penso così.
Un discorso a parte sui «fatti d'Ungheria» del 1956 e, aggiungo, che le autocritiche (oggi assai più facili) dovrebbero essere contestualizzate con i fatti di allora. Certo, quella del Pci, fu una scelta grave, ma in che misura e come questa scelta fu condizionata dallo stato delle cose?
Nel 1956 ero nel Pci e i fatti d'Ungheria furono per me e per molti compagni, una mazzata, una vergogna tremenda. L'esecuzione, qualche mese dopo, di Nagy fu ignobile. Nel Pci l'agitazione non fu di superficie. Ci fu la presa di posizione di Giuseppe Di Vittorio, ci fu l'appello dei 101 intellettuali, anche nelle sezioni (ricordo la sezione Italia) la discussione fu aspra e appassionata. Non accettammo la linea del partito come disciplinati soldatini. Anche la dichiarazione di consenso che allora Napolitano fece (e che molto correttamente riproduce) certamente non fu serena e tranquilla. Tuttavia la maggioranza di noi (pur senza entusiasmi) rimase nel Pci. La domanda è perché ci siamo rimasti, perché nonostante, amarezza e vergogna, siamo rimasti «da questa parte della barricata»? Perché la maggioranza di noi non si è messa al seguito di Pietro Nenni?
Non intendo affatto giustificare, le conseguenze dell'invasione sovietica furono gravissime e sanguinose, ma cercare di ricordare - sul filo di una memoria un po' sconnessa - come stavano allora le cose.
In quei giorni Inghilterra e Francia con l'aiuto di Israele tentarono di occupare Suez, poi furono dissuasi dagli Usa, che per l'Ungheria non mossero un dito. C'era stato il XX Congresso del Pcus, che apriva alla destalinizzazione. L'Urss sembrava in rilancio di crescita con l'uomo nello spazio (nel 1957) e le altre iniziative con i paesi ex coloniali (conferenza di Bandung); si apriva l'epoca della «coesistenza pacifica». Insomma c'era ancora «la forza propulsiva» dell'Urss.
In Italia c'era stata la sconfitta alla Fiat e una violenta offensiva antioperaia, con minacce di mettere il Pci fuorilegge. E poi c'era il Pci.
Un Pci che per un verso subiva ancora un'influenza secchiana, tale che una rottura con l'Urss avrebbe provocato una sua grave spaccatura. E insieme un Pci che con l'intervista di Togliatti a Nuovi Argomenti e con l'VIII congresso del 1956, a ridosso dell'Ungheria, rimetteva in campo la svolta di Salerno e la via italiana al socialismo. C'era da sperare e da lavorare. C'erano ragioni per restare.
Tutto questo non vuole negare l'errore dei sovietici, ci fu e grave. Vale ricordare che quando movimenti di protesta ci furono in Polonia i sovietici non mandarono i carri armati, ma rimisero Gomulka al potere. L'errore è indiscutibile e pesa ancora, ma aprire una discussione meno strumentale sui fatti di 50 anni fa forse potrebbe essere ancora utile. Del tutto diversi - nella sostanza e nel contesto - i fatti di Cecoslovacchia del 1968.
È un altro discorso, anche dentro il Pci, come a qualcuno l'esistenza di questo giornale dovrebbe ricordare.

Corriere della Sera 31.8.06 Prima pagina
SINISTRA E STORIA
Ungheria: i Bis di una Svolta
di Gian Antonio Stella

Scrisse un giorno Marcello Veneziani, intellettuale di destra sconcertato per la rapidità di una svolta «senza alcun travaglio culturale» che gli puzzava un po' di scorciatoia: «Fini ha eliminato il fascismo come fosse un calcolo renale». Ecco: una battuta così su Giorgio Napolitano e il comunismo non la potrà fare mai nessuno.
Gli ultimi dubbi sono stati spazzati via dal modo in cui in queste ore è stata accolta l’ennesima fitta del cinquantennale travaglio dell’anziano leader migliorista. Il riconoscimento che Pietro Nenni e i socialisti, allora, avevano ragione.
