12.8.06

 
Liberazione 12.8.06
Le affermazioni di Bush e i giornali italiani
Il fascismo (casomai) è cristiano
di Piero Sansonetti

Bush dice che siamo in guerra contro i fascisti islamici. Quasi tutti i giornali italiani gli fanno eco, appaludono. Il “Corriere della Sera” - che non è l’organio di qualche partito xenofobo, o di una comunità religiosa cristiana ultratradizionalista e lefevriana, ma è il principale giornale italiano, il più autorevole, ed è tra i quattro o cinque giornali più importanti e prestigiosi d’Europa - pubblica un articolo di fondo di Magdi Allam, che con il solito equilibrio, e la sobirietà che gli è propria, ci spiega che Bush è stato fin troppo gentile con la marmaglia musulmana, e che noi italiani dovremmo farla finita di fare i pesci in barile, e dovremmo mettere tutti l’elmetto per evitare che i nuovi Hitler si impossessino dell’occidente. Allam, si sa, tra i fondamentalisti occidentali e cristiani è uno dei capifila; e tuttavia, se leggete “Libero” o il “Giornale” capite che Magdi non ce la farà mai ad essere il più estremista. Sul “Giornale”, Paolo Guzzanti scrive così: «I musulmani ci odiano per quello che siamo e rappresentiamo a casa nostra, odiano le donne che non siano schiave o mute, odiano la democrazia, la tecnologia e l’arte, non sanno che cosa sia la storia perché nella loro mente sincronica non esiste l’elemento che per noi è rappresentato dallo scorrere dei secoli. Per loro tutto è piatto, per loro tutto è sangue da versare...».
Nonostante questa prosa reazionaria e razzista, neanche Guzzanti ce la fa a vincere la gara del più estremista. La palma, al solito, va a Vittorio Feltri. Lasciamo stare il testo del suo articolo, ci limitiamo a citare il titolo a tutta pagina: “In mano agli imbecilli. L’islam ci vuole tutti morti. E la sinistra che fa? Scarcera i terroristi, fa italiani i clandestini, arresta chi ferma i kamikaze, smantella gli 007”.
Fermiamoci un attimo. Ragioniamo solo su due argomenti tra i tanti che ci vengono proposti (e che suscitano in noi un po’ di sdegno e un po’ di rabbia). Il primo argomento di riflessione è questa definizione assai originale inventata da Bush: i fascisti islamici. L’accostamnento tra fascimso e islam. E’ assolutamente infondato. E’ il frutto della solita incapacità della politica occidentale di guardare fuori dal proprio mondo e dai propri schemi. Il fascismo con l’Islam non c’entra niente, e non c’entra niente con il mondo arabo e con la sua cultura. Il fascismo (anzi il nazi-fascismo) è un fenomeno assolutamente europeo e occidentale, immaginato, costruito e realizzato dalle grandi borghesie europee, non ostacolato dalla Chiesa cattolica, tollerato per molti anni anche dai liberali, e conclusosi con un avvitamento su se stessa della civiltà occidentale che è arrivata a un passo dal collasso e dalla sua fine, ed ha portato l’umanità intera sull’orlo della barbarie e del disastro. E’ inutile che giriamo attorno alla questione: fascismo e nazismo riguardano noi e solo noi: non altri popoli. Lo Shoah l’abbiamo fatta noi, noi borghesi europei: gli arabi e l’Islam c’entrano niente di niente di niente. Noi dobbiamo elaborare il lutto e la vergorna di quell’orrore e di quella morte, ed è illegittimo proiettare i nostri complessi di colpa su popoli estranei e innocenti. Così come è del tutto illegittimo accostare il nazi-fascismo, inteso come “male assoluto” a una religione. E comunque, se proprio si dovesse accostare il fascismo a una religione, ci dispiace dirlo, ma l’unica religione che ha visto la sua gerarchia, la sua “Chiesa”, coinvolta col fascimo è stata la religione cristiana. Il fascismo non è islamico e casomai è cristiano.
Seconda riflesione: Feltri e i feltristi accostano il misterioro attentato sventato dagli inglesi al fatto che in Italia si vuole dare la nazionalità e il voto agli immigrati. Le due cose non hanno nessuna neppure lontana parentela. Come dimostrano, del resto, i fatti. Per esempio il fatto, spiacevole, che alcuni dei presunti terroristi sono ragazzi inglesissimi, biondissimi e con gli occhi azzurrro-mare. Che facciamo: leviamo la cittadinanza a tutti i giovani sotto i 25 anni? O a tutti coloro che non danno prova provata di essere cristiani e possibilmente di destra?
Infine una osservazione generale. Questa intellettualità conservatrice e reazionaria - il cui pensiero al momento è il pensiero prevalente negli organi di informazione italiani - si fa forte di due bandiere. La prima è la cristianità e la seconda è l’occidente. Loro dicono: bisogna difendere le radici cristiane dell’Europa, e dell’IItalia, e bisogna difendere la collocazione, la cultura e la tradizione occidentale e filoamericana.
Noi abbiamo molti dubbi su queste due affermazioni. Li mettiamo per un momento da parte. Ma cosa c’entrano gli articoli di Allam, o di Guzzanti, o di Feltri (e di molti altri) con la cultura e l’insegnamento cristiano? Niente. Per quel che abbiamo letto del Vangelo, di una cosa siamo sicuri: se Cristo Gesù incontrasse questi editorialisti per strada, dopo aver letto i loro articoli, sospenderebbe per un attimo il suo essere non violento (come fece quel giorno famoso nel tempio, coi mercanti) e li frusterebbe a sangue!
Non solo, ma se qualcuno di loro - sfuggito all’ira di Cristo - provasse a portare i suoi articoli nella redazione di un grande giornale americano (“Il New York Times”, o il “Los Angeles Time”, o il “Boston Globe”, eccetera), non so se il caporedattore la prenderebbe a ridere o se li caccerebbe a pedate nel sedere. Di certo su nessun giornale liberale americano sono mai apparsi articoli di questo genere. Anche perché - al di là del pensiero di Bush - gli intellettuali liberali americani considerano quelle invettive puro fascismo; e in alcuni Stati americani potrebbero persino finire sul tavolo di un giudice, con l’accusa di istigazione all’odio razziale, che lì è proibito.

Ansa 12.8.06
Festival di Venezia 2006
Il Premio Bianchi a Marco Bellocchio


ROMA - Va a Marco Bellocchio il Premio 'Pietro Bianchi 2006. Lo ha deciso il direttivo nazionale del Sngci, il Sindacato nazionale giornalisti cinematografici italiani che tradizionalmente assegna il Bianchi a Venezia, durante la Mostra del Cinema, in collaborazione con la Biennale e la direzione del festival.
L'8 settembre prossimo la consegna al Lido, con la proiezione alla Sala Pasinetti del Palazzo del Cinema di un film scelto dallo stesso Bellocchio: 'Il diavolo in corpo' con Maruschka Detmers, accolto nel 1986 come un film scandalo e tra i più sottovalutati nell'opera del regista, messo a disposizione per Venezia dall Istituto Luce, un occasione, per il Sindacato, anche per ricordare Leo Pescarolo che di quel film fu produttore.
Il Bianchì, lo scorso anno assegnato alle grandi firme della critica e del giornalismo per sottolinearne il valore professionale ma anche le difficoltà in un mondo editoriale sempre meno attento alla qualità dei contenuti, è il riconoscimento con il quale i giornalisti cinematografici tradizionalmente festeggiano a Venezia i protagonisti del miglior cinema italiano. Un premio al quale il Sindacato è particolarmente affezionato perché è intitolato alla memoria di un grande critico e giornalista.