«Parole come pietre», ha scritto Roberto Roscani, autore dello scoop sull’ Unità in cui si rivelava il contenuto nella lettera inviata dal capo dello Stato a Giuseppe Tamburrano, presidente della Fondazione Nenni. Parole che dovrebbero mettere in riga gli scontenti cronici: «In Italia, dove spesso le polemiche storiche sono pretesto per risse e linciaggi da parte della destra, qualcuno ha fatto finta che questa strada non fosse stata compiuta. Già venti anni fa, come rivendica nei suoi scritti, Napolitano riconobbe che "Giolitti aveva ragione". Oggi allarga il discorso alla sinistra italiana e ai meriti di Nenni».
Tamburrano concorda: «Per me quelle parole hanno un enorme valore. So bene che il Pci nel 1956 non avrebbe potuto rompere con Mosca; non ce n'erano le condizioni. Il partito si sarebbe lacerato». Anche se «guardando indietro con gli occhi di oggi...». Di più, spiega a Repubblica : «È implicito, in questo riconoscimento al Psi, un ripensamento del rapporto tra i due partiti. Evidente l’attribuzione al Pci della responsabilità della rottura a sinistra».
Giorgio Ruffolo, un altro socialista ammaccato per anni dall'ostilità tra compagni, rilancia: «È difficile che in Italia un esponente di primo piano della politica dichiari di avere sbagliato su una questione cruciale. Napolitano ha il coraggio, l'onestà e la statura per farlo».
Il Riformista , che pure vorrebbe sempre un passo in più da una sinistra moderna, si associa: il messaggio quirinalizio «ha un grande valore politico». Tesi sposata anche da Valdo Spini («non è solo qualcosa che appaga l'orgoglio socialista») e perfino, sia pure con un filo di ironia, da un socialista fino a tre mesi fa sottosegretario di Berlusconi come Mauro Del Bue. Secondo il quale le parole di Napolitano sono «musica per le orecchie di chi ha direttamente vissuto gli anni delle odiose polemiche del Pci contro i socialisti autonomisti»".
Evviva. Anche i più affezionati sostenitori della lunghissima marcia di «Lord Carrington», anche i più fieri teorici della prudenza e della «gradualità» della politica, anche i più strenui avversari di chi come Libero raffigura il Capo dello Stato nei panni di un commissario dei soviet col pugno chiuso da cui scorre il sangue, dovrebbero tuttavia ammettere che tanto compita e ammirata commozione per la lettera a Giuseppe Tamburrano suona, diciamo così, un tantino esagerata. E torna a segnalare uno dei grandi problemi di questo Paese: lo strascico di errori, ricordi, rancori, silenzi, odiii e rimozioni del passato che troppo spesso intralciano quel confronto tra la destra e la sinistra che è la linfa vitale di ogni democrazia.
Certo, Napolitano può ben sentirsi offeso dall'ennesimo esame del sangue 38 anni dopo il suo comunicato che condannava (sia pure prendendosela anche con le «forze reazionarie» tese a oscurare «il patrimonio storico delle conquiste dell'Unione Sovietica») i carri armati a Praga e 28 anni dopo il viaggio negli Usa e l'articolo su Rinascita in cui liquidava l'idea che i brigatisti fossero «marionette opportunamente travestite della reazione» per «fare invece i conti con le degenerazioni, fino al delirio ideologico e al crimine più barbaro, dell'ispirazione rivoluzionaria del marxismo e del movimento comunista». Fini nel '94 diceva ancora che Mussolini era stato «il più grande statista del secolo» e una manciata di anni dopo era, senza strilli di prefiche, a Palazzo Chigi. Né si può chiedere a un uomo che ha fatto della sobrietà e delle parole posate una ragion di vita (il laburista Denis Healy lo descriveva ridendo come «la migliore imitazione che conosca di un banchiere della City») liquidi il suo passato come il presidente di An liquidò il proprio, prima del fondamentale viaggio a Gerusalemme, in una intervista alle «Jene».