Il Premio è stato negli anni assegnato ad attori come Alberto Sordi, Sophia Loren e Nino Manfredi, a produttori come Dino De Laurentiis e Goffredo Lombardo, ma ritirato, storicamente, soprattutto da autori come: Mario Soldati, Cesare Zavattini, Alessandro Blasetti, Renato Castellani, Luigi Zampa, Alberto Lattuada, Mario Monicelli, Luigi Comencini, Giuseppe De Santis, Francesco Rosi, Dino Risi, Ettore Scola, Paolo e Vittorio Taviani, Luigi Magni, Carlo Lizzani, Bernardo Bertolucci. Tra grandi firme come Age e Scarpelli, Suso Cecchi D' Amico e Peppino Rotunno, lo ha ritirato anche Michelangelo Antonioni che, proprio nel 1946, quando ancora non era passato dietro la cinepresa, è stato tra l altro tra i fondatori del SNGCI.

Repubblica 12.8.06
Le idee di un grandissimo fisico ossessionato dalla metafisica
Il saggio "Psiche e natura"
"La lezione di piano" è un racconto onirico
la quantistica alla ricerca della quarta dimensione
Uno dei suoi lavori più importanti era su Keplero
Ebbe Jung come terapeuta ed amico: entrambi svolgevano ricerche parallele
Lo scienziato appartiene alla sorprendente élite formatasi a Vienna nei primi del '900
di Eugenio Scalfari

È uscito qualche mese fa per i tipi della Adelphi-Biblioteca Scientifica il libro di Wolfgang Pauli intitolato Psiche e natura (pagg. 170, euro 24). Il titolo è affascinante anche se in questi ultimi tempi di libri dedicati a quel tema le librerie ne hanno ricevute cataste. Non conosco i dati delle vendite, l’argomento d’altra parte non è di quelli facili da grande pubblico. Il nome dell’autore tuttavia è di per sé in questo caso garanzia d’una qualità che stacca di molte leghe tutti gli altri che si sono recentemente dedicati al problema delle due culture: l’umanistica e la scientifica, la conoscenza oggettiva e quella soggettiva, le idee innate e la loro imperfetta realizzazione nel mondo empirico e infine e per dirla tutta l’esistenza culturale della metafisica oppure la sua definitiva detronizzazione.
Wolfgang Pauli appartiene a quella sorprendente élite scientifica formatasi a Vienna nei primi decenni del Novecento che, proseguendo e per certi aspetti modificando la grande rivoluzione effettuata da Einstein nel campo della fisica teorica, elaborò la fisica dei quanti. La quantistica sconvolse la fisica teorica mettendo in discussione addirittura l’essenza della materia, ipotizzando una sua struttura immateriale formata da onde, da campi dinamici, da numeri; rovesciando i principi della causalità e della contraddizione; introducendo principi nuovissimi come la complementarità, la quaternità, la sincronicità. C’è da stupirsi se nel corso di queste elaborazioni estremamente sofisticate si riaffacciasse la metafisica?
Non tutti gli scienziati di quella generazione rivoluzionaria cedettero alla tentazione di intrecciare ricerca psicologica e ricerca sperimentale nel perenne tentativo di arrivare ad un’unica spiegazione e ad un’unica chiave che risolvesse il "misterioso" e il "numinoso" che ci circondano. Tra loro ci furono molte discussioni in proposito e polemiche che arrivarono a mettere in crisi amicizie da tempo collaudate.
Pauli fu quello più intensamente impegnato nella ricerca di quella chiave. Stavo per scrivere di quella pietra filosofale e non avrei avuto tutti i torti a ricordare il sogno degli alchimisti di tre e quattro secoli fa che si dedicarono a scoprire il procedimento per trasformare in oro i più vili metalli. Alla base di quella ricerca più magica che scientifica c’era pur sempre il sogno d’arrivare all’essenza della verità, allo scioglimento del mistero, all’unità della conoscenza.
La vita di Pauli è stata breve: nacque nel 1900 e morì nel ‘58. Ebbe molte vicissitudini. Attraversò lunghi periodi di depressione, cercò di superarli con l’alcol e poi con l’aiuto di terapie psicologiche. Fu a quel punto che incontrò Jung, come terapeuta e soprattutto come maestro di idee e ricerche parallele alle sue anche se condotte in un campo molto diverso. Ne fu colpito e interessato, lo scambio intellettuale tra quelle due menti dette frutti imprevisti e per certi aspetti preziosi.