Tra la resa incondizionata tratta da «Un pesce di nome Wanda» che Albertini chiese un giorno a Bossi («Sono molto spiacente e mi scuso senza riserve! Offro completa e assoluta ritrattazione...») e l'interminabile sgocciolìo di parole distillate di decennio in decennio, però, c'è forse una via di mezzo. E se è vero che lui stesso sentì il bisogno qualche mese fa di chiedere a Fassino e D' Alema di «ammettere di avere fatto valutazioni sbagliate, di avere commesso errori nei giudizi su Consorte», il capo dello Stato ammetterà che fa un certo effetto leggere sull' Unità oggi, che «già venti anni fa», nel 1986, lui riconobbe che «Giolitti aveva ragione». Tesi, del resto, sostenuta dieci anni fa in un articolo scritto di suo pugno: «Non è da oggi che la "scelta di campo", ideologica e politica, contro la rivoluzione ungherese e a favore dell’intervento sovietico viene considerata indifendibile anche da non pochi di coloro che la condivisero e la sostennero: compresi i giovani dirigenti di quel tempo, come me, che già nel trentesimo anniversario dei "fatti d'Ungheria" hanno riconosciuto pubblicamente le ragioni dei "dissenzienti" di allora, le ragioni di Antonio Giolitti».
È tutto lì, in quelle quattro parole: «già nel trentesimo anniversario...». Rispettosamente: vorremmo ci venisse risparmiato, nel 2016, di leggere che «già nel cinquantesimo anniversario» dei fatti d'Ungheria fu riconosciuto che Piero Nenni aveva ragione. O almeno ci fosse condonato l'aggettivo «storico».

Repubblica 31.8.06
Il socialismo liberale e l’economia di stato
di Franco Debenedetti

"IL socialismo riformista ha creduto in un'economia mista", scrive Anthony Giddens (Il secolo Postsocialista, la “Repubblica”, 29 Agosto), un compromesso in cui i settori chiave dell'economia restavano sotto il controllo dello Stato, e che "era sembrato in grado di funzionare grazie ai meriti (…) della teoria economica formulata da un liberale, John Maynard Keynes”. "Oggi”, continua Giddens, “la domanda chiave è se anche questo tipo di socialismo sia morto". Oggi? Nel 2006? Singolare domanda: è dal 1919 che prima von Mises in "Gemeinwirtschaft" e "Kritik des Interventismus" per citare solo i principali e poi Hayek negli anni 30, hanno dimostrato in modo logicamente inconfutabile che quel "compromesso" non poteva funzionare: ben prima cioé che si manifestassero le conseguenze distorsive, diseguali e dispersive di risorse" a cui ha portato, secondo Giuliano Amato, la sua traduzione anche nei contesti socialdemocratici. Singolarissima porsela, quella domanda, in un articolo che segue quello di Amato. Fu infatti lui a smantellare, quattordici anni fa, in pochi giorni, a volte in poche ore, la struttura con cui lo Stato controllava settori chiave dell'economia e della finanza, e ad iniziare a mettere sotto controllo i costi diventati insostenibili del welfare. Amato è "fiero di essere socialista" (la “Repubblica”, 28 Agosto) consapevole che i termini "eguaglianza e libertà hanno finito per contrapporsi", e che liberal-socialista è diventato un ossimoro. Nella tensione che ne deriva, e nella capacità di trarne la forza per convincere chi, da sinistra, vi si oppone, sta la sola speranza per la sinistra di essere lei a realizzare l'agenda delle riforme che Giddens ci elenca.

Il Riformista 31.8.06
Così Napolitano ha smontato l’ultimo alibi
di Paolo Franchi

E' stato un bene che Giorgio Napolitano le abbia scritte, queste poche righe a Giuseppe Tamburrano, per rendere pubblica testimonianza che nel 1956 ebbe ragione Pietro Nenni e torto chi, come lui, di fronte alla tragedia ungherese, condivise la scelta togliattiana di tenere senza troppi tentennamenti il Pci «da una parte della barricata». Per rintuzzare una campagna di stampa di destra, certo, e pure per togliere di mezzo ambiguità ed equivoci in vista della sua imminente visita a Budapest. Ma anche, e soprattutto, per rendere omaggio alla verità. E, aggiungerei, per togliere ogni residuo alibi, a cinquant’anni dalla rivoluzione d’Ungheria, a quella parte della sinistra italiana, più vasta di quanto comunemente si creda, che questa verità tuttora preferisce non guardarla in faccia.