Il curatore del libro di cui ci stiamo occupando, Giuseppe Trautteur, ha premesso ai testi di Pauli una densa nota editoriale nella quale rimarca l’originalità del pensiero dello scienziato e la sua sintonia con quello di Jung e cita due brani stupefacenti che voglio citare anch’io perché danno il senso di tutto il libro.
«L’esperienza ha mostrato che sia la luce sia la materia si comportano da un lato come particelle separate, dall’altro come onde. Questo risultato paradossale ha reso necessario rinunciare - a livello di grandezze atomiche - a una descrizione causale della natura nel consueto continuum spazio temporale, sostituendola con invisibili campi di probabilità in spazi pluridimensionali che rappresentano propriamente lo stadio raggiunto dalle nostre attuali conoscenze in materia». Commenta il curatore del volume: «Pauli? No, Jung!» e prosegue la citazione: «La divisione e la riduzione della simmetria, ecco il cuore della bestia! Del resto la divisione è un antico attributo del Diavolo. Se i due rivali divini, Cristo e il Diavolo, sapessero che sono diventati così simmetrici!». Commenta ancora Trautteur: «Jung? No, Pauli!».
Ma per concludere con le citazioni significative, ne riporterò un’altra che traggo da una lettera indirizzata da Pauli al suo amico Markus Fierz nel dicembre del ‘47, mentre scriveva il suo saggio storico su Keplero, uno dei suoi lavori più interessanti tra quelli non strettamente concentrati sui temi della fisica nucleare.
«Ho proseguito il mio viaggio nel XVII secolo. Il fatto che Newton abbia per così dire collocato lo spazio-tempo alla destra di Dio, e cioè nel posto vacante del Figlio che lui aveva cacciato di lì, è una cosa particolarmente stuzzicante della storia dello Spirito. C’è voluto poi uno sforzo straordinario per tirare giù nuovamente spazio e tempo dall’olimpo. E questo compito è stato reso artificiosamente ancora più gravoso dal tentativo della filosofia di Kant di sbarrare alla ragione umana l’accesso a questo olimpo. Pertanto è per me particolarmente interessante l’epoca in cui spazio e tempo non erano ancora lassù, ossia la fase immediatamente precedente a questa fatale operazione. Di qui il mio studio su Keplero».
* * *
Di qui, appunto, il suo studio su Keplero. Keplero l’eliocentrico, Keplero il continuatore di Copernico e il "collega", se così si può dire, di Galileo. Con una differenza di fondo tra il tedesco e l’italiano: quest’ultimo non mescolò mai né coltivò in parallelo la ricerca sperimentale con inferenze di tipo religioso e anzi negò che vi potesse essere un rapporto meta-fisico tra l’astronomia e teologia. Keplero al contrario coinvolse ampiamente il suo eliocentrismo con la teologia e in particolare con il dogma della Trinità di cui fece addirittura la forza motivante dello stesso assetto cosmogonico.
Questa mescolanza tra due universi - quello del mondo e quello del sopramondo - è la vera ragione che spinge Pauli a studiare Keplero. Lo spiega d’altra parte lui stesso fin dalle prime pagine del testo ed è da quelle pagine che si riesce a comprendere a fondo non solo il pensiero di Pauli ma, attraverso di esso, la tendenza insita nella scienza quantistica di mettersi in cerca della «quarta dimensione».
Lì, per usare il linguaggio dello stesso Pauli, sta il cuore della bestia.
* * *
Il cuore della bestia, per dirla con parole meno immaginifiche e scientificamente più appropriate, consiste in un’ipotesi teorica formulata da Pauli con grande lucidità: l’esistenza di un ordine cosmico indipendente dal nostro arbitrio e distinto dal mondo dei fenomeni. Se questa ipotesi viene trasformata in una teoria - e questa è l’operazione compiuta da Pauli - ne deriva che tanto la mente di chi percepisce sensazioni sensoriali quanto ciò che viene percepito sono soggetti a un ordine pensato come oggettivo.