Ebbe ragione Nenni, il socialista che aveva pagato il prezzo amaro della rottura del socialismo italiano in nome del fronte popolare, il premio Stalin per la pace che dopo la morte di Stalin si era chiesto più commosso e atterrito ancora dei comunisti cosa ne sarebbe mai stato del proletariato mondiale; e che però alla vista di quell’insurrezione nazionale, democratica e operaia repressa nel sangue dai carri armati sovietici aveva lucidamente colto, anche oltre il dolore e l’indignazione, come si stesse ormai aprendo una crisi forse assai lunga ma irreversibile del sistema comunista. Ed ebbe torto Palmiro Togliatti, e con lui non solo la generazione forgiata nel tempo del legame di ferro con l’Unione sovietica, ma anche e soprattutto la leva degli allora trentenni, i rinnovatori nella continuità proprio in quel frangente promossi a responsabilità di comando. Ed ebbero torto non perché non vissero con angoscia quel dramma, ma perché con tutte le loro angosce vollero credere, all’opposto del socialista Nenni, di avere a che fare con una crisi terribile si, ma nel sistema. Dunque, con un sistema che prima o poi, purché non si smarrisse la bussola, purché si riuscisse a trovare l’equilibrio possibile tra le resistenze dei conservatori e le impazienze degli innovatori, si sarebbe potuto riformare.
Tutto già chiaro, tutto già ovvio, tutto già scontato? Può darsi. Ma resta il fatto che a quell’errore figlio del loro peccato originale i comunisti italiani, lungo tutto il faticoso cammino in cerca dell’indipendenza da Mosca, restarono in ultima analisi impiccati, nonostante il dissenso per l’invasione della Cecoslovacchia, nonostante lo strappo di Enrico Berlinguer, fino al tracollo dell’Unione sovietica. E che salvo poche eccezioni neanche quando smisero di chiamarsi e di considerarsi comunisti vollero riconoscere, con l’errore loro, la ragione storica di Nenni e di quella parte del socialismo italiano che cinquant’anni fa iniziava la sua lunga marcia autonomista. Tra tutti i dirigenti del Pci, Napolitano è stato senza ombra di dubbio il più rigoroso e il più coerente nel prospettare al suo partito, in Italia e in Europa, un destino socialdemocratico. E ne ha pagato, a suo tempo, anche il prezzo. Se la sinistra italiana si è dissanguata in una estenuante guerra civile, e un simile destino non si è pienamente compiuto e forse non si compirà mai, consegnandoci a vacui, ricorrenti dibattiti sulla crisi dell’idea stessa di socialismo pur di evitare di chiederci perché mai solo qui non ci sia un grande partito socialista, è anche per via di quell’antico torto mai riparato e di quell’antica ragione mai riconosciuta. Con le sue parole, Giorgio Napolitano ha contribuito anche a restituire spessore e attualità politica alla riflessione già aperta sull’indimenticabile cinquantasei.



Repubblica 31.8.06
GALILEO, POETA DELLA LUNA
Il grande scienziato fu anche grande scrittore. Se ne parlerà al Festival della Mente di Sarzana
di PIERGIORGIO ODIFREDDI

Secondo Italo Calvino fu il massimo autore della letteratura italiana. E sarebbe ora di affiancarlo a Dante nelle letture in pubblico
Leopardi scriveva senza tenere conto delle scoperte di Newton
Prima di lui il viaggio sul nostro satellite era genere "fantasy"

Galileo è il più grande scrittore della letteratura italiana di ogni secolo. Affermazione perentoria, questa, che certamente farà sorridere di sufficienza il lettore umanista, pronto a consigliare al matematico di preoccuparsi degli argomenti di sua competenza.
Peccato però che l´affermazione sia di uno dei nostri maggiori letterati: la fece infatti Italo Calvino sul Corriere della Sera il 24 dicembre 1967, non mancando di suscitare reazioni e proteste. Carlo Cassola, ad esempio, saltò su a dire: «Ma come, credevo che fosse Dante! E poi, Galileo era scienziato e non scrittore».
Senza desistere, Calvino rispose precisando il suo pensiero su due piani. Il primo, interno, rilevava che «Galileo usa il linguaggio non come uno strumento neutro, ma con una coscienza letteraria, con una continua partecipazione espressiva, immaginativa, addirittura lirica». Il secondo, esterno, notava che «Galileo ammirò e postillò quel poeta cosmico e lunare che fu Ariosto», e che «Leopardi nello Zibaldone ammira la prosa di Galileo per la precisione e l´eleganza congiunte».
In altre parole, Galileo sarebbe il medio proporzionale fra l´Ariosto e il Leopardi, e i tre identificherebbero un´ideale linea di forza della nostra letteratura. Inutile dire che Calvino stesso si considerava un punto di questa linea, caratterizzata da una concezione della letteratura come mappa del mondo e dello scibile, e da uno stile intermedio fra il fiabesco realista e il realismo fiabesco. E niente forse esibisce questa comunanza di stili, più delle parallele e quasi identiche metafore che Galileo e Calvino fanno della scrittura stessa, come di un´interminabile e ininterrotta linea creata dal movimento della penna.
Leggiamo, infatti, nel Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo: «Quei tratti tirati per tanti versi, di qua, di là, in su, in giù, innanzi, indietro, e ´ntrecciati con centomila ritortole, non sono, in essenza e realissimamente, altro che pezzuoli di una linea sola tirata tutta per un verso medesimo, senza verun´altra alterazione che il declinar del tratto dirittissimo talvolta un pochettino a destra e a sinistra e il muoversi la punta della penna or più veloce ed or più tarda, ma con minima inegualità».
E, nelle ultime righe del Barone rampante: «Questo filo d´inchiostro, come l´ho lasciato correre per pagine e pagine, zeppo di cancellature, di rimandi, di sgorbi nervosi, di macchie, di lacune, che a momenti si sgrana in grossi acini chiari, a momenti si infittisce in segni minuscoli come semi puntiformi, ora si ritorce su se stesso, ora si biforca, ora collega grumi di frasi con contorni di foglie o di nuvole, e poi s´intoppa, e poi ripiglia a attorcigliarsi, e corre e corre e si sdipana e avvolge un ultimo grappolo insensato di parole idee sogni ed è finito».
E allora, perché avviciniamo Calvino e gli scrittori per il puro piacere di leggere, e Galileo e gli scienziati soltanto per il dovere di conoscere? Non avrebbe senso portare le pagine del Dialogo sulle pubbliche piazze, allo stesso modo in cui Sermonti e Benigni declamano i versi della Commedia? Col vantaggio, fra l´altro, di non essere costretti a sorbirci gli anacronismi del povero padre Dante, che con i suoi angeli e demoni oggi ci appare più un precursore dei fumettoni alla Dan Brown, che il cantore di una moderna visione del mondo?
In fondo, a voler dir lo vero, sono proprio le bassezze cosmologiche, teologiche, filosofiche e politiche di un´opera che già il Petrarca accusava di esser diretta a «cercare l´applauso della gente d´osteria», a renderla così adatta agli altissimi spettacoli del nostro maggior comico. Ma non sempre e non tutti abbiamo voglia di ridere, e a volte qualcuno potrebbe desiderare la seria lettura di pagine che fossero nobili e alte anche per il pieno contenuto, e non soltanto per la vuota forma. E che quelle di Galileo lo siano, lo dimostra già la breve citazione precedente sulla scrittura: lungi dall´essere una gratuita metafora letteraria, essa gli serve infatti come esperimento di pensiero per mostrare la relatività del moto del pennino rispetto a una nave in moto su cui si trovasse lo scrittore.