Si pone a questo punto la domanda di quale sia il ponte tra percezioni sensoriali e concetti, tra idee e natura. La risposta è inevitabilmente quella platonica: la concordanza tra immagini interne pre-esistenti nella psiche umana e gli oggetti del mondo esterno con le loro proprietà.
Ed ecco l’influsso junghiano, oltreché platonico, sul pensiero di Pauli: l’esistenza d’un mondo meta-fisico dominato da immagini originarie e archetipiche che svolgono la funzione di quel ponte tra percezioni sensoriali e idee, precondizione necessaria per la formazione d’una teoria scientifica della natura.
Arrivato a queste conclusioni che vanno di gran lunga al di là di tutta l’evoluzione della scienza sperimentale, da Newton fino ad Einstein e allo stesso maestro indiscusso della fisica quantistica, Niels Bohr, Pauli deve aver avuto il soprassalto di chi troppo ha osato mettendo in discussione i canoni fondativi della scienza e dei procedimenti razionali propri del pensiero moderno.
È lui stesso infatti ad avvertircene con una conclusione che sembra una brusca retromarcia: «Non bisogna tuttavia cadere nell’errore di attribuire questo "a priori" della conoscenza alla mente cosciente e di ricollegarlo a idee definite esprimendole in termini razionali».
Cerchiamo di interpretare questo errata corrige. Pauli tenta qui di compiere un’operazione del tutto astratta separando il "sé" dall’io, l’inconscio dalla mente cosciente, riservando a quest’ultima il diritto-dovere di continuare a ricercare e ad esprimersi in termini razionali nonostante l’irrompere delle intuizioni simboliche e delle immagini archetipiche che emergono dalla regione inconscia e sommersa del "sé".
È un’operazione sostenibile? Per certi aspetti sembra una rimembranza cartesiana che ricorda la netta separazione tra la res cogitans e la res extensa. Solo che in Descartes si trattava di delimitare il corpo rispetto alla mente, gli istinti del corpo rispetto alla razionalità della mente. Quella distinzione fu poi travolta dai successivi avanzamenti filosofici e scientifici. Di Cartesio rimase il vero nucleo del suo pensiero filosofico, quel «penso dunque sono» che acquisì una verità di permanente validità rinverdita due secoli dopo dall’"esserci" heideggeriano e fondativa dell’autonomia della coscienza individuale.
La distinzione pauliana tra le immagini intuitive e innate dell’inconscio e i processi razionali e sperimentali della conoscenza scientifica rappresentano invece il tentativo di reintrodurre il platonismo nel percorso della modernità scientifica. Una regressione che l’errata corrige pauliana non sana ed anzi rende più evidente.
* * *
Qui però soccorre il pensiero di Jung, metabolizzato e perfezionato da Pauli. Sarebbe sbagliato non tenerne conto e non sottoporlo a verifica.
L’errata corrige di cui abbiamo parlato è solo apparentemente una retromarcia di Pauli. In realtà lo scienziato della fisica quantistica parte pur sempre dai risultati ai quali è arrivata, anche per suo merito, la ricerca sui quanti, sulla spettrografia, sulla composizione dell’atomo e sulla funzione delle particelle che lo compongono.
L’insieme di queste ricerche e di queste acquisizioni giustifica, almeno agli occhi di Pauli, l’ipotesi junghiana della sincronicità. Cioè che in campi non necessariamente pertinenti al mondo fisico si verifichino eventi significativi che il mondo fisico non può ignorare anche se non riesce a inquadrarli nei suoi canoni e nelle sue leggi. Questi eventi si muoverebbero in una dimensione propria al di fuori dello spazio-tempo, al di fuori del principio di non-contraddizione, al di fuori dei nessi di causalità, al di fuori del secondo principio della termodinamica e della tendenza all’aumento dell’entropia. Al di fuori della concezione di materia corpuscolare.
Questo "al di fuori" avrebbe consistenza oggettiva e, preso nel suo insieme, darebbe vita ad una quarta dimensione non contro ma a fianco delle tre dimensioni dello spazio-tempo, che peraltro ne risulterebbero profondamente influenzate.