Più in generale, la nave su cui Galileo naviga letterariamente costituisce uno dei laboratori in cui si eseguono gli ideali esperimenti scientifici del Dialogo, e il fatto che su di essa la vita si svolga nella stessa identica maniera che sulla Terra, ad esempio per quanto riguarda la caduta di una palla di piombo o il volo di un insetto, dimostra la relatività galileiana: il fatto, cioè, che le leggi della meccanica sono invarianti rispetto a sistemi in moto uniforme, che risultano dunque indistinguibili fra loro da questo punto di vista. Tre secoli dopo Albert Einstein userà analogamente treni e ascensori per argomentare a favore, rispettivamente, delle relatività speciale e generale: il fatto, cioè, che anche le leggi dell´elettromagnetismo sono invarianti rispetto a sistemi in moto uniforme, e che gravitazione e accelerazione producono effetti indistinguibili fra loro.
Ma niente dimostra meglio la differenza tra le metafore fini a se stesse della letteratura d´evasione, e quelle mirate a uno scopo della letteratura di divulgazione, dell´uso che Galileo fa della Luna nel suo Dialogo. Prima di lui, e fino all´Ariosto, il viaggio sul nostro satellite e la sua geografia appartenevano infatti al genere fantasy, e i viaggi spaziali erano sorretti da inverosimili propulsioni: dalle trombe d´acqua della Storia vera di Luciano di Samosata all´ippogrifo dell´Orlando Furioso.
Con la prima giornata del Dialogo la Luna invece cambia faccia. O meglio, mostra per la prima volta il suo vero volto, con i monti e le valli che il cannocchiale ha permesso di scoprire, e appare come la conosciamo oggi grazie alle foto dei telescopi, dei satelliti e degli astronauti. E anche meglio, perché né Galileo, né il più o meno contemporaneo Keplero, autore di quel primo romanzo di fantascienza che è il Somnium, hanno avuto bisogno di recarvicisi di persona per capire come si sarebbe vista la Luna dalla Terra, con variopinti risultati che superano ogni sbiadita invenzione poetica.
Da un lato, infatti, la Terra ha nel cielo della Luna fasi uguali e contrarie a quelle che la Luna ha nel cielo della Terra. Dall´altro lato, poiché la Luna mostra sempre la stessa faccia alla Terra, quest´ultima si può vedere soltanto dalla faccia visibile della Luna; e dove si vede, appare fissa nel cielo. Il che significa che chi si trovi sulla faccia visibile della Luna in un periodo di Terra piena, può osservare «questo globo fatal», immobile nel cielo lunare, ruotare su se stesso nel corso di 24 ore: una meravigliosa dimostrazione visiva del moto di rotazione terrestre, che potrebbe far esclamare a un autocosciente poeta: «Che fai, tu, Terra, in ciel? dimmi, che fai, silenziosa Terra?»
I poeti dell´inconscio, invece, della Luna sanno soltanto una cosa: che c´è. Ma anche quelli dilettanti di astronomia non sanno molto di più, visto che persino il Leopardi amante di Galileo e amato da Calvino continuava a scrivere ignaro nel 1819 che la Luna «da nessuno cader fu vista mai se non in sogno», benché fin dal 1687 Isaac Newton avesse non solo composto il verso che «la Luna cade continuamente verso la Terra», ma aveva anche calcolato esattamente di quanto essa cade: fatte le debite proporzioni, esattamente della stessa quantità di cui cade una mela nello stesso tempo qui da noi. Dunque, di conseguenza, «la forza con cui la Luna è trattenuta nella sua orbita è quella stessa forza che chiamiamo comunemente gravità».
E allora, che si leggano pure nelle aule e nelle piazze i versi di Dante e Leopardi, per il piacere che l´aria smossa dalla voce di chi li declama dà all´orecchio di chi li ascolta. Ma che si aggiungano ai programmi di scuola e di teatro anche e soprattutto le prose di Galileo e di Newton, per far gioire la mente con quella che già Pitagora chiamava la Poesia dell´Universo: una poesia che «intender non la può chi non la prova», e che «non si può intendere se prima non s´impara a intender la lingua, e conoscer i caratteri, ne´ quali è scritta».

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