Che dire di questa teoria che mi sono permesso di battezzare "quarta dimensione" anche se Pauli non usa mai questa definizione? Quelli che hanno fatto della razionalità un’ideologia totalizzante si affretteranno a mostrare il pollice verso nei suoi confronti adducendo la (buona?) ragione che essa non ha alcuna verifica sperimentale e quindi per la cultura scientifica deve considerarsi inesistente. Anzi distorsiva. Anzi antiscientifica e regressiva.
A me non pare che sia questa una corretta posizione razionale. La ragione è il solo lume di cui disponiamo. Un lume tremulo e fioco che illumina davanti a noi e dietro di noi un’area infinitesima dello spazio e del tempo.
Tutt’intorno permane il buio. Noi avanziamo, acquisiamo nuove verità che in parte distruggono e in parte conglobano verità antiche. Complessivamente lo spazio-tempo illuminato dal nostro lucignolo resta il medesimo.
E tuttavia noi non possiamo escludere che nell’immenso buio che ci circonda non vi siano essenze che la nostra mente non riesce a intercettare. Non riesce per ora, ma forse potrà in futuro. Oppure non riuscirà mai a intercettare poiché quelle essenze si collocano su lunghezze d’onda da noi non percepibili e non decifrabili.
La nostra mente è il prodotto immateriale d’uno strumento materiale. E’ la musica che emana da un pianoforte. Se il pianoforte si rompe la musica cessa. Se il pianoforte è scordato la musica sarà dissonante. Quindi la mente è intimamente collegata allo strumento che la produce e questo a sua volta fa parte di un universo corporeo che interagisce con esso.
Questo è il poco o tanto che sappiamo di noi stessi, soggettivamente osservando gli altri nostri simili e ontologicamente osservando noi stessi con i limiti e le capacità che la nostra mente riflessiva possiede.
Ciò detto, tutte le teorie sono legittime, alcune sono meritevoli di esame. Restano concezioni meta-fisiche e come tali non escono dalla zona d’ombra e di mistero.
* * *
L’ultima parte del libro di Pauli si intitola La lezione di piano e merita un discorso a sé. Infatti non è un saggio scientifico ma un vero e proprio racconto, sia pure estremamente originale nella forma e nella sostanza. Lo definirei un racconto onirico. Ci sono tutti gli elementi di un sogno ed è lo stesso autore a dichiararlo. Ci sono diversi livelli di narrazione, diversi livelli di coscienza. Personaggi metaforici. Salti lessicali grammaticali sintattici. Soggetti simbolici e misteriosi. Echi gnostici. Compaiono, sotto opportuni ma decifrabili camuffamenti, Dio, il Figlio, il Diavolo. I colleghi scienziati dell’autore. La sua fidanzata intellettuale cui il saggio è dedicato. Una strega (?).
Insomma, un’opera letteraria estremamente complessa e affascinante forse compiuta sotto l’effetto dell’alcol tanto è visibile l’eccitazione creativa e visionaria, lo stato quasi di trance e una forza ignota che parla attraverso l’autore che scrive. Insomma una forma di "mania".
L’insieme di questo scritto non è riassumibile. Si può soltanto tratteggiarne la forma ed è ciò che qui ho tentato di fare.
Conosco bene l’editore della Adelphi, Roberto Calasso, e sono certo che la decisione di pubblicare questo libro così attraente ma così difficile sia stata presa soprattutto in funzione di questa Lezione di piano. Fosse stato solo per il saggio su Keplero forse il volume non avrebbe visto la luce in edizione italiana. La lezione di piano ha una forza stilistica, una densità onirica, uno spessore culturale e narrativo sorprendenti. Talmente congeniali a Calasso da far supporre un innamoramento immediato. In più è un testo enigmatico per eccellenza. In certe pagine riecheggia il Kafka della Metamorfosi, in altre il Bulgakov del Maestro e Margherita. E un’eco dei Rosacroce più che percepibile.
Questo dunque fu Wolfgang Pauli e la sua mente. Perché in realtà i testi non sono che la storia della mente di Pauli raccontata dalla mente di Pauli.

